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Il cigno nero di Parigi
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E-book553 pagine8 ore

Il cigno nero di Parigi

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Info su questo ebook

«Emozionante e potente.» 
Pam Jenoff

Parigi, 1944. La celebre cantante Genevieve Dumont è una star coinvolta in operazioni di spionaggio. Venerata dai nazisti, la sua posizione di privilegio le permette di passare inosservata come alleata della Resistenza.
Ma quando la madre, con cui ha allentato i rapporti, Lillian de Rocheford, viene catturata dai nazisti, Genevieve è sconvolta. Sa che non passerà molto tempo prima che la Gestapo riesca a estorcere a Lillian informazioni chiave sull’imminente invasione alleata.
Il movimento della Resistenza ha il compito di metterla a tacere ricorrendo a ogni mezzo necessario, compreso l’assassinio. Ma Genevieve non può permettere che la madre diventi un’altra vittima della guerra.
Riunitasi con la sorella, deve trovare il modo di attraversare la Francia occupata senza essere scoperta: una missione estremamente pericolosa, in cui chiunque potrebbe far saltare la sua copertura, e una corsa contro il tempo scandita da rischi continui. Riuscirà a salvare la vita di Lillian?

Un’autrice bestseller mondiale tradotta in 17 lingue

Un mondo in guerra. Una giovane di talento. Una missione di cui nessuno sospetta.

«Karen Robards è una delle voci più interessanti  della narrativa sulla seconda guerra mondiale.  Emozionante e potente.» 
Pam Jenoff, autrice del bestseller La ragazza della neve

«Un romanzo straordinario, scritto magistralmente, che mi ha catturata sin dalla prima pagina. Una storia che ci ricorda l’importanza dell’amore, della speranza e del coraggio.»
Heather Morris, autrice del bestseller Il tatuatore di Auschwitz

«Gli appassionati di storia apprezzeranno l’accuratezza della ricostruzione, mentre gli amanti del romanticismo e della suspense seguiranno avidamente Genevieve nella sua avventura mozzafiato.»
Booklist
Karen Robards
È un’autrice bestseller apparsa più volte sulle pagine del «New York Times», di «USA Today» e di «Publishers Weekly». Ha all’attivo diversi romanzi ed è stata vincitrice per sei volte del prestigioso premio Silver Pen. Vive nel Kentucky con il marito.
LinguaItaliano
Data di uscita2 feb 2021
ISBN9788822745934
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    Anteprima del libro

    Il cigno nero di Parigi - Karen Robards

    Capitolo 1

    15 maggio 1944

    Quando la cosa peggiore che possa mai capitarti è già accaduta, tutto ciò che viene dopo non ha davvero importanza. La condizione di apatia che ne derivava era quasi piacevole, se non altro perché permetteva di non ripensarci troppo.

    Lei era Genevieve Dumont, una cantante, una star. La sua ultima esibizione in uno dei più importanti teatri di Parigi, che aveva registrato il tutto esaurito, si era conclusa con una standing ovation di cinque minuti poco meno di un’ora prima. Era acclamata, ammirata, celebrata ovunque andasse. I nazisti la adoravano.

    Non aveva ancora compiuto venticinque anni. Era bellissima con indosso gli abiti eleganti post-spettacolo, proprio come in quell’istante. Non indigente, non infelice.

    In un periodo caratterizzato dalla paura e dalla fame di massa, da un numero di morti su scala globale così elevato da non essere mai stato registrato prima nell’intero corso della storia umana, si riteneva fortunata. Se ne rendeva conto.

    La persona che era stata prima, l’evento che l’aveva quasi distrutta – quella vita apparteneva a qualcun altro. Per la maggior parte del tempo, non riusciva neppure a ricordarsela.

    Si rifiutava di ricordarsela.

    Una sirena risuonò lacerante a pochi metri di distanza dalla macchina in cui si trovava. Stupefatta, si rimise composta sul sedile, con il cuore in subbuglio, e si guardò intorno.

    Lo sanno? Ci stanno seguendo?

    Un gruppo ristretto di fan l’aveva attesa fuori dall’ingresso degli artisti. Uno di loro le aveva ficcato il programma dello spettacolo fra le mani, chiedendole un autografo per Francoise. Aveva firmato – Che il tuo cuore possa sempre cantare, Genevieve Dumont – come le era stato ordinato. Cosa significasse, non lo sapeva. Sapeva che significava qualcosa; era un incontro prefissato e il messaggio in codice che aveva abbozzato era destinato alla Resistenza.

    E ora, appena qualche minuto più tardi, ecco apparire la Milizia, l’odiata polizia francese che da tempo si era schierata dalla parte dei nazisti, che li seguiva a ruota.

    Si sentì pervasa da un’ondata gelida di paura, proprio mentre un paio di auto della polizia si avvicinavano, seguite da un camion militare. Procedendo senza luci, apparvero soltanto come giganti sagome nere, il cui passaggio infastidì la grande Citroën che, fino a quel momento, si trovava sola in strada. Una frazione di secondo e l’autista – Otto Cordier, che lavorava per Max, il suo agente – frenò di colpo. La macchina si fermò.

    «Sacre bleu!». Sbalzata, riuscì a malapena a non finire contro il sedile anteriore, gettando le braccia in avanti. «Cosa sta succedendo?»

    «Un blitz, penso». Osservando fuori dal parabrezza, Otto aveva afferrato il volante con entrambe le mani. Era un uomo anziano, basso, filiforme e con i capelli bianchi. Lei riusciva a percepirne la tensione in ogni singola linea del corpo. Davanti all’auto, illuminata dal chiaro di luna che aveva aggiunto alla scena sfumature di un grigio pallido, il corteo che li aveva sorpassati stava ora bloccando il passaggio. Lei lanciò una rapida occhiata all’indietro, per lo stridore dei freni e per la presenza di un’ombra che si stagliava da una parte all’altra dell’edificio più vicino. Un altro camion militare si fermò con un sussulto, occupando la strada alle loro spalle, senza consentire alcuna via di uscita. Gli uomini – soldati tedeschi insieme a ufficiali della Milizia – si riversarono fuori dal veicolo fermo. Quelli dietro superarono la Citroën come in uno sciame e si precipitarono verso un luogo che, con esitazione, Genevieve riconobbe essere un condominio di sei piani che, buio e silenzioso, occupava un giardino recintato.

