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La nostalgia degli atomi
La nostalgia degli atomi
La nostalgia degli atomi
E-book367 pagine5 ore

La nostalgia degli atomi

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Info su questo ebook

Bruges, tranquilla cittadina nelle Fiandre,
sonnecchia sotto una pioggia insistente.
Jensen, ispettore di polizia con un'insolita
passione per gli elettroni e i fotoni, conta i giorni
che mancano al pensionamento anticipato.
Nella cantina trasformata in laboratorio,
tutto è ormai pronto per l’esperimento della
doppia fenditura, nel quale è racchiuso il
“segreto” della meccanica quantistica e
dell’universo intero. A scombinare i piani
dell'ispettore, un ricco turista americano che
si presenta in commissariato affermando
di aver ricevuto una lettera minatoria. Il
giorno dopo, l’americano è morto e i suoi
figli, due gemelli undicenni, sono spariti. La
causa della morte è oscura: l’aorta è recisa
di netto dall’interno. La sua autopsia indica
un omicidio che supera le capacità umane.
Un’altra figura enigmatica, Annik O’Hara,
donna bellissima, cieca e poco incline ai
compromessi, è interessata, come Jensen,
a ritrovare i due gemelli, o meglio la loro
babysitter, Esperanza, una giovane messicana
con doti di chiaroveggenza che le ha ucciso il
marito. Le tracce porteranno Jensen e O’Hara
in Arizona, poi in Messico, in una apocalittica
Sierra Madre, ai confini del mondo spiegabile.
LinguaItaliano
Data di uscita5 nov 2015
ISBN9788865641125
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    Anteprima del libro

    La nostalgia degli atomi - Reichlin Linus

    NDR

    1

    Era il primo dei cinque giorni che mancavano alla fine. Jensen era seduto alla scrivania; fuori, una carrozza sostava sotto la pioggia. Avvolto in un mantello nero, il vetturino sedeva a cassetta piegato in avanti. Il cappello calato sugli occhi, sembrava dormire. I cavalli fremevano e sbuffavano piccole nuvole di fumo dalle froge.

    Qualcosa non va, pensò Jensen.

    Guardò l’orologio sulla parete. Stava osservando quell’uomo da otto minuti, il corpo continuava a incurvarsi visibilmente in avanti, ancora un po’ e il cappello gli sarebbe caduto. Jensen non sapeva spiegarsi come mai il vetturino aspettasse i clienti proprio lì, davanti al commissariato. Era l’edificio più brutto di Bruges, se qualche turista capitava in zona era solo per denunciare un borseggio. Come se non bastasse, pioveva da tre settimane, il vetturino doveva pur essersene accorto: in quel mese di agosto non si vedeva in giro una mosca, figuriamoci i turisti Sarà stato un uomo speranzoso, un povero illuso, pensò. Uno che dormiva a cassetta sotto la pioggia perché credeva nei colpi di fortuna, in un cambiamento insperato del tempo, nel sole che riappariva all’improvviso facendo spuntare i turisti come funghi, e insieme i ladruncoli che li avrebbero derubati costringendoli a venire in quel commissariato dove ad aspettarli c’era lui, seduto a cassetta, bagnato sì, ma fresco e riposato.

    Avrà avuto di queste fantasie, concluse Jensen stizzito.

    Distolse lo sguardo dal vetturino e lo posò sull’orologio: ancora sette ore e trenta minuti.

    Gli altri, i colleghi, se ne stavano curvi sulle pratiche da sbrigare, qualcuno con la testa pesante di noia fra le mani. Al minimo spostamento le sedie scricchiolavano. Impossibile, del resto, stare sempre nella stessa posizione, e poi loro non erano lì per fare yoga, erano persone dinamiche che avrebbero dovuto, piuttosto, scavalcare siepi, schizzare da un riparo all’altro o lanciarsi in un inseguimento sul selciato di Bruges alle calcagna di qualche ladruncolo, i loro corpi erano ben più adatti a quei movimenti che a scaldare la sedia a suon di scoregge. Già, perché quando erano costretti a passare troppo tempo seduti, gli attacchi di flatulenza erano il minimo che potesse capitargli.

    Jensen diede un’altra occhiata fuori dalla finestra. Il vetturino aveva ancora il cappello, per quanto sempre più sghembo.

