Borgo Lenin
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È attraverso gli occhi di un bambino, Libero che l’enigma di oggi si riallaccia alle radici del passato, un passato di passioni politiche, di miseria e solidarietà, di ferite e scelte dolorose come solo la guerra costringe a fare.
In questo viaggio della memoria sarà un giovane poliziotto, Fabio Sinigaglia della Questura di Ferrara, distratto, malinconico e un po’ filosofo, appassionato di musica rock e di cinema a cercare di ricostruire la trama con l’aiuto del suo sgangherato quanto umanissimo universo: colleghi amici per la pelle, baristi e maliarde di periferia, zelanti massaie con cagnolini epilettici, zie un po’ sciamane, colf corazzate, psicologhe metallare e un pigro felino tigrato di nome El Gato.
Un canto all’amicizia e all'umanità tra le nebbie e i campi di grano di un’Emilia Romagna che sa di Sergio Leone, di Fellini e di "Bella Ciao".
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Anteprima del libro
Borgo Lenin - Cinzia Romagnoli
Cinzia Romagnoli
Borgo Lenin
romanzo
Cinzia Romagnoli
Borgo Lenin
© Koi Press
Koi Press è un marchio editoriale di Openmind Srls
Via Volta 72, 20013 - Magenta (MI)
www.koipress.it
ISBN 978-8885769076
ISBN 978-8885769014 (edizione cartacea)
Progetto grafico: Koi Press
Immagine in copertina: Pexels.com
Prima edizione: Novembre 2017
Tutti i diritti sono riservati
La storia è di pura fantasia.
progetto editoriale sviluppato in collaborazione con
www.thinkabook.it
www.lorenzomazzoni.it
B O R G O L E N I N
a mio padre, a mia madre
alla mia terra
ai padri, alle madri che furono
ai figli, alle figlie che saranno
alla Necessità della Legge
alla Libertà dell’Amore
alla Saggezza della Morte
alla Quiete del Perdono
alla trionfante Bellezza della Vita
"La conoscenza del mondo è dissoluzione
della compattezza del mondo"
Italo Calvino
Prologo
Tabula Rasa II
Arvo Pärt
La morte non ha nulla di nobile. Nessuna bellezza. Ogni nostra riflessione su di essa non è che un eccesso di romanticismo. Morire. Che gran fregatura. Lo aveva sempre pensato. Prima, qualche istante prima di quell’abbandono del corpo, dell’arrestarsi degli organi, dell’istupidirsi della mente, la parola ci permette l’illusione d’una qualche solennità, d’uno straccio di senso, il conforto di un congedo dalla vita che ci piace pensare ancora profondo, significativo, umano. Qualunque cosa voglia dire.
Ma in quel momento, quando la morte si riprende ciò che è sempre stato suo, quando addenta ogni nostra fibra, in quel momento no. Si muore soli. Rabbiosi e disperati come cani randagi, che abbrancano rantolando persino la più schifosa delle vite. Di tutti quelli che aveva visto morire, di ognuno di loro, ricordava l’estremo scoprirsi devoti d’un qualche dio. L’implorarne la sovrana pietà. L’ateismo, pensava, era un lusso per il tempo di pace. Di quei volti rammentava l’invocare con insistenza la propria madre. La vita. La vita. Solo la vita. E il desiderio che non abbia fine. Mai. O che ricominci dal principio. Ancora una volta.
E poi l’affastellarsi scomposto dei pensieri, i più trascurabili, mediocri, prosaici. Niente di ciò che avevamo immaginato accadesse quando fosse arrivata la nostra ora.