    «Oh, no», disse. La paura per lei e per Otto si allentò, ma il petto le si strinse dalla compassione per i bersagli del blitz. Era raro che le persone catturate dai nazisti nel cuore della notte rientrassero a casa.

    Gli ufficiali bussarono con violenza alla porta d’ingresso. «Aprite! Polizia!».

    Erano da poco passate le ventidue. Il silenzio che avvolgeva la città era pressoché assoluto, fino a quando il rumore della sirena non l’aveva squarciato. A causa dell’oscuramento, imposto in maniera tassativa, le strade erano tanto buie e misteriose quanto la Senna vicina. Aveva piovuto durante la giornata e, prima della sirena, la grande Citroën era stata la cosa più rumorosa nei paraggi, schizzando acqua dalle pozzanghere mentre si dirigevano verso il Ritz, dove avrebbe alloggiato per la durata del soggiorno parigino.

    «Se continuano ad arrestare le persone, presto non rimarrà più nessuno». Lo sguardo di Genevieve si inchiodò su un contingente di soldati che si sparpagliava attorno all’edificio, cercando all’apparenza un’altra entrata – o altre uscite da poter bloccare. Un gruppo fece sbattere un cancello con alte punte in ferro, che conduceva al giardino recintato da muretti in mattoni. Non aprendosi, i soldati proseguirono oltre, sparendo dietro l’angolo del palazzo. Lei ne riuscì a seguire i movimenti grazie alle torce, dotate di coperchio scanalato per dirigere la luce verso il basso e rendersi così invisibili ai piloti dei raid aerei parigini, le cui incursioni sempre più frequenti avevano suscitato al contempo gioia e timore nei cittadini ormai piegati dalla guerra. Il loro movimento appariva come l’irregolare sfarfallio delle lucciole nella notte.

    «Hanno paura, e questo li rende ancora più pericolosi». Continuando a seguirne gli spostamenti, Otto abbassò di poco il finestrino, per sentire meglio ciò che stava accadendo. Il profumo di terra indotto dalla pioggia si era confuso con il debole odore di fumo di sigaretta, diventato un tratto distintivo dell’automobile a causa delle Gauloises interminabili di Max. La tessera gialla, il lasciapassare di cui avevano bisogno per potersi trovare in strada dopo il coprifuoco, messa bene in vista sul parabrezza, le impediva di vedere l’angolo più remoto dell’edificio, verso cui pensò si precipitassero i soldati. «Sanno che gli Alleati stanno per arrivare. I bombardamenti alle basi della Luftwaffe, proprio qui in Francia, le vittorie riportate sul fronte orientale – stanno per essere messi con le spalle al muro. Faranno tutto il necessario per sopravvivere».

    «Aprite la porta o la sfondiamo!».

    Il poliziotto colpì la soglia con il manganello. Il rumore scandito dell’urto risuonò nel bel mezzo della notte. Genevieve tremò, immaginandosi il terrore delle persone all’interno.

    Deboli fasci di luce apparvero tra gli squarci di alcune tende spesse che ricoprivano le finestre dell’intero edificio, quando, con molta probabilità, gli inquilini osarono sbirciare fuori. Una donna, anziana e ricurva – c’era luce sufficiente nel corridoio alle sue spalle per permettere a Genevieve di intravedere questo particolare – aprì la porta d’ingresso.

    «Fuori dai piedi!».

    Fu ricacciata in maniera brutale all’interno del condominio, mentre la polizia e i soldati facevano irruzione. Il suo pianto spaventato si convertì in un urlo stridente, che fu presto spezzato.

    La bocca di Genevieve si seccò. In fretta, si strinse le mani fredde sul grembo.

    Non c’era niente da fare. Era il mantra della sua vita.

    «Possiamo ripartire?». Aveva imparato, in una scuola severa, che non aveva senso tormentarsi per ciò a cui non poteva rimediare. Rimanere e osservare quello che sapeva sarebbe successo – l’arresto dei partigiani, che avrebbero subìto un’esecuzione immediata non appena fossero giunti nel luogo in cui li avrebbero condotti, o, forse e ancora peggio, dei civili, in un assortimento di donne, bambini, persone anziane, intenti a tenere stretti i pochi effetti personali che erano riusciti ad afferrare, a incedere sotto la minaccia delle armi fuori dall’edificio e a essere caricati sui camion per la deportazione – le avrebbe spezzato il cuore per giorni senza essere loro di aiuto.

    «Siamo bloccati». Otto si voltò a guardarla. Non capì cosa avesse visto sul suo volto, ma di qualunque cosa si trattasse gli provocò una smorfia e gli fece afferrare la maniglia della portiera. «Vado a vedere se riesco a farne spostare uno».

    Una volta uscito dall’auto, lei lasciò che la testa si posasse sulla testata arrotondata del sedile in pelle della Citroën, fissò il soffitto e cercò di non pensare a cosa sarebbe potuto accadere alle persone nell’edificio. Emettendo respiri profondi, cercò con tutte le sue forze di allontanare le grida smorzate e i tonfi che le giungevano all’orecchio, concentrandosi invece sul suo corpo come, in quanto artista, era abituata a fare. Si sentiva debole, era troppo stanca. Le pulsavano le tempie. Le gambe le facevano male. I piedi le dolevano. La gola – quell’ugola d’oro che le aveva permesso di sopravvivere – era come attorcigliata in un nodo. Di proposito, rilassò i muscoli e sollevò la sciarpa, fino a infilarla più in alto, nello scollo del cappotto, per riscaldarsi.

    Un bagliore di luce nell’oscurità catturò la sua attenzione. Girò la testa per capirne la fonte. Guardando attraverso le sbarre di ferro del cancello in giardino, scoprì una porta laterale nell’edificio, che si stava aprendo di nascosto e con fare lento.