    Se gli scivola a terra, pensò, scendo giù a vedere se sta solo dormendo.

    Un collega si schiarì la voce. Poi di nuovo silenzio.

    Seduto alla scrivania davanti a quella di Jensen, Stassen si stava grattando la schiena con una matita. Con la punta, beninteso. Scarabocchiando la camicia azzurra dell’uniforme.

    La matita, considerò Jensen, non se ne va facilmente. Chi, come lui, si faceva il bucato da solo, ne sapeva qualcosa.

    Cinque giorni, sempre cinque. Essendo il tempo inscindibile dallo spazio, secondo la teoria della relatività speciale solo un movimento molto rapido poteva ridurre quei cinque giorni a una misura sopportabile, eccetto, però, per il corpo che compiva quel movimento: questo era il dramma. Non aveva speranze. Per tenere a bada il tempo, Jensen doveva escogitare uno stratagemma diverso dal lancio nello spazio. Optò per i pensieri oziosi. E pensò alla piccola lastra di vetro che si era fatto tagliare appositamente per usarla come parete divisoria nell’esperimento della doppia fenditura. L’unico progetto che aveva per la sua vita da pensionato era questo. Secondo il fisico Richard Feynman, l’esperimento conteneva tutto il segreto della fisica quantistica e quindi del mondo e della sua essenza. Riprodurlo in cantina, era un compito gratificante per un uomo che lasciava il servizio a cinquant’anni.

    Ammesso di sopravvivere al discorso di commiato. Quello che Stassen, con ogni probabilità, stava buttando giù a matita su un foglio di carta.

    Jensen chiuse gli occhi.

    Immaginò cosa avrebbe detto Stassen alla fine del quinto giorno, nel momento fatidico in cui i colleghi si sarebbero riuniti in semicerchio intorno a Jensen con un bicchiere di aranciata in mano: il discorso di commiato.

    Ispettore Hannes Jensen, avrebbe detto Stassen. Nato e cresciuto a Costanza. Una città tedesca, come forse sapete. Ebbene sì, è tedesco, per quanto parli fiammingo meglio di tanti qui presenti. Fatta eccezione per l’accento e le parole che a volte gli mancano, e allora sostituisce con parole tedesche perché, ovviamente, sa che tutti noi, in cuor nostro, il tedesco lo parliamo benissimo. Non ci fosse stata la guerra, forse, e i tedeschi non avessero impiccato il nonno stimatissimo del Hoofdcommissaris Dupont, allora sì. Allora non sarei l’unico collega a voler tenere questo discorso. Qualcuno adesso penserà: capirai, anche Stassen è mezzo tedesco, basta guardare sua madre. E io non posso che rispondere: ‘fanculo! È stato l’amore a portare mia madre nelle Fiandre, e nient’altro che l’amore ha portato anche il nostro collega a Bruges quindici anni fa. L’amore per Margarete Streuper, la figlia del consigliere comunale Jan Streuper che tutti noi ancora ricordiamo e grazie all’appoggio del quale il nostro collega ha ottenuto il posto di ispettore. Lo chiamo appoggio per non chiamarlo intrallazzo, nepotismo o addirittura corruzione. E adesso vorrei chiederti, caro il mio Hannes: quando ti sarai congedato dal servizio con straordinario anticipo, di cosa vivrai? Della cospicua eredità che ti ha lasciato Margarete? Ho visto bene? Non sarebbe ora di ammettere pubblicamente quello che pensiamo tutti?

    Jensen aprì gli occhi di scatto, un brivido gli corse lungo la schiena.

    In tutti questi anni, si disse, quei soldi non li ho mai toccati. E non lo farò neanche stavolta. Gli altri pensino pure quel che vogliono.

    Guardò fuori dalla finestra. C'era stato un colpo di scena. Adesso il vetturino era riverso a terra, i cavalli, innervositi, tiravano i finimenti, sarebbero volentieri scappati via. Ferme in mezzo alla strada, sotto due ombrelli rossi, due signore guardavano il vetturino incerte sul da farsi. Una si girò e, scorgendo Jensen dietro la finestra, richiamò la sua attenzione con gesti concitati. Un lampo incise un reticolo nelle nuvole.