Una bolletta. Pensa che deve pagare una bolletta. La vede lì, ripiegata sul tavolino di vetro dal bordo d’ottone chiazzato di verderame. Allunga la mano per afferrarla e barcolla sulle gambe malferme. Riesce a raggiungere con la mano sinistra una confezione di medicinali, la prima a caso delle dieci scatole di compresse che gli ha prescritto il dottore. Cardiomolc 100. Sì, sì, questa va bene, si ripete. Sì, mi farà bene. Ha curato il mio cuore malato per anni. Servirà anche questa volta. Ma che sciocchezza. Questa volta non servirà. Ecco, la mente è tornata lucida. Sente il sangue caldo scendere dalla testa lungo il collo e arrestarsi sulla camicia di flanella, rendendo la stoffa appiccicosa e umida. La tempia gli pulsa. Il dolore è lancinante. Un fragore come quello d’una cascata gli esplode al centro della testa, dietro gli occhi. La vista si annebbia. Vacilla di nuovo. Cade a terra e trascina con sé il giornale aperto sul bracciolo del divano e il vecchio vaso da fiori giallo chiaro con le figurine settecentesche dipinte. Si aggrappa con la mano destra alla poltrona di velluto marrone consunto, nel tentativo di rialzarsi. Il sottile tappeto di lana grigia scivola, si piega e s’ammucchia sotto il suo piede che cerca un appiglio, un punto d’appoggio. No. Non ce la fa. Non ce la fa più. Sente in sottofondo le voci sguaiate e un applauso provenire dal televisore acceso su un programma di intrattenimento. Dalla cucina l’odore del caffè sul fuoco e il borbottio della caffettiera.
C’è tanta luce. Cammina spavaldo e sorridente sulla strada che costeggia i campi. È primavera. L’aria è sfacciata, quasi crudele nella sua esuberanza, incurante d’ogni resistenza dell’inverno. Il cielo è basso, inondato da un sole bianco che si arresta sopra ogni cosa. Sul suo viso frusto. Sul verde intenso del grano ancora giovane. In lontananza le donne chine nei campi, coi loro fazzoletti colorati, cantano. E poi lei. In fondo alla strada, accanto al grande cespuglio di pesco selvatico in fiore. Lei. Gli occhi color del mare dal taglio all’ingiù. Gli sorride mentre lo attende, quel suo sorriso che scopre solo gli incisivi, leggermente premuti contro il labbro inferiore. I capelli scuri che scendono sulle spalle da sotto il berretto di pelliccia. Come ti chiami? Chi sei? Non se lo ricorda. Una donna che ha amato. Molto tempo prima. Altrove. No, non ora. Non adesso. Almeno il tempo di ricordare il suo nome.
La vista lo sta abbandonando. Eppure sa che lui è lì. Lo intravede sfocato e in controluce davanti a sé, poco più di una sagoma dai contorni oramai sfuggenti. È al centro della stanza. Indietreggia. Si muove come un fantoccio. Sbatte il fianco contro una sedia. Poi si fa sempre più piccolo e lontano. È lui. È stato lui. Per tutti quei morti. Per ognuno di loro. Questo pensiero gli dona una sorta di pace, per un istante, fino a quando un conato di vomito lo fa ripiegare faticosamente di lato. Sente freddo. Vomita. Ansima. Tossisce. Una tosse profonda. Disumana. Poi un lungo sospiro, impastato, interrotto nella bocca spalancata sui denti ingialliti dal fumo e dagli anni. Natàlia. Si chiamava Natàlia. Ora se lo ricordava.
***
Ah no, eh! Ancora il televisore acceso… da tre giorni. Anche di notte. Così proprio no!
sbottò la vicina ansimando, appena giunta sul pianerottolo. Si srotolò in fretta la pesante sciarpa di lana rossa avvolta attorno al collo taurino e si sbottonò il cappotto dello stesso colore stretto sull’enorme seno cadente. Posò le borse della spesa con forza, quasi con violenza, tanto che una bottiglia sul fondo sbatté contro il pavimento di marmo. Ora l’avrebbe sentita, eh sì. Che poi quel vecchio non le era mai piaciuto. Così burbero, così per conto suo. Buongiorno, buonasera e via. Erano pur sempre vicini di casa, no? Mai nessuno che lo venisse a trovare, un figlio, un nipote. Una badante. Insomma, qualcuno! Non capiva perché così malmesso non stesse in qualche casa di riposo. Con tutto quello che si sentiva in giro poi, non era neanche sicuro per un vecchio vivere solo. Il mese scorso i ladri erano entrati dalla signora del primo piano. E per fortuna che lei non era in casa! Sennò chissà che cosa avrebbe potuto succedere! I soliti rumeni. O dei negri. Non se lo ricordava. Ma tanto era uguale. Tutta la stessa feccia. Oramai non si poteva neanche più star tranquilli a casa propria. E comunque questa storia del televisore doveva finire. Che maleducazione!