    «C’è qualcuno lì dentro? Esci o sparo». Il volume delle grida dei soldati era aumentato in maniera esponenziale verso il nuovo varco tra le mura. La minaccia gutturale risuonò sopra ad altre meno percepibili, e lei capì che stavano perquisendo l’edificio.

    La porta laterale si spalancò. La luce interna si riversò su di una figura intenta a uscire di soppiatto: una ragazza, alta e magra con scuri capelli ricci e con addosso ciò che sembrava essere un cappotto sbottonato, gettato sopra alla camicia da notte. Tra le braccia aveva un bambino piccolo, con gli stessi capelli ricci scuri.

    La luce si spense. La porta si chiuse. Genevieve si rese conto di avere il naso quasi appiccicato contro il finestrino, nel tentativo di trovare la ragazza nell’oscurità. Le ci volle un secondo, ma poi notò la sagoma ora indistinta fuggire attraverso il giardino, verso il cancello, cercando di scappare.

    Le spareranno se la prendono. Lo stesso varrà per il bambino.

    I tedeschi non avevano pietà per chi incontravano lungo il loro cammino.

    La ragazza raggiunse il cancello, per poi fermarsi. Una mano pallida afferrò una sbarra. Dallo sferragliamento metallico che le era giunto all’orecchio, Genevieve pensò che stesse spingendo l’inferriata, tremando. Dette per scontato che fosse chiusa. In ogni caso, non si aprì. Poi, quella stessa mano si intrufolò tra le sbarre, insieme a un braccio troppo magro, allungandosi e tirando.

    Verso cosa? Troppo buio per dirlo.

    Con la Citroën ferma in mezzo alla stradina stretta e con il giardino a soltanto un metro o poco più di distanza dalla facciata dell’edificio, la ragazza era abbastanza vicina perché Genevieve ne potesse leggere la disperazione nel linguaggio del corpo, ne vedesse la maniera con cui continuava a voltarsi verso la porta ormai chiusa. Il bambino, che sembrava avere circa dieci mesi, pareva addormentato. La piccola testa riccia riposava fiduciosa sulla spalla della ragazza.

    Uscire dalla macchina non fu una decisione consapevole. Genevieve lo aveva appena fatto, e si rese conto del rischio che stava correndo soltanto quando i tacchi alti iniziarono a risuonare sui ciottoli. Il rumore sembrava fendere la notte e le lanciò un fulmine di paura.

    Torna in macchina, le urlò il sentimento di autoconservazione, ma non lo fece. Tremando per la minaccia latente degli enormi camion militari che incombevano vicini su ogni lato della Citroën, per l’auto della polizia parcheggiata storta sulla strada, per la luce che si riversava dalla porta d’ingresso ancora aperta e per i rumori del blitz che imperversavano all’interno dell’edificio, lei proseguì, facendo attenzione a rimanere in silenzio proprio ora che si era lanciata verso la ragazza rimasta intrappolata.

    Ti stai mettendo nei guai. Stai mettendo nei guai Otto, Max, tutti. L’intera rete…

    Con il sordo battito del cuore, arrivò al cancello. Nell’istante in cui i loro occhi si incrociarono, la ragazza ritrasse con forza il braccio e si avvicinò.

    Il profumo dolce dei fiori che proveniva dal giardino sembrava offensivo, se paragonato alla paura e alla disperazione che percepiva in lei.

    «Va tutto bene. Sono qui per aiutarti», bisbigliò Genevieve. Afferrò il cancello, tirandolo e spingendolo mentre parlava. Le sbarre di ferro erano rigide, fredde e scivolose, a causa dell’umidità presente nell’aria. Nemmeno lei riuscì a muoverle. Il rumore metallico, prodotto dagli scossoni contro i punti di sostegno, le produsse sudori freddi. Fu avvolta dall’oscurità, seppur attenuata dalla luce della luna, e non credette di riuscire a mettersi in salvo. Dopotutto, aveva visto la ragazza dalla macchina. Bastava soltanto un soldato attento, un poliziotto che sbucasse da un angolo o uscisse dall’edificio e guardasse in quella direzione, e poteva essere vista. Catturata. Intenta ad aiutare una fuggitiva a scappare.

    Le conseguenze sarebbero state disastrose. Reclusione, deportazione, morte persino.

    Il battito le si accelerò.

    Pensando a Max, a ciò che avrebbe detto.

    Dall’altra parte del cancello, la luce illuminò due grandi occhi scuri, inseriti in un volto così magro che le ossa sembravano premere contro la pelle. La ragazza doveva avere la sua stessa età ed essere la madre del bambino. Il bambino addormentato – Genevieve non sapeva se si trattasse di un maschio o di una femmina – aveva indosso un pigiama intero con i piedi.

    Sentì un tuffo al cuore.

    «Oh, grazie a Dio. Grazie». Bisbigliando a sua volta, la ragazza si sporse attraverso le sbarre per toccare il braccio di Genevieve, in segno di gratitudine. «C’è una chiave. Nella fontana. Nella bocca. Apre il cancello». Lanciò un altro debole sguardo. Spostandosi da un piede all’altro, riusciva a malapena a reggersi in piedi dall’agitazione. La paura la travolse. «Sbrigati. Per favore».

    Genevieve guardò nella direzione indicata, notando la pietra ovale di una fontana tra i mattoni, con al centro la testa scolpita di un leone, dalle fauci spalancate, da cui con molta probabilità doveva fuoriuscire l’acqua. Sondò la cavità, passando le dita tra la pietra levigata, più volte.

    «Non c’è nessuna chiave», disse. «Non è qui».

    «Deve esserci. Deve esserci!». La ragazza alzò il tono di voce, tremando. La testa del bambino si mosse. Lei emise un suono rassicurante, lo fece oscillare avanti e indietro, gli dette una pacca sulla piccola schiena, e il bambino si rimise comodo con un sospiro. Assistendo alla scena, una voragine si spalancò nello stomaco di Genevieve. In fretta, guardò in basso e si accovacciò per controllare a terra, sotto alla fontana, nel caso in cui la chiave fosse caduta. Era troppo buio; non riusciva a vedere. Passò la mano sopra al selciato. Nulla.