    «Là fuori c’è un tizio sdraiato a terra» disse Jensen a voce alta. «Il vetturino».

    I colleghi si girarono verso di lui.

    «Quale vetturino?» chiese Stassen.

    «Non importa quale» disse Jensen. «Dovreste occuparvi di lui. È qui, proprio davanti al commissariato».

    I colleghi corsero alle finestre. I corpi si allungarono per guardare. Era successo qualcosa, chi credeva in Dio lo stava ringraziando per quella benedizione. In men che non si dica erano tutti in strada per aiutare il vetturino. L’unico a restarsene in ufficio fu Jensen, adesso l’orologio alla parete ticchettava soltanto per lui.

    Misericordia, rifletté Jensen.

    Aveva compiuto un atto di misericordia. Un atto di carità. Avrebbe potuto non dire niente a nessuno, uscire da solo e occuparsi lui del vetturino. Ma il lavoro era un bene che scarseggiava, spettava a chi aveva ancora anni davanti a sé, mentre per lui si trattava di cinque giorni appena, un’eternità sopportabile. Per lui, non per l’Hoofdcommissaris Dupont, forse.

    Jensen guardò oltre l’acquario, il bugigattolo di vetro in cui Dupont stava parlando al telefono con qualcuno, probabilmente il suo medico curante. Dupont era perennemente preoccupato per la sua salute, sulla scrivania aveva sempre una scatolina di porcellana cinese del XIX secolo piena di pillole che ingoiava con stile. Quando si accorse che Jensen lo stava osservando, Dupont si alzò e tirò giù la veneziana.

    Fuori i colleghi facevano capannello intorno al vetturino formando due cerchi, uno interno e uno esterno; i colleghi del cerchio esterno dovevano accontentarsi di criticare l’operato dei colleghi del cerchio interno. La pioggia cadeva verticale, le due donne, le sole ad avere un ombrello, erano al margine della fila esterna, probabilmente si rallegravano di essere tanto fortunate: erano all’asciutto e non sdraiate in mezzo alla strada.

    Stassen, che aveva più anzianità di servizio, stava girando con cautela il corpo del vetturino quando il telefono sulla scrivania di Jensen squillò. Era Geldof, che da quando si era operato all’anca non era più idoneo al servizio esterno e non la finiva mai di far notare quanto fosse contento di lavorare in portineria.

    «C’è un signore davanti a me» disse Geldof. «Un turista. E qui sei rimasto solo tu. Gli altri sono usciti tutti. Quindi lo mando da te. Dice di essere stato minacciato. Ma parla solo inglese, e l’inglese tu lo sai. Forse vorrebbe dire qualcos’altro. Lo faccio passare».

    «Non so. Preferirei che tu facessi rientrare un collega. Sono lì a due passi» disse Jensen spiazzato dagli eventi.

    «Si è già avviato. Consideralo un regalo per il tuo congedo».

    Geldof riattaccò mentre il signore in questione stava entrando nell’ufficio, un tipo corpulento, pettinato come un manager, capigliatura folta ma bagnata che l’uomo, con un gesto plateale, si scostò dalla fronte. A ogni passo le scarpe stridevano, il tizio era uscito senza ombrello. Da giorni pioveva ininterrottamente e i taxi funzionavano. Eppure quello era arrivato fin lì a piedi e a giudicare dai vestiti, per quanto bagnati fradici, doveva venire da un albergo di lusso, De Tuilerieën, De Swan, Orangerie: qualunque fosse, per raggiungere il commissariato a piedi ci voleva un quarto d’ora buono. E allora come mai quell’uomo era senza ombrello?

    «Mi sono già annunciato» disse l’uomo in un inglese strascicato e nasale.

    Americano, pensò Jensen. Del Sud.

    «Certo» disse. «Sono stato avvisato».

    Indicò la sedia per i visitatori e l’uomo si sedette di fronte a lui. Riempiva tutto lo spazio fra i due braccioli. Gli occhiali si erano appannati, li asciugò con la punta della cravatta.