Estrasse la chiave dalla borsa, l’infilò nella toppa e appena entrata nel corridoio d’ingresso chiamò a gran voce il marito, che andasse a suonare il campanello di quel vecchio rimbambito e gliene dicesse quattro. Il marito, magro e con il mento prominente, si alzò dal divano sbuffando e pigramente si diresse in ciabatte verso la porta d’ingresso fin sul pianerottolo. Dopo aver premuto più volte il campanello, come fanno i bambini, guardò la moglie con sguardo vacuo e sentenziò: Non risponde
.
Come non risponde?
fece la donna.
Questa mattina mi pare d’aver sentito aprirsi la porta. Sarà uscito
, e nel dirlo si riavviò verso il proprio appartamento sperando, invano, che anche per la moglie la questione fosse chiusa.
"Se il televisore è acceso deve essere in casa".
Sì, ma non risponde. Forse è morto
.
La donna spalancò gli occhi azzurro chiaro, al centro dei quali si distinguevano nettamente le minuscole pupille nere, come due punte di spillo.
Morto!?? Ah, ci manca solo quello! Un bel morto nel palazzo!
.
Capitolo 1
A Horse with no Name
America
Quella mattina l’agente Sinigaglia avrebbe dovuto essere in ferie, ma Rizzieri, da imboscato qual era, aveva fatto i suoi soliti giochetti con la 104, e il turno, all’ultimo momento, era toccato a lui. Che era l’ultimo arrivato, trasferito alla Sezione Volanti da neanche un anno e al suo secondo incarico che non fosse il solito pattugliamento appresso agli oramai noti quattro spacciatori a pedali o a sedare lo scontro tra nigeriani e il comitato residenti in zona stazione. Non poteva certo mettersi a questionare.
Era teso. Fino a tre mesi prima aveva lavorato in quel buco di commissariato di paese dove l’attività che più s’avvicinava all’investigazione era l’inserimento dati in HAL 9000 – così aveva incominciato a chiamare il terminale del sistema di indagine, giusto per farci almeno amicizia – durante i turni al centralino. In più, si sentiva una specie di corpo estraneo in quel via vai di colleghi più anziani, navigati e disillusi. Ciò che quella mattina tuttavia lo metteva maggiormente in agitazione era il fatto che il collega con cui avrebbe dovuto fare il sopralluogo, Giannotta, non avesse molta esperienza più di lui. Insomma, in due non ne facevano uno sano, pensava. Sembravano proprio una barzelletta. Vero era che si trattava di un semplice accertamento. Appena quei quattro della Mobile coinvolti nell’incidente fossero rientrati dalla convalescenza ecco che non ci sarebbe più stata carenza di personale e per loro due arrivederci e grazie. Tirò fuori dalla tasca la pompetta per l’asma, la portò alla bocca e aspirò profondamente. In quel momento Giannotta, arrivando da dietro, gli diede una pacca sulla schiena.
Ehi Sinigaglia! Ci sei? Sentito che c’aggregano alla Mobile? Decreto del Questore!
.
Giannotta ecchecazzo, sta’ un po’ attento! Sì, ho sentito...
.
Bene! Piglia le chiavi, guida tu e io intanto me guardo ‘n po’ ‘ste carte che c’han mandato da Bologna
.
Dove dobbiamo andare?
chiese Sinigaglia mentre scendevano le scale.