    «Non è…», iniziò a dire, rimettendosi in piedi, per poi restare in silenzio e trattenere un respiro quando la porta, da cui era uscita la ragazza, si aprì. Questa volta, in uno spiraglio di luce, vi era un soldato.

    «Dio mio». Il sussurro della ragazza, quando si voltò a guardare, fu a malapena più di un respiro, ma era così carico di terrore da far rizzare i peli dietro alla nuca di Genevieve. «Cosa devo fare?»

    «Chi c’è laggiù?», urlò il soldato. Con la pistola pronta in mano, puntò la torcia verso il giardino. La luce si diffuse sopra un ammasso confuso di peonie rosa, sopra gli arbusti verdeggianti e incolti, sopra i tulipani rossi che si stagliavano tra le erbacce, per poi raggiungerle. «Non riuscirete a nascondervi».

    «Prendi il bambino, per favore». La voce era rotta dalla paura, la ragazza spinse il pargolo verso di lei. Genevieve sentì crescere un’ondata di panico: se la donna avesse saputo, lei sarebbe stata l’ultima persona a cui avrebbe lasciato il figlio. Ma non c’era nessun altro, quindi non aveva altra scelta. Mentre una piccola gamba e un braccio si sporgevano dal cancello, lei e la ragazza cercarono di spostare il peso della creatura attraverso le sbarre. Le loro mani si toccarono e Genevieve ne riuscì a sentire il sudore freddo sulla pelle, facendola rabbrividire. Senza il bambino tra le braccia, ora la sagoma oscura di una stella gialla a sei punte diventò ben visibile. Il terrore per ciò che stava accadendo sconvolse Genevieve.

    La ragazza sussurrò: «Si chiama Anna. Anna Katz. Dille dove mi trovo, così da farla venire alla fontana…».

    La luce le raggiunse.

    «Tu lì, vicino al cancello», gridò il soldato.

    La ragazza si voltò con un sussulto.

    «Alt! Rimani dove sei!».

    Con il cuore in gola, il sangue tramutato in ghiaccio, anche Genevieve si voltò, nella direzione opposta. Avvolta dalla notte, corse verso la macchina cercando di passare il più inosservata possibile, attenta a non fare rumore con i tacchi sul selciato, tenendo la bambina vicino al petto e mettendole una mano sui capelli corti e setosi. Quel profumo delicato, la sensazione di quel corpicino saldo addosso, tutto le generò un’esplosione di emozioni da farle girare la testa. Il fremito di terrore nello stomaco assunse la forma di un nodo – e poi il dimenarsi della piccola e i suoni leggeri di scontento la riportarono di colpo alla realtà.

    Se avesse pianto…

    Il terrore fece comparire sulla bocca di Genevieve un sapore amaro e aspro.

    «Shh. Shh, Anna», canticchiò con aria disperata. «Shh».

    «Ho detto alt!». L’urlo del soldato giunse non appena Genevieve arrivò alla macchina, afferrò la maniglia e aprì la portiera con un gesto brusco…

    Bang. Il latrato di una pistola.

    Il pianto straziante di una donna. Il pianto straziante della ragazza.

    No. Genevieve urlò, ma soltanto nella testa. Il senso di colpa derivato dall’essere scappata, di averla lasciata indietro, le si abbatté contro come una macchina in corsa.

    Soffiando il fischietto con forza, il soldato si precipitò giù dagli scalini. Molti altri apparvero sulla porta, seguendo il primo e scomparendo dalla visuale.

    Le avevano sparato? Era morta?

    Dio mio, Dio mio. Il cuore di Genevieve batteva all’impazzata. Si gettò insieme alla bambina sul sedile posteriore e – con dolcezza e attenzione – chiuse la portiera. Perché non osò fare nient’altro.

    Codarda.

    La bambina iniziò a piangere.

    Mentre fissava fuori dal finestrino, pietrificata all’idea di vedersi comparire, da un momento all’altro, i soldati pronti ad accusarla, fu pervasa dalla paura ma riuscì comunque a fare del proprio meglio per cercare di calmare la creatura che si stava lamentando.

    Qualcuno poteva sentire? I soldati sapevano che la ragazza aveva in braccio una figlia?

    Se fosse stata catturata con la bambina…

    Cos’altro avrei potuto fare?

    Max le avrebbe detto di starne fuori, di rimanere in macchina. Che il bene comune era più importante dei problemi dei singoli individui.

    Persino di quelli di una ragazza terrorizzata. Persino di quelli di una bambina.

    «Va tutto bene, Anna. Sei al sicuro adesso. Shh». Sistemandosi meglio sul sedile per mettersi la bambina tra le braccia in una posizione più comoda, Genevieve sussurrò, le dette piccoli colpetti e la dondolò. Azioni istintive, dimenticate da tempo, le riaffiorarono in quel preciso momento di crisi.

    Attraverso il cancello, riuscì a vedere i soldati radunati attorno a qualcosa al suolo. Alla ragazza, ne era quasi sicura, sebbene il buio e i fiori selvatici del giardino le impedissero di osservare. Con Anna, ormai calma, contro il petto, iniziò a tremare, in una reazione a scoppio ritardato.

    Otto tornò in macchina.

    «Sposteranno il camion davanti non appena avranno finito di caricare». La voce era marcata dall’emozione. Rabbia? Amarezza? «Qualcuno li ha avvertiti che gli ebrei si stavano nascondendo nell’edificio e li stanno arrestando tutti. Una volta che avranno…».

    Otto si interruppe quando la bambina emise un rumore.

    «Shh». Genevieve le dette una pacca, muovendola. «Shh, shh».

    Il volto era una maschera di stupore. Otto si sporse sul sedile per osservare. «Dio santo, è una bambina?»

    «La madre era intrappolata in giardino. Non riusciva a uscire».

    Otto lanciò un’occhiata preoccupata verso l’edificio, dove i soldati stavano facendo avanzare fuori dalla porta d’ingresso una fila di persone, giovani e anziane, compresi un paio di bambini piccoli che afferravano le mani degli adulti.