    «Un tempo da lupi» disse l’uomo. Per essere uno che si sentiva minacciato, sembrava molto tranquillo. «Come si fa a vivere in questo paese. È estate! Ma qui in Belgio la luce manca. Perfino in albergo. Ho tentato di leggere un libro, ma è impossibile. Alle undici del mattino è già buio e dappertutto ci sono quei benedetti paralumi napoleonici. Filtrano la luce, se vuoi leggere un libro ti tocca svitarli».

    De Tuilerieën, indovinò Jensen. Quell’albergo si ispirava, negli arredi, a Napoleone I.

    «Non sarà questo il motivo che l’ha spinta a venire qui» disse.

    L’uomo restò un attimo in silenzio, sembrava riflettere.

    «Ha ragione» rispose. «Il motivo non è questo».

    Porse la mano a Jensen.

    «Brian Ritter».

    Jensen la strinse, era molliccia e bagnata.

    «Sono un cittadino americano. Di Holbrook, Arizona. Sono qui con i miei due figli, voglio che vedano i cinque continenti. Ma lei non può capire. È una faccenda privata».

    Brian Ritter, pensò Jensen. Antenati tedeschi, e sta mostrando ai figli i cinque continenti. Una cosa che io non capirò mai.

    «Mister Ritter» disse. «Come mai è venuto qui?»

    «Per un motivo molto preciso. Ho osservato gli uccelli. Me l’ha insegnato un... un indiano. Prima di prendere una decisione importante, bisogna osservare il volo degli uccelli. Non ero sicuro di dover chiedere aiuto alla polizia, ma tre gabbiani sono volati da sinistra proprio sopra questo edificio. Ai miei occhi, il peggiore obbrobrio architettonico di tutta la città. Vedo che non mi ascolta. Pensa che stia dando i numeri. Prego, faccia pure. Ma si ricordi: esistono cose ben più assurde che osservare gli uccelli prima di prendere una decisione. Ha mai sentito parlare di Padre Pio? Conosce quest’uomo? Milioni di cristiani credono che abbia le stimmate e compia miracoli. È stato santificato dal Vaticano, si figuri, un uomo che pare avere il dono della bilocazione, uno che può essere contemporaneamente in due posti diversi! Se avessi detto: ho pregato Padre Pio e all’improvviso ho sentito che era giusto rivolgermi alla polizia, avrebbe pensato lo stesso che ero ammattito?».

    Sbronzo, osservò Jensen. Già a quell’ora del mattino.

    Strano che non se ne fosse accorto prima. Riconosceva un ubriaco a chilometri di distanza. Ma quel tizio era diverso, troppo in carne, i capelli lucidi, non opachi e secchi come da manuale, e non aveva il naso rosso tipico degli alcolisti. Gli mancavano le venuzze sulle narici e lo sguardo fisso, vuoto. Forse aveva cominciato a bere da poco.

    «Mister Ritter» disse. «Lei è in un commissariato di polizia. Non ci occupiamo di questioni religiose. Quando si è presentato in portineria, ha detto che qualcuno la stava minacciando. È di questo genere di problemi che ci occupiamo. Dica, ha ricevuto minacce? Da chi e perché?»

    «Sì, mi hanno minacciato».

    Ritter si avvicinò con la sedia alla scrivania. «Qualcuno vuole uccidermi. E questo non è un semplice frutto della mia immaginazione. C’è una lettera, una lettera minatoria. L’ho ricevuta stamattina. È nella mia stanza in albergo e vorrei che la vedesse. Non ho alterato niente. Lei sa che non bisogna cancellare le impronte».

    «E cosa c’è scritto nella lettera?»

    «Deve leggerla con i suoi occhi. Allora, forse, ci sarà una speranza».

    «Quale?»

    «Di sopravvivere, naturalmente. Di svegliarmi domani e respirare ancora. E farmi una sana cacata. L’avverto!» Ritter alzò l’indice. «La faccenda è molto seria. Altrimenti non avrei bevuto a quest’ora del mattino. Adesso è probabile che sia un po’ sbronzo. Ma questo non mi impedisce di fiutare il pericolo. Voglio che parli con i miei figli. Hanno paura, pensano che possa accadere qualcosa al padre. È comprensibile. Se lei parlasse con loro, si calmerebbero. Saprebbero che la polizia mi protegge. Avanti, mi faccia questa cortesia!»