Mah, in provincia, una frazione di… aspetta ‘n po’… ecco, San Biagio d’Argenta. È verso la Romagna… dev’essere un paese de quattro anime. Insomma, pure qui c’han proprio dato il solito caso da FBI
rispose Giannotta strascicando le ultime parole e spostandosi improvvisamente verso la parete, cercando di assottigliarsi il più possibile. Sul pianerottolo avevano incrociato il nuovo vicequestore vicario, una donna alta e pallida, con lunghe mani affusolate e lo sguardo profondo e severo, che li guardò di passata e rispose al loro buongiorno
pronunciato all’unisono con un sorriso di cortesia, annuendo con la testa e rivolgendosi poi di nuovo al corteo di passacarte che aveva al seguito.
Eh?
fece Giannotta ammiccando, una volta arrivati nell’atrio che s’affacciava sul cortile interno. Un certo pezzo, eh?! Te ‘o sai come se chiama quella? L-u-d-o-v-i-c-a G-r-a-n-i-e-r-i R-i-v-e-l-l-i… c’ha due cognomi… una de gran classe
.
Sì lo so che è una di classe… però pare che non vedi ‘na donna da cent’anni!
.
A Serpico, e datte ‘na calmata!
ribatté l’altro mentre salivano sulla Giulietta parcheggiata in fondo al piazzale. E poi te l’hai guardata bene a mi moje?
.
"Meeena, me! disse ridendo Sinigaglia, sedendosi al posto di guida e togliendosi il cappello. Giannotta gli piaceva. Grassottello e sempre un po’ sudaticcio, con la barba che sembrava di due giorni anche quando era appena uscito dal barbiere tanto era nera e folta, era uno trasparente, uno con gli occhi buoni come quelli dei cani. Uno che le inquietudini, così pensava Sinigaglia, se le risolveva parlandone, andando allo stadio il sabato pomeriggio a tifare una squadra che non era la sua – ma tanto era lo stesso, perché
’a Maggica diceva
è come er primo amore… dopo quello, tutte ‘e femmine so’ uguali" – o al centro commerciale con la famiglia. Il fatto è che Sinigaglia lo invidiava. Avrebbe voluto avercela lui quella pacifica, atavica, assoluta capacità di planare sulla vita, anche la più mediocre, con un cuore pulito.
La casa era una costruzione di mattoni con le finestre bordate di intonaco bianco che sul fronte, proprio sopra la porta d’ingresso, riportava in rilievo la data del 1920. Lungo la strada alberata che dalla statale conduceva alla chiesa ve ne erano altre simili e probabilmente contemporanee, memoria tangibile di una certa edilizia fondiaria e industriale che punteggiava la campagna delle tre province che lì si incontravano e anche oltre, a nord lungo la via Emilia e giù a sud verso il mare e la Romagna. Attorno alla casa si estendeva il giardino il quale, nella tenue luce invernale che si posava sui rosai spogli e sulle foglie dorate lasciate a marcire sul prato, conservava una bellezza antica, come fosse sempre stato lì, immobile ed inviolato.
L’agente Sinigaglia si guardò intorno, si mise il cappello, chiuse l’ultimo bottone della giacca a vento e premette l’indice sul campanello che riportava, scritti a penna blu sotto un pezzetto di plastica trasparente ricurvo, i nomi A. Costa - L. Fabbri. Suonarono ripetutamente, rimanendo in attesa per dieci minuti almeno. I due si guardarono perplessi, come a dire e adesso?
.