    «Dio mio», disse, sconvolto. «Dobbiamo…».

    Sbucando fuori dal nulla, un soldato bussò sul finestrino del guidatore. Un colpo forte, con le nocche.

    Oh, no. Per favore, no.

    Il cuore di Genevieve batté forte. Lo stomaco le si convertì in una roccia, mentre fissava la sagoma oscura dall’altra parte del vetro.

    Ci arresteranno. O ci spareranno.

    Togliendosi la sciarpa dal collo, si sistemò il colorato pezzo quadrato di stoffa stampato sulla spalla e sopra alla bambina.

    Otto abbassò il finestrino.

    «Documenti», ringhiò il soldato.

    La paura si annodò sullo sterno di Genevieve. Nonostante il freddo della notte, sentì che il sudore le bagnava la fronte e il labbro superiore. Nella Francia occupata, tutti, dal più giovane al più vecchio, dovevano avere i documenti sempre a portata di mano, pena l’arresto. I suoi si trovavano nella borsa, sul sedile accanto a lei.

    Ma Anna non li aveva.

    Otto passò le carte al soldato, che aveva indirizzato la torcia verso di loro.

    Mentre prendeva la borsa, Genevieve sentì Anna muoversi.

    Per favore, Dio, non farla piangere.

    «Ecco qui». In fretta gettò la borsa verso Otto, dal poggiatesta. Anna ora si stava divincolando. Genevieve dovette prendere e legare la sciarpa da sotto per assicurarsi che i movimenti della piccola non mandassero tutto all’aria.

    Se il soldato l’avesse vista…

    Anna piagnucolò. Avvolta dalla sciarpa, il suono non fu così percepibile, ma l’effetto prodotto in Genevieve fu pari a quello di una scarica elettrica. Trattenne il respiro, mentre il cuore le saliva in gola – e reagì d’istinto come, tanto tempo prima, avrebbe fatto in automatico.

    Fece scivolare, tra le labbra di Anna, la punta del mignolo.

    Lei reagì come tutti i bambini di quell’età: lo prese e iniziò a succhiarlo.

    Genevieve sentì che il mondo aveva iniziato a perdere importanza. La familiarità di quel gesto, i ricordi dal retrogusto amaro che aveva evocato, la frastornarono. Si costrinse a rimanere nel presente, per concentrarsi su questa bambina e su questo preciso momento, tralasciando il resto.

    Otto consegnò anche i documenti di lei. Il soldato li esaminò con la torcia, poi si appoggiò al finestrino e guardò verso il sedile posteriore.

    Lei stava quasi per morire.

    «Mademoiselle Dumont. È un piacere. Ho apprezzato davvero molto sentirla cantare».

    La piccola bocca affamata di Anna le tirò il dito con forza.

    «Grazie», disse Genevieve, sorridendo.

    Il soldato contraccambiò. Si rimise in piedi, riconsegnò i documenti e, con un colpo sul tettuccio, si allontanò dalla macchina. Otto richiuse il finestrino.

    La tensione all’interno dell’auto era così carica che ne poteva sentire fisicamente il peso.

    «Lasciateli passare», urlò il soldato a qualcuno nei pressi del primo camion che, pieno di nuovi sfortunati prigionieri, si era rimesso in moto.

    Dopo un cenno da parte del militare, Otto proseguì, anche se troppo piano per la velocità della mente di Genevieve. Mentre il veicolo seguiva il camion, lanciò un’ultima occhiata veloce in direzione del giardino: non riuscì a vedere nulla, neppure i soldati.

    La ragazza – la madre di Anna – era ancora distesa al suolo? O era già stata portata via?

    Era morta?

    Genevieve si sentì nauseata. Eppure, ancora una volta, non c’era nulla che potesse fare.

    Consapevole delle grandi dimensioni del camion e di cosa avrebbero potuto scorgere dagli specchietti retrovisori, Genevieve cercò di rimanere dritta e di nascondere la bambina, almeno fino a quando la Citroën non girò l’angolo e proseguì nel tragitto.

    Poi, sentendosi come se le ossa fossero diventate molli, crollò appoggiandosi alla portiera.

    Anna lasciò il dito e cominciò a piangere, con lamenti acuti e disperati che invasero la macchina. Con le forze restanti, Genevieve si tolse la sciarpa e la prese in braccio, dondolandola, dandole piccole pacche e canticchiando. Proprio come aveva fatto tanto tempo prima con…

    Non pensarci.

    «Shh, Anna. Shh».

    «Abbiamo rasentato la catastrofe». La voce di Otto, tesa per ciò che era appena accaduto, era comunque bassa per non disturbare la bambina che, piano piano, si stava acquietando. «E ora cosa facciamo? Non puoi portarla in albergo. Pensi che non ci faranno delle domande? Cosa credi, che il soldato non dirà di aver incontrato Genevieve Dumont? E basta una sola persona che colleghi il blitz e l’averti visto con una bambina a rovinarci tutti. Rovinerà tutto».

    «Lo so». Genevieve era debole. «Trova Max. Lui saprà cosa fare».

    Capitolo 2

    Sono destinata a morire questa sera? Il sangue di Lillian de Rocheford si raggelò proprio nel momento in cui la domanda le balzò in testa. Una civetta che bubbola sul tetto di una casa è un segnale di morte per chiunque la ascolti – tutti lo dicevano. Era una superstizione, semplice e stupida. Non ci aveva creduto nemmeno per un istante. Ma la notte precedente una civetta si era appollaiata sul tetto di ardesia scosceso del Château de Rocheford, quasi sopra alla sua camera mansardata e l’aveva svegliata con il suo verso afflitto. Quel giorno era giunta la convocazione: erano richiesti. Avrebbe voluto rifiutare. Ma le circostanze non glielo permettevano.

    Tutto era già stato predisposto, il punto di incontro stabilito. E il momento era giunto.

    E trasalisco per qualunque cosa si muova, tutta colpa di quella maledetta civetta.