    Ritter tirò fuori una fiaschetta. Ora i segni di una lunga esperienza c’erano tutti: il gesto preciso, misurato, con cui svitava il tappo e poi il modo incurante di bere sotto gli occhi di un estraneo.

    «Di solito non bevo mai così di buon’ora» ripeté quando ebbe finito. «Ma se potresti essere a un passo dalla morte...» Fissò un punto in lontananza. «Allora non te ne importa più».

    La luce dell’ambulanza proiettava sul viso di Ritter lampi azzurri. Jensen diede uno sguardo fuori. Un mezzo del pronto soccorso dell’ospedale Sint Jan. A sirena spenta. Il vetturino, probabilmente, era morto, ma poteva anche darsi che ci fosse poco traffico e la sirena, quindi, non fosse necessaria.

    «Sì» disse Jensen.

    Era a corto di idee, non sapeva che pesci prendere. Non ci fossero stati di mezzo i bambini, avrebbe cortesemente accompagnato Ritter alla porta. Vada e si ammazzi pure a furia di bere, purché lontano dalla mia vista. Osservi il volo degli uccelli e, per quanto riguarda Padre Pio, presenti i suoi reclami presso la congregazione vaticana di competenza.

    «Che età hanno i suoi figli?» chiese.

    «Dieci anni. Tutti e due. Sono gemelli. Hunahpu e Ixbalanke».

    «Si chiamano così?»

    «No. Si chiamano Rick e Oliver».

    Due ragazzini di dieci anni. Non aveva scappatoie, gli toccava aprire la porta di ferro e scendere in quei sotterranei nei quali in genere entrava solo nei sogni, sogni pieni di disperazione perché era come se la fine non arrivasse mai.

    Voglio essere assolutamente sincero, stava per dire. Non credo affatto che lei sia in pericolo, bensì che sia un pericolo per se stesso.

    Ma Jensen non diede voce a quel pensiero. Gli alcolisti, spesso e volentieri, soffrivano di deliri persecutori e discuterne con loro non aveva il minimo senso. Solo una cosa era certa: per amore dei bambini doveva occuparsi della faccenda, almeno accertarsi che stavano bene, compatibilmente con la situazione.

    2

    «L’albergo l’ha scelto il segretario privato di mia moglie» disse Ritter mentre con l’auto di servizio si dirigevano verso il De Tuilerieën, sul canale Dijver. «Per lui è romantico un uomo che declama Oscar Wilde indossando biancheria femminile. Quell’albergo ha la puzza di stantio che piace tanto ai gay, ma io mi attengo agli ordini».

    «Diceva che sta mostrando ai suoi figli i cinque continenti. Cosa significa esattamente? Un viaggio intorno al mondo?»

    Ritter intrecciò le mani, impresa ardua perché aveva dita cortissime e grassocce con strane unghie piatte. Dita sgradevoli, facili da immaginare in situazioni ripugnanti, dita avide, immature.

    «Un viaggio intorno al mondo, sì» disse Ritter. «In un certo senso. L’Eurasia è il primo continente, poi viene l’Africa. Le va un sorso? Niente paura, non ho malattie contagiose. Al massimo un’atrofia cerebrale».

    Ridendo porse a Jensen la fiaschetta.

    «No, grazie».

    «Perché no? Ha l’ulcera?»

    «Sono in servizio» rispose Jensen.

    «Se è per questo, anch’io! Mica sono qui in viaggio di piacere. Non ha visto quanto bevo? Ma, servizio o no, la cosa non mi dispiace».

    Ritter bevve e si asciugò la bocca con la manica.

    «E così un altro po’ di cellule se ne sono andate» disse allegro. «Il mio medico non ne sarà felice. Poco tempo fa, le dicevo, mi ha agitato sotto il naso lo spauracchio di un’atrofia cerebrale. Ho sempre pensato che solo il fegato potesse atrofizzarsi. E invece, a quanto pare, succede anche al cervello. Sono proprio curioso di vedere come».

    Ha già dimenticato di credere che qualcuno voglia ucciderlo, pensò Jensen. La noncuranza di Ritter lo infastidiva, così disse: «Dovrebbe prendere sul serio le parole del suo medico. A tutti gli alcolisti succede di trovarsi prima o poi con un cervello rimpicciolito. E di rimbecillire».