Qua non ci sta nessuno, Sinigaglia. Proviamo a fare un giro sul retro dài, tanto il cancello è aperto, mica lo forziamo
disse Giannotta mentre già spingeva leggermente il piccolo cancelletto in ferro grigio e imboccava, tra due lingue di erba dura e imbiancata dalla galaverna, il breve sentiero di ghiaia che conduceva al portone d’ingresso. Girarono a destra, percorrendo tutto il marciapiede lungo il perimetro della casa. Sul lato dell’edificio il giardino s’apriva in una lunga distesa di prato e alberi. In fondo, un grande ciliegio spoglio e scuro si ergeva maestoso nella leggera foschia, quasi a custodire quel luogo straordinariamente silenzioso e immobile che odorava di terra bagnata e di resina. D’improvviso una coppia di tortore spiccò il volo uscendo dalla chioma di un alloro posto al centro del prato. Sinigaglia portò la mano destra sul fianco, per tastare la pistola sotto l’imbottitura della giacca antivento. Ne sollevò il lembo e strinse il calcio della sua Beretta. Non aveva mai sparato, tranne al poligono durante gli addestramenti, e controllare di averla con sé, toccarla, lo faceva sentire al sicuro. Giannotta era qualche metro più avanti e come lui si era bloccato sul posto voltandosi indietro di scatto. Niente, solo delle tortore
disse Sinigaglia. Entrambi tirarono un sospiro di sollievo e sorrisero, più distesi al pensiero che non ci fosse un reale pericolo. Esaminarono lo spazio tutt’attorno. Dietro la casa, appoggiati al muro di una vecchia rimessa, c’erano degli attrezzi da giardinaggio e una piccola ascia arrugginita piantata su un grosso ciocco di legno. Attraverso il vetro di una porta notarono un tavolo, una lavatrice e un fornello con a fianco un lavandino quadrato e profondo, l’arredo essenziale di quello che doveva essere un locale di servizio e che da quelle parti chiamavano bassocomodo. Sul tavolo, ricoperto da una tovaglia di plastica a fiori viola, erano sparsi pennelli e barattoli di vernice e mordente. Appoggiati al muro, in disordine, vi erano una dozzina di specchi di ogni misura, alcuni con la cornice smontata, altri rotti, altri, a giudicare dalla brillantezza del legno e dall’odore pungente che giungeva nonostante la porta chiusa, con la cornice dipinta di fresco.
D’un tratto dalla porta sul retro della casa uscì un vecchio con un secchio di plastica vuoto. Rimase per un istante fermo in piedi con gli occhi ben aperti, poi li strizzò e allungò il collo grinzoso in avanti, quasi a voler tentare di riconoscere, al di là della divisa, i volti dei due che gli stavano di fronte.
"Scusate, non vi avevo sentiti arrivare... una volta c’era mia moglie, la mia Lucia, che ci sentiva bene, ma adesso… da quando sono rimasto da solo, son diventato ancora più sordo! Non vi avrà mica chiamati quella brutta vecchia della mia vicina, vero?! Beh, ditele che io il mio albero, quello che va nel suo cortile, non lo taglio! C’ag vina un azidént a lìa...".
Veramente noi…
disse Sinigaglia con l’espressione attonita di chi, immaginandosi nei propri sogni di gloria coinvolto in una eccitante sparatoria alla Callaghan, s’era in realtà trovato buttato di peso in una scena degna de Il presidente del Borgorosso Football Club con Alberto Sordi.
No, guardi… c’è un equivoco. Noi non siamo qui per la sua vicina, si tratta di una cosa un po’ più complessa ecco… dovremmo farle delle domande, non ci vorrà molto tempo
riprese Sinigaglia, tentando, per quanto possibile, di calmare quell’animo riottoso che, a dispetto dell’età, sembrava godere di ottima salute.
Lei è il signor Antèlamo Costa?
chiese Giannotta alzando la voce e guardando con la coda dell’occhio Sinigaglia, come a cercare da lui un segno d’approvazione al volume che stava usando per farsi capire dal vecchio.
Antèlamo… sì e no. Nessuno mi ha mai chiamato così. Una volta era diverso coi nomi, sa? Se mi aiutate a portare la legna in casa vi racconto
. E si incamminò verso la rimessa, dove si trovava la legnaia. Zoppicava. Poi si fermò, li guardò pensando che erano troppo giovani per aver mai spaccato legna per riscaldarsi e aggiunse in tono didascalico, a chiarimento della sua richiesta: In casa è freddo, il fuoco muore se non ci mettiamo della legna
.
Giannotta e Sinigaglia si guardarono, sempre più perplessi. ‘Qui al massimo abbiamo a che fare con un furto di uova’ pensò Sinigaglia.