    «A quest’ora dovrebbero già essere qui». Non si rese conto di agitarsi a voce alta fino a quando Andre Bouchard, avanti a lei di qualche passo per osservare oltre la nebbia, non si voltò a guardarla. La sua ombra, deformata dal diffondersi della luce grigiastra della luna che filtrava tra gli alberi, si allungò come una mano scheletrica.

    «Se ci fossero stati problemi, avremmo sentito qualcosa. Urla, spari». Bisbigliò, proprio come aveva fatto lei.

    Andre diceva la verità: la guerra era silenziosa davvero di rado. Negli ultimi quattro anni, da quando i tedeschi avevano fatto l’impensabile e avevano tagliato la presunta inespugnabile Linea Maginot per invadere la Francia, il rumore era stato inarrestabile, come tutto ciò che gli invasori avevano portato. In primo luogo, lo sgombero disperato da quasi tutti i porti lungo la costa atlantica dell’esercito francese e dei soldati inglesi e cechi, i cui sforzi combinati non erano riusciti a mantenere la Francia al sicuro. In seguito, le tempeste di fuoco che ne erano derivate, quando i tedeschi avevano indirizzato gli attacchi contro la ritirata e si erano lasciati alle spalle migliaia di morti. Poi era giunta la resa, e il consiglio comunale aveva dichiarato la città di Cherbourg aperta ai nazisti, con il conseguente rimbombo nefasto dei camion che avevano consentito alla Wehrmacht di insediarsi. Poi, era iniziato il frastuono degli aerei inglesi e, più tardi, di quelli americani che sfrecciavano sopra la sua amata penisola di Cotentin, il fischio e lo scoppio delle bombe lanciate, il ra-ta-ta discontinuo del ben radicato fuoco di risposta tedesco. L’assenza di ciò che ormai era diventata una consuetudine durante la notte la faceva rabbrividire dalla paura.

    A causa della nebbia, quella nebbia fitta e impetuosa che scintillava argentea quando i riflettori delle torce la fendevano, i suoni notturni erano attutiti e gli aerei non sarebbero arrivati, lo sapeva. Questa consapevolezza, tuttavia, non la rendeva meno spaventata.

    Vigeva un coprifuoco. Anche soltanto farsi trovare fuori a quell’ora sarebbe stato punibile con l’arresto. Ancora peggio se fossero stati beccati proprio in quel punto preciso, nella palude all’apparenza impenetrabile che separava le spiagge dal resto del Cotentin, così apprezzata per il proprio valore difensivo da essere soprannominata Carusburg, o Fortezza delle Paludi, dai Vichinghi. Era anche una componente fondamentale nella strategia difensiva tedesca, qualora fossero stati attaccati sulle spiagge della Normandia. Lei non aveva dubbi: l’avrebbero uccisa se soltanto avessero scoperto che conosceva un varco.

    Di solito si sarebbe rifiutata di pensarci, ma – la civetta.

    Una folata gelida le scese lungo la colonna vertebrale. Soltanto un pazzo non avrebbe paura.

    Il freddo umido della nebbia le accarezzò le guance, una folata dal sapore di salsedine le attraversò la bocca come un fantasma passeggero, accompagnata dall’indistinto odore di decomposizione tipico della palude. Strinse i denti per cercare di smettere di tremare e si avvolse le mani nei guanti fatti a maglia sopra al muso di Bruno, il pony, per lasciarlo tranquillo. Le luci si stavano avvicinando. Installate sopra alle barche della Kriegsmarine, intente a perlustrare il porto e la costa adiacente, la loro ricerca era puntuale come il sorgere del sole.

    Lanciando un’ultima occhiata colma di ansia ai raggi che si avvicinavano, chinò la testa verso il collo ispido e marrone di Bruno per evitare che le colpissero gli occhi, inalò il familiare odore di muschio del pony e contò alla rovescia i secondi, per poter rialzare lo sguardo senza correre rischi.

    …5…4…3…

    «Baronessa. Laggiù».

    Il sussurro rincuorato di Andre le fece sollevare il capo prima del tempo, ma andava tutto bene, i fari si erano allontanati. A nulla servì ricordargli che per quella sera era soltanto Lillian, che ricorrere al titolo anche in quel luogo dove, con un po’ di fortuna, poteva essere udito soltanto dai castori, l’avrebbe potuta mettere in pericolo. Andre, atletico e con una calvizie incipiente, l’eterno fittavolo di Rocheford, un tempo ricca proprietà del marito, non riusciva a riferirsi a lei in maniera così intima, nemmeno in quel momento, quando il mondo che conoscevano era andato in pezzi sotto agli stivali sporchi dei tedeschi, i boche.

    «Facciamo presto». Allentò un po’ di tensione dalle spalle, mentre il chaland che avanzava senza far rumore nella loro direzione, attraverso lo scintillio dell’acqua torbida, prese forma. Andre abbandonò lo stretto lembo di terraferma sul quale avevano atteso, sguazzando, per incontrare la barca piccola e dal fondo piatto. Il suono degli stivali, risucchiati nel fango, le fece battere il cuore nel petto.

    «I tedeschi sono lontani», sussurrò a Bruno, pur non sapendo se quelle parole di conforto fossero indirizzate a se stessa o al pony.

    Bruno alzò la testa in maniera inaspettata, allentando la morsa, mentre Paul, il marito, il barone di Rocheford, scese dalla barca per aiutare Andre a tirarla per il resto del tragitto. Lillian riuscì a malapena a dare un colpetto con la mano al muso del pony, per evitare che emettesse un nitrito di saluto all’uomo che doveva aver riconosciuto soltanto dall’odore, perché la distanza non lo rendeva altro che una fitta sagoma nella nebbia. Un tempo alto, elegante e slanciato, l’affascinante Paul era ormai diventato magro e con le spalle ricurve. Quell’anno avrebbe compiuto sessant’anni – impossibile da credere – ma la causa non era attribuibile all’età. Erano le condizioni dure e senza pietà che erano costretti a vivere. Arrivata ai cinquanta, anche lei era diventata ossuta e dai lineamenti marcati, con occhiaie spettrali e profonde cavità all’altezza degli zigomi. I capelli, un tempo folti e neri, erano ora sottili e quasi tutti grigi. I pantaloni, acquistati prima della guerra, dovevano essere indossati con una cintura per evitare che le scendessero lungo le caviglie. Il maglione, un tempo aderente, la faceva sembrare ora un sacco. Aveva conosciuto tempi migliori, proprio come il cappotto nero, rattoppato in molteplici occasioni, e la sciarpa nera logora avvolta attorno alla testa.