    «Sì, ma prima hanno visioni che gli astemi possono solo invidiare. Guardi per esempio questa città, Bruges».

    Ritter indicò le case ai lati della circonvallazione.

    «È una città incantevole» disse, «per la gente che cerca la tranquillità dei tempi passati, quando dietro a queste graziose facciate in mattoni si tossiva sputando sangue nei fazzoletti fatti ricamare per due soldi. Mio padre era aiuto macellaio al mattatoio, so di cosa parlo. Fiuto la povertà anche dove oggi è diventata attrazione turistica. Bruges è una città disgustosa tanto è ipocrita, la sua gente, ci scommetto, è scorbutica e villana. È così?»

    «Insomma» disse Jensen.

    «Sono scorbutici perché anno dopo anno devono dividere la loro città con stranieri che guardano estasiati i campanili delle chiese e fotografano ogni stupida anatra che mangia i rifiuti a mollo nei placidi canali. Alla lunga è insopportabile essere circondati da gente che vede tutte queste bellezze per la prima volta, mentre ci si augura di essere all’altro capo del mondo».

    Un po’ ha ragione, riconobbe Jensen fra sé.

    «Ma a me importa meno di niente» disse Ritter bevendo ancora un sorso dalla fiaschetta che non voleva saperne di vuotarsi.

    Jensen aprì tutti e due i finestrini anteriori, urgeva cambiare l’aria. Dai vetri abbassati entravano schizzi di pioggia, ma la puzza di grappa era davvero insopportabile.

    «Mi sto bagnando» protestò Ritter. «Insomma, non dovevamo essere già arrivati da un pezzo?»

    «Ci siamo».

    «A ogni angolo non si vedono che campanili!» disse Ritter schifato. «Si spera soltanto che il vostro Padreterno non ci si sieda sopra. Altrimenti ci resta inchiappettato! Lei è cattolico, vero? O sbaglio?»

    «Sulla carta» rispose Jensen.

    «Nella carta mio padre ci avvolgeva il cuore di maiale che regolarmente ci portava a casa. Tra il cuore e la carta, quindi, non è detto ci sia tanta distanza. Lei è cattolico. E questo ai miei figli piacerà. Sono cattolici anche loro. O meglio, lo sono diventati. Il Messico è vicino, sa com’è. Dove abitiamo, a Holbrook, ci sono parecchi wetbacks, insomma, parecchi messicani. Ce li teniamo in casa perché ci lavano i vetri delle finestre e ci scrostano i cessi. E alla fine accendono ceri alla Madonna nelle camere dei nostri figli e finisci sempre per trovare un rosario infilato dai bambini sotto la playstation. I miei piccoli pregano di nascosto il loro dio sulle nuvole e le assicuro che se questo dio esistesse davvero io sarei morto da un pezzo».

    Ritter scoppiò a ridere, battendo le mani contento.

    «Stavo scherzando» soggiunse.

    Chissà, pensò Jensen.

    La porta di ferro si era già spalancata. Poteva sentire l’odore di sua madre, del suo accappatoio, praticamente il diario della sua vita. Dentro c’era scritto il vomito, il gin rovesciato, il profumo dolciastro con cui tentava di ingannare se stessa.

    Alla fine raggiunsero il De Tuilerieën. Jensen imboccò una stradina che dava sul retro, il parcheggio era chiuso da un cancello in ferro battuto.

    Jensen scese dalla macchina, premette il pulsante del citofono e disse solo: «Polizia».

    Il cancello si aprì all’istante.

    Ecco, questo mi mancherà, considerò.

    Infilò la macchina nel parcheggio. Nella fretta di scendere, Ritter chiuse la giacca nello sportello e tirandola la strappò. Così se la tolse e la scaraventò sul cofano. Senza aspettarlo, in camicia a maniche corte e bagnato fradicio, attraversò a passi pesanti le pozzanghere del giardino d'inverno che conduceva all’albergo.

    «Resteranno di stucco» disse Ritter in ascensore.

    «Chi? I suoi figli?»

    «E chi se no. La pistola ce l’ha? Deve mostrargliela».

    La mostrerei ma a te, si disse Jensen.