Il vecchio si infilò nella legnaia, una piccola stanzetta di mattoni disordinata e senza finestre, e iniziò a riempire il secchio.
Antèlamo era il nome di mio nonno
incominciò, rivolto verso la catasta di legna, ma il volume della voce lo rendeva perfettamente udibile dall’esterno. "Allora, dovete sapere che quando mio babbo andò all’anagrafe, tre giorni dopo che ero nato – perché a quel tempo eravamo mezzadri in valle, verso Anita, e c’erano venti chilometri lungo gli argini in bicicletta fino al Comune – l’impiegato non mi ha voluto registrare col nome con cui poi tutti m’han sempre chiamato per il resto della vita, ossia Libero. ‘I soliti nomi sovversivi di voi comunisti’, ha detto quel fasista d’Andreghetti, così si chiamava, un ometto secco secco e grigio che se non ci fossero stati i neri non avrebbe vissuto neanche quei vent’anni convinto di contar qualcosa. ‘Élòra é ciamèn Giuseppe’, ha detto quindi il babbo bestemmiando. ‘Come Giuseppe Stalin!’. Avete capito? E alla fine, gli è toccato cambiar di nuovo e lì su due piedi, con quell’altro che già pensava di fargli dare le bastonate dalle squadracce di Balbo che erano ad Argenta, lì su due piedi, dicevo, m’ha chiamato come il suo babbo. Che era stato sempre un gran lavoratore, sia chiaro, uno che anche da vecchio aveva fatto lo scariolante in bonifica, che s’era consumato di fatica tutta la vita quando in valle si moriva di pellagra e di colera, insomma. Ma se non fosse stato per quel fasista, lui quel nome non l’avrebbe mica scelto. ‘Io i miei figli li voglio liberi e comunisti anche nel nome!’, diceva, ‘che à fèr d’là fadéga pàr i padròn ag sèn bèla basta nuèltar vècc!’. E poi gli è andata male lo stesso, perché son nato io, così malaticcio che da giovane non ero neanche buono di lavorare in campagna e portare a casa il pane. E se un uomo non lavora, ditemi voi, come fa ad essere libero?".
Dopo il lungo monologo dentro la legnaia, il vecchio era finalmente uscito e ora li guardava dritti negli occhi con aria interrogativa, prima l’uno e poi l’altro. I due poliziotti sospirarono accennando un mezzo sorriso, un misto di impazienza e di quella cortesia con la quale si perdona ai vecchi e agli stupidi una qualche mancanza.
Giannotta si offrì di portare il secchio con la legna. Il vecchio li precedette dentro casa. Con gesti lenti e sicuri infilò alcuni ciocchi dentro la vecchia cucina economica bianca con su scritto La Germania. Il fuoco riprese a borbottare all’interno. Poi si strofinò le mani su un canovaccio logoro e lo appese al binario della stufa. Sinigaglia scrutava tutt’intorno, frugava con gli occhi i gesti del vecchio e poi la stanza, come un cane da caccia dopo che ha ricevuto l’ordine dal padrone, puntando lo sguardo vigile su ogni oggetto, tendendo le orecchie, allargando le narici, quasi che da ogni pertugio potesse balzare, da un momento all’altro, la preda che stava cercando.
Il vecchio, dal canto suo, lo avvertiva lì vicino, lo percepiva con la coda dell’occhio, ne sentiva l’energia giovane e volitiva. Come un animale che non sappia ancora se potersi fidare oppure no, se l’altro sia un amico o un avversario, il vecchio restava in attesa. Dietro l’apparenza combattiva e affabulatoria avvertiva dentro di sé quella soggezione, quella vergogna, quel senso di colpa che sempre provano i vecchi davanti a tutti quelli che portano una divisa o hanno studiato più di loro. ‘Eppure’, pensava, ‘quando ero giovane, non avevo paura. E quelli, le guardie a cavallo, non erano mica signorine da andarci a spasso come questi due qui. Quelli ti caricavano e ti sparavano senza pensarci due volte’.
Li fece accomodare, si presentarono e offrì loro