    Non riuscendo a nitrire, Bruno puntò le zampe dalla frustrazione. Gli spruzzi degli zoccoli sul terreno fradicio e il tintinnio delle staffe le fecero salire il cuore in gola. Il Vallo Atlantico, l’abominio realizzato in cemento e costituito da bunker pieni di armi e di soldati, non era molto lontano. Sarebbe stato da pazzi affidare la propria vita all’effetto smorzato della nebbia.

    Dette uno strattone deciso alla briglia di Bruno e gli ringhiò «Smettila» all’orecchio.

    Il cuore le batteva così all’impazzata da poterne sentire le pulsazioni nei timpani. Eppure si rialzò in fretta, trattenendo il pony brizzolato, l’unico superstite della stalla un tempo fiera di Rocheford, il pony che, tanto tempo prima, in tempi più felici, era stato il regalo di compleanno per la figlia.

    Il 16 di maggio.

    Domani.

    «È per me?». Riusciva ancora a sentire la voce meravigliata e incredula di quella bambina di cinque anni e a vederne l’esile figura con indosso un vestito da festa blu, mentre le lasciava la mano per correre verso i gradini all’ingresso di Rocheford, verso un molto più giovane ma già tranquillo Bruno, appena portato da un sorridente Paul.

    «Papà, è bellissimo!».

    La voce, come il ricordo, erano custoditi per sempre nel suo cuore.

    Il petto di Lillian si strinse. Ogni cellula nel corpo tremò alla carica improvvisa di quel dolore violento.

    La sua irascibile bambina, persa ormai da molti anni.

    Ça suffit. Toglitelo dalla testa.

    «C’è qualche problema?». La voce abbassata di Paul la raggiunse attraverso la foschia. Stava parlando con Andre.

    «No, nessuno», rispose.

    I due uomini erano vicini, procedevano verso di lei con l’acqua alta fino ai polpacci.

    Oltre a Paul e a Jean-Claude Faure, un contabile della città che lo aveva accompagnato al luogo di incontro, sulla barca vi erano altri due uomini, che aiutavano a sospingerla con lunghi remi. Erano estranei, per quanto ne sapeva. Appartenendo a un gruppo diverso, non aveva bisogno, o desiderio, di conoscerne l’identità, proprio come loro non dovevano conoscere la sua. In questo nuovo mondo, dove non ci si poteva fidare di nessuno e i collaboratori si trovavano ovunque, l’anonimato era la chiave per mantenersi al sicuro.

    Disteso, in modo strano, sul fondo della barca vi era la ragione per la quale tutti stavano mettendo a repentaglio la propria vita: un pilota inglese. Il suo aereo era stato abbattuto proprio sopra il porto due notti prima. Lui e il suo equipaggio erano riusciti a paracadutarsi fuori. Lei non sapeva ciò che era accaduto agli altri. Quest’uomo rappresentava un particolare problema, dato che era ferito al punto da non riuscire a camminare. Era stato salvato e nascosto, correndo un grande rischio. Persino ora i tedeschi stavano dando loro la caccia. Farlo fuggire via mare era da ritenersi impossibile: il porto e la costa erano sorvegliati a vista. Lo stesso valeva per il trasporto via terra all’interno di un veicolo, dato che ogni strada fuori dalla valle era bloccata, ogni treno fermato e perlustrato.

    Da quando, per loro, il corso della guerra aveva subìto un risvolto negativo, i tedeschi erano diventati sempre più aggressivi e irascibili, come vespe infuriate che difendono il proprio nido. Le voci su di un’imminente invasione da parte degli Alleati, da qualche parte sulla costa, sembravano aver dato adito alla frenesia della milizia locale. Si recavano di casa in casa, di azienda in azienda, di fattoria in fattoria, mettendo a soqquadro abitazioni, barche, negozi e persino scuole e chiese, alla ricerca dell’aviatore precipitato. Essere sorpresi ad aiutare anche soltanto uno di loro significava andare incontro a un’esecuzione sommaria. Anche il mero sospetto conduceva alle torture e alla prigionia. In molti erano già stati catturati e interrogati. Di conseguenza, la paura regnava sulla campagna circostante come una fitta coltre di nebbia.

    Avevano trovato una soluzione al problema. Quella sera avrebbero condotto fuori il pilota, legandolo con una cinghia al dorso di Bruno, attraverso i percorsi paludosi un tempo utilizzati dai trafficanti. Li conosceva a menadito, tanto quanto le molteplici stanze di casa sua. Da quando, all’età di diciotto anni, aveva sposato Paul ed era andata a vivere a Rocheford, era stata ossessionata dall’estuario, affascinata dagli uccelli, dagli animali selvatici, dalle piante. I funghi che aveva raccolto nei pantani e coltivato negli angoli più remoti delle cantine del castello servivano ora da complemento allo scarso quantitativo di cibo presente in casa, adesso che il razionamento delle provviste si era esaurito e la fame di massa era diventata un’atroce realtà.

    Un tempo Paul la prendeva in giro per quei funghi. Ora non ci scherzava più sopra.

    Era proprio perché conosceva il luogo, nonostante la civetta, che aveva tanto insistito per essere presente. Il pericolo che gli uomini avrebbero corso sarebbe stato di gran lunga maggiore se lei non li avesse guidati. Paul non avrebbe voluto portarla.

    «Il viaggio sarà troppo duro», le aveva detto. «Troppo lungo e troppo pericoloso».