    Ritter aprì la porta della camera e con un gesto cerimonioso l’invitò a entrare. Jensen esitò. Perché aveva riconosciuto quella stanza al primo sguardo, era l’immagine della camera da letto di sua madre, l’odore lo assalì come un branco di cani in un incubo. In pieno giorno c’era un’atmosfera serale, la stessa che aveva sempre circondato sua madre, le tende chiuse mentre fuori gli uccelli cantavano, il letto disfatto e usato a ogni ora, anche la vigilia di Natale quando il padre, con le lacrime agli occhi, ammucchiava nei piatti dei figli pezzetti di carne tagliata malamente. La carne, all’interno, era cruda, non so cucinare, diceva, non so farlo e basta. Allora impara, dicevano i bambini, per favore.

    Aiutaci.

    Sul comodino dei ragazzi c’erano bottigliette di digestivo. Jensen chiuse gli occhi. Impossibile. Li riaprì. Le bottigliette esistevano davvero.

    Ritter disse qualcosa, Jensen non ascoltò. era troppo impegnato a scacciare i ricordi. Erano un ricordo anche i ragazzini che sedevano sul letto, il ricordo di sé e delle sorelle. Che non lo salutassero e nemmeno si accorgessero della sua presenza gli sembrò del tutto normale.

    «È sordo?» disse Ritter battendo il pugno su una cassettiera. Sopra c’era una nave pirata di Lego che sotto il furore del colpo andò in mille pezzi. «Sto parlando con lei!»

    Jensen si affrettò a raggiungere la finestra e gli sembrò di impiegare un tempo infinito. Sudava, stava scoppiando di caldo, aprì le tende e fece entrare aria fresca. Fuori, nel parcheggio, una donna fumava una sigaretta, il fumo saliva da sotto l’ombrello, in lontananza la torre fortificata della chiesa di San Salvatore svettava nel cielo grigio. Era a Bruges, dieci minuti a piedi da casa sua, in Timmermansstraat, poteva lasciare quella stanza quando voleva, era adulto, era libero.

    «Be’, evidentemente no» disse Ritter. Aprì un cassetto e tirò fuori una bottiglia. «Ma adesso un sorso con me lo beve, l’impone l’ospitalità. Oliver, prendi due bicchieri per me e per l’ispettore!»

    I due ragazzini guardarono Jensen. Sarebbero stati uguali come due gocce d’acqua se il diverso rapporto con il dolore non li avesse cambiati. Uno, Oliver, sembrava spaventato, alle parole del padre chinava la testa ed era sul punto di balzare giù dal letto e obbedire all’ordine. Senonché l’altro, Rick, così almeno ricordava Jensen, lo trattenne. Sembrava stremato, solo gli occhi rossi non erano dovuti al pianto come quelli del fratello, ma allo sforzo di resistere. Uno aveva gettato la spugna, l’altro continuava a lottare.

    «Prenditeli da solo» disse Rick. «Noi non sappiamo dove sono».

    «Non importa» intervenne Jensen. «Non mi va di bere». L’aria fresca e la luce avevano messo in fuga il fantasma della madre, ora se ne stava rannicchiato nell’angolo, Jensen poteva sovrastarlo.

    «Adesso vorrei parlare con i suoi figli. Da solo».

    Oliver gli lanciò uno sguardo pieno di stupore. Possibile che qualcuno fosse venuto ad aiutarli?

    Non farti illusioni, pensò Jensen rivolgendogli un sorriso.

    «Aspetti per favore nell’altra camera» disse. «Avrà pure una camera sua».

    «Certo» disse Ritter. «Prendo sempre due camere. Dia un’occhiata in giro! Che disordine! Come fa a credere che io possa dormire nella stessa camera di questi due porcelli?»

    Un accappatoio era gettato sul pavimento disseminato di scarpe da uomo, biancheria, una cravatta, bottiglie vuote, niente che potesse ricondursi ai ragazzini.

    «Solo non mi faccio mettere alla porta» aggiunse Ritter. «Se vuole parlare con i miei figli, prego. Non sarò di alcun disturbo. Sapete perché l’ispettore vuole parlare con voi?»

    Ritter si sedette sul letto accanto ai bambini. Rick si allontanò, Oliver chinò la testa.

