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Crimini imperfetti. Tutte le indagini di Marco Corvino
Crimini imperfetti. Tutte le indagini di Marco Corvino
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E-book1.384 pagine19 ore

Crimini imperfetti. Tutte le indagini di Marco Corvino

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Info su questo ebook

EDIZIONE SPECIALE: CONTIENE UN ESTRATTO DI OSSESSIONE PROIBITA

Dal maestro del thriller italiano
Finalista al Premio Strega

Il carezzevole - L'adepto - Il guardiano - Gioco perverso

Dal finalista al Premio Strega
4 libri in 1

La storia del cronista Marco Corvino ha inizio negli anni settanta, con una difficile inchiesta su uno spietato serial killer che lo sceglie per dare voce ai propri deliri.
Da quel momento in poi, Marco è costretto a confrontarsi con il suo lato oscuro. Deve resistere alla seduzione del male, mentre si lancia alla scoperta del perverso mondo dei riti satanici, circondato da sensitivi, esorcisti, e pratiche sadomaso… Conoscerà così gli abissi più folli della mente umana, si troverà ad affrontare uno spietato assassino senza nome e senza volto che si fa chiamare il “Carezzevole”, scoprirà i riti satanici de L’adepto, si troverà faccia a faccia con la misteriosa “Scuola senza nome” de Il guardiano e verrà risucchiato in un turbine di perversione e pratiche sadomaso in Gioco perverso.
Quattro vicende nere, ambigue, nelle quali l’eccesso diventa norma e che portano il lettore, insieme al giornalista, nel sottobosco torbido e malavitoso della città.

Il maestro del thriller italiano
Finalista al Premio Strega

«L'autore è uno dei migliori.»
Corrado Augias

«La scrittura è secca, asciutta, piena di ritmo, i dialoghi sono fulminanti […]. Si legge d’un fiato.»
Laura Laurenzi, la Repubblica

«Lugli ha un suo modo diretto di catturare il lettore, […] non ricorre a perifrasi, non gira intorno alle parole. Si vendica del linguaggio giornalistico, chiamando ogni cosa, pure la più inopportuna, con il proprio nome.»
Giuseppe Di Stefano, Corriere della Sera Roma

«La mescolanza di cronaca nera, letteratura sadiana e Oriente marziale può suonare incongrua ed è senz’altro una scommessa rischiosa. Massimo Lugli la vince.»
Il Giornale


Massimo Lugli
(Roma 1955) è inviato speciale di «la Repubblica» per la cronaca nera da quasi 40 anni. Ha scritto Roma Maledetta e con la Newton Compton La legge di Lupo solitario, L’Istinto del Lupo (terzo classificato al Premio Strega 2009 e vincitore del “Controstregati”), Il Carezzevole, L’adepto, Il guardiano, Gioco perverso e La lama del rasoio. Cintura nera di karate e istruttore di tai ki kung pratica fin da bambino le arti marziali che compaiono in tutti i suoi romanzi.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854158221
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    Anteprima del libro

    Crimini imperfetti. Tutte le indagini di Marco Corvino - Massimo Lugli

    e-narrativa.png

    163

    Questi romanzi sono un’opera di finzione. I nomi, i personaggi

    e gli accadimenti descritti sono frutto dell’immaginazione

    dell’autore. Ogni somiglianza con eventi,

    luoghi o persone reali, viventi o defunte,

    è puramente casuale.

    Prima edizione ebook: luglio 2013

    © 2010, 2011, 2012 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5822-1

    www.newtoncompton.com

    Massimo Lugli

    Crimini imperfetti

    Il Carezzevole

    L’adepto

    Il guardiano

    Gioco perverso

    OMINO-2.png

    Newton Compton editori

    Il Carezzevole

    Alla memoria di Ugo

    A Samazz, l’indomito

    Prologo

    Il dolore era ovunque. Dolore, colore. Il bianco ghiaccio della lama, il rosso vivo del ferro incandescente, il giallo sporco dell’elettricità, il marrone ossidato delle pinze, il blu della frusta, il rosa del cuneo di legno… Lui aveva detto che i colori non si dovevano mai mischiare, sarebbe stato un pasticcio.

    Ormai l’angoscia era quasi passata, lasciando il posto a una sorta di ansiosa curiosità: quale colore stavolta?