    Sì, ma bastava un solo passo falso in un crinale di terraferma, che serpeggiava tra la palude e tesseva in maniera invisibile un sentiero tra l’erba frondosa e i grovigli di alberi, arbusti e minuscoli corsi d’acqua, e tutto sarebbe andato in fumo. Il suolo era ingannevole. Sembrava compatto proprio dove non lo era. In molti punti, l’acqua dietro all’erba alta era più di due metri di profondità e il fango era limoso, intriso e liquido. Animali incauti vi erano rimasti intrappolati, perdendo spesso la vita. Lo stesso poteva accadere, e accadeva, agli uomini ignari.

    «Vengo anche io», aveva detto. Gli occhi di lui erano di color caffè, mentre quelli di lei erano di un blu acquamarina, chiaro e limpido. Si incontrarono, in un conflitto tra il buio e la luce.

    Discutevano di rado. Dopo tutti quegli anni, erano sulla stessa lunghezza d’onda in molte occasioni. Ma lui la conosceva abbastanza bene da sapere quando lei facesse sul serio. La guardò dritta negli occhi, comprese che si trattava di uno di quei momenti e si arrese prima ancora di incominciare. Un uomo intelligente, il suo Paul.

    «Portatela dentro», disse a uno degli uomini dentro alla barca. «Svelti».

    La prua venne spinta lungo gli ultimi canneti, per poi scontrarsi con la terraferma. Lillian condusse Bruno il più vicino possibile al ciglio dell’acqua. Andre tenne ferma l’imbarcazione, mentre Paul e gli altri fecero uscire il pilota, sollevandolo.

    L’uomo emise un gemito, un suono basso e carico di dolore.

    «Fate attenzione. Ha la gamba rotta». Fu uno degli uomini a lei sconosciuti a lanciare l’avvertimento. «E forse anche qualche costola».

    «Sergente Pilota Ronald Nash», disse l’aviatore in un distinto inglese, mentre gli uomini ne alzavano la figura alta e gracile e la ponevano sulla sella. Proprio mentre Lillian tremò dalla paura per il tono alto della sua voce, si rese conto che lui si identificava in maniera meccanica. Sprofondò in avanti, sopra al pomo della sella. «Squadrone tre…».

    «Merde».

    «L’effetto del narcotico è finito».

    «Ecco qui». Tra il miscuglio di voci allarmate e di movimenti rapidi, uno dei nuovi arrivati premette un panno sul volto del pilota. Una volta levato, dopo circa un minuto, l’aviatore crollò, la testa appoggiata sul collo di Bruno.

    «Narcotico?», chiese Lillian. Aveva fatto del suo meglio per immobilizzare Bruno, mentre gli uomini legavano e stabilizzavano il corpo molle dell’uomo. La divisa venne sostituita con abiti civili della taglia sbagliata. La gamba steccata era allungata verso il terreno, rigida.

    Una volta terminato, gli gettarono addosso una coperta. Aveva il doppio scopo di ripararlo dagli elementi naturali e di nasconderlo alla vista.

    Qualora una pattuglia tedesca li avesse intercettati, lei non riteneva che una coperta posta sopra al pilota fosse sufficiente ad allontanarli con così tanta facilità.

    «Cloroformio». Paul le giunse accanto. In quell’istante, la barca fu sospinta al largo e gli uomini con i remi tornarono al lavoro, rientrando nel luogo da cui provenivano. «Hanno pensato che fosse meglio tenerlo tranquillo e lenirgli il dolore».

    «Un grande rischio corso per nulla, se muore», borbottò Jean-Claude. Un uomo burbero, di circa la sua stessa età, che viveva con la madre anziana ed era una delle ultime persone che, secondo Lillian, avrebbe mai rischiato di perdere tutto per una causa simile.

    «Abbiamo quindi il dovere di assicurarci che ciò non accada», rispose Paul in modo assai affabile, ma con la fermezza di un leader. Lillian sentì crescere un’ondata di orgoglio per lui. Da quando aveva sentito il semisconosciuto generale Charles de Gaulle, subito dopo la resa della Francia, parlare da Londra alla radio, incitando tutti i francesi a rifiutarsi di accettare la sconfitta e a continuare a combattere, ecco ciò che aveva fatto. Aveva vissuto in maniera mesta, giorno dopo giorno, sotto il pugno di ferro degli occupanti nazisti, mandando giù la vergogna per la resa del Paese, ma non poteva tollerare la collaborazione del governo di Vichy.

    «Ti sei dovuto immergere in acqua?», lo sgridò Lillian sottovoce, mentre girava Bruno e si dirigeva verso l’entroterra. Rimasto senza fantino per molti anni, il pony si era disabituato alla sella e al peso sul dorso, e si muoveva quindi con riluttanza, triste per quel fardello. Lo rimproverò piano, tirandolo forte per le redini, così da farlo proseguire a un’andatura accettabile. «C’è un motivo per cui Jean-Claude, magari, o qualcun altro non poteva saltar giù e tirare la barca?»

    «Sono o non sono il più alto?», le sorrise Paul. Per un momento, percepì un accenno di quel giovane uomo affascinante che aveva incontrato poco dopo aver compiuto tredici anni, quando, in quanto figlio aristocratico di un abbiente proprietario terriero, aveva fatto visita alla clinica del padre medico a Orconte, per osservare gli effetti della somministrazione del vaccino contro il vaiolo, divenuto obbligatorio in Francia. Essendo così giovani, entrambi avevano grandi sogni per il futuro, senza la benché minima idea che potesse riservare la povertà, la fame, la morte o la guerra. «Ti preoccupi troppo, ma choupette», si abbassò per bisbigliarle, in maniera confidenziale. «E poi, ho rubato un paio di stivali da lavoro a Henri Vartan».

    Un tempo responsabile agricolo, costretto in seguito a trovare un altro impiego a causa dei momenti di difficoltà che si erano presentati negli anni Trenta, Henri continuava a vivere in un cottage a Rocheford ma lavorava per le ferrovie, che si erano rivelate essere un ingranaggio fondamentale per la rete della Resistenza. Lillian lanciò un’occhiata verso il basso, notando che Paul stava davvero indossando un paio di stivali in gomma mai visti prima, che gli arrivavano quasi alle ginocchia, ed emise un verso di disapprovazione.

    «Sto bene,

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