    «È qui per proteggermi» disse Ritter. «Non vuole bere con me, ma mi protegge. Se qualcuno prova a farmi del male, lo arresta e lo sbatte in galera. Non è così, ispettore? Gli faccia vedere la pistola. Su, forza, l’autorizzo espressamente. A scopo educativo».

    Ritter afferrò Rick, lo strinse a sé e si attaccò alla bottiglia. Rick si divincolò dall’abbraccio e con agilità felina saltò giù dal letto.

    «Non puoi sfuggire alle conseguenze!» gli gridò dietro Ritter. «Ogni azione ha le sue conseguenze. Anche un’azione segreta. Come quella che sussurri con un filo di voce quando sei convinto che nessuno ti senta. Un omicidio è un omicidio, e se qualcuno mi torce un capello finisce dritto in galera. Oliver, tu sei più sveglio di tuo fratello. Tu hai capito, ne sono sicuro. Vieni, fammi vedere che hai capito. Mostra all’ispettore che sai di cosa sto parlando».

    Oliver annuì. Con la piccola mano stretta nell'altra, faceva sì con la testa e si dondolava avanti e indietro. Rick aveva girato le spalle, stava risistemando gli alberi della nave pirata, cocciuto, con le dita tremanti.

    «Che aspetta a mostrargli quella stupida pistola?» sbraitò Ritter. Si alzò in piedi, bevve gettando indietro la testa e poi, furente, posò la bottiglia accanto alla nave pirata. Una fiancata crollò. Ritter sollevò la bottiglia e la schiantò di nuovo sulla cassettiera. La nave adesso era in mille pezzi. Con un gesto, Rick li spazzò via e andò a chiudersi in bagno sbattendo con violenza la porta.

    È un’epidemia, pensò Jensen.

    Tutto quanto stava accadendo gli era terribilmente familiare. Avrebbe dovuto fare qualcosa, ma lo spettro aveva ripreso forza e ora gli si avvinghiava alla gola. Guardala, gli mormorava, quell’ubriacona della signora Jensen.

    Non è mia madre, diceva lui.

    Nelle orecchie, le risate dei compagni.

    Non è mia madre! gridava, e quelli ridevano ancora più forte. Al ricevimento degli insegnanti, era entrata nell’aula barcollando, la maestra era ammutolita, poi aveva chiesto: Si sente bene, signora Jensen? Tutta Costanza ne parlava, la cosa era di dominio pubblico. Tua madre è malata, diceva la maestra. Era l’epoca in cui i negri si cominciava a chiamarli neri africani e gli alcolisti malati, come se gli uni c’entrassero qualcosa con gli altri.

    «Lei non è malato» disse Jensen senza riconoscere la sua voce.

    «Io?» domandò Ritter. «Sì, in questo caso lei ha perfettamente ragione. Sto bene, per il momento. Oliver ormai l’ha capito. Ma l’altro, il piccolo baciapile chiuso in bagno, di lui non sono del tutto sicuro. Insomma, perché non la fa finita e non gli mostra la pistola? So quello che dico. Lo conosco. Capisce le cose solo dopo averle viste».

    «Lei si è ammalato dopo aver deciso» disse Jensen. «Per la bottiglia e contro tutto il resto. I suoi figli si vergognano di lei, ma lei se ne frega. La prima cosa che hanno cercato di capire quando è entrato in questa camera era quanto aveva alzato il gomito. In quella bottiglia lei non sta annegando solo se stesso, ma anche i suoi figli. Il che non le fa né caldo né freddo. Questa è la verità».

    Ve lo giuro, diceva intanto sua madre, ve lo giuro sul corpo di Cristo, era l’ultimo bicchiere! Il corpo di Cristo era paziente, dalla sua croce guardava in basso verso mia madre distesa sulle scale con la fronte sanguinante, l’ultimo bicchiere della sua vita stretto in mano.

    «Ah, ecco chi è lei» disse Ritter. «Un bambino che è rimasto scottato. Me l’immaginavo. Chi era la spugna? Suo padre? Sua madre? Tutti e due? E adesso crede che il mondo continui a girare tutto intorno alla sua infanzia difficile. Lei sta commettendo un errore. Mi sta scambiando con qualcun altro. La verità è che lei non sa niente di niente, lei non

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