    Rimase in attesa. Era la parte peggiore perché anche la durata delle pause variava. A volte mezz’ora, a volte il doppio e in un’occasione, era sembrato, un intero giorno. Non poteva saperlo con certezza, perché non aveva modo di misurare il tempo, se non contando incessantemente, lentamente, dal momento in cui Lui diceva adesso basta, e il dolore cominciava a fluire fuori dal suo corpo. Contava e aspettava. Come una fidanzata a un appuntamento. Il dolore li univa più dell’amore, questo Lui l’aveva spiegato fin dall’inizio. Era vero. L’assenza di colori era terribile. Nel dolore viveva, nell’attesa si consumava. Ferma l’immaginazione. Non chiederti cosa verrà dopo. Respira, vivi e basta. Le istruzioni erano sempre precise, particolareggiate, pazienti, affettuose, in quel tono lento e paterno che sembrava venire da una macchina più che da una bocca, una lingua, una gola. Nessun colore nella voce, nessuna emozione.

    Il silenzio era odore. Anche l’odore aveva le sue sfumature, anche quelle, ormai, aveva imparato a riconoscere. Erano le sue compagne. Umidità. Muffa. Cibo. I pasti erano la sua gioia, assieme alla fine dell’attesa e all’arrivo di un nuovo colore. Non poteva vedere cosa mangiava ma era tutto squisito. La carne ben cotta e cosparsa di salsa, le patate croccanti, sfornate da poco, le verdure gustose appena leggermente crude, la pasta al dente, sempre ben condita, una volta addirittura con un’inequivocabile spolverata di tartufo. Mangia lentamente, assapora, goditi le sensazioni. Ogni secondo è eterno, qui e adesso, il futuro non esiste. Ti servirà. Per questo ti ho lasciato i denti e la lingua, fanne buon uso. Obbediva.

    I rumori erano intermittenti. Il brusio di un programma televisivo di cui non distingueva le parole, lo scalpiccio di passi silenziosi sopra la sua testa, il passaggio di una macchina sempre molto lontano e, qualche volta, un suono acuto e modulato in cui aveva creduto di riconoscere il miagolio di un gatto. Poi c’erano le zampette frenetiche e veloci, la coda laida e spoglia che strusciava sul pavimento. Topi. Urlare era proibito ma poteva alzarsi, almeno quando il corpo lo permetteva, camminare, pestare i piedi nudi per terra, e le zampette tornavano a rifugiarsi da qualche parte. Odiava i topi, al solo pensiero che potessero avvicinarsi al suo corpo, rabbrividiva dalla base dei capelli fino alle dita dei piedi. Qui e adesso. Qui e adesso. Il resto non esiste.

    Diecimilionisettecentoventimilatrecentocinquantasette. Ormai la pausa doveva essere finita. Sentì il cuore che galoppava mentre, dall’alto, si accendeva il bagliore che Lo precedeva sempre. Strinse i denti fino a farli scricchiolare. Piangere era vietato, parlare era vietato, supplicare era la cosa più grave, lo sapeva fin dall’inizio. Impara a sopportare. Godi della nostra unione. Assapora ogni istante. Qui e adesso. Aprì la bocca, come Lui ordinava, per accogliere la pallina di plastica che sapeva di sapone e disinfettante. Il bavaglio strinse la mascella e si chiuse con un nodo sulla nuca. Gesti sapienti, amorevoli. La benda scura sugli occhi, poi, attraverso le palpebre chiuse, l’esplosione arancio vivo della luce che inondava la stanza. Mio Dio, ti prego, fa’ che stavolta non sia il rosso.

    PARTE PRIMA

    Noviziato

    Capitolo uno

    «C’è un morto». Francesco Macioni scattò in piedi come un pupazzetto a molla dalla sua postazione, vicino allo scanner sintonizzato in permanenza su Doppia Vela 21, la frequenza operativa della polizia. L’intera redazione si pietrificò all’istante come nel gioco delle belle statuine. Macioni, felice dell’effetto, si chinò ad alzare il volume. Sibili, scoregge, poi una voce gracchiante venata d’ansia.

    «A tutte le auto in zona, convergete sull’obiettivo. Ambulanza sul posto ma la persona risulta deceduta. Si ricerca una 127 bianca con quattro giovani a bordo». Altre scariche. «Si sconosce la targa. Attenzione, ricercati armati e pericolosi. Uno indossa un giaccone marrone su pantaloni jeans chiari. Agli equipaggi in zona, massima attenzione, mettete i giubbotti, notiziate in caso di avvistamento». Sibili e scariche coperti dal clangore di dieci macchine da scrivere che venivano alzate simultaneamente, posizione di rip-poso, tanto il giornale era tutto da rifare. Franco Bustoni, il fotografo che era passato in redazione per la mezz’oretta di cazzeggio quotidiano prima di andarsene a casa e poi al secondo lavoro di carrozziere in nero, alzò gli occhi al cielo in una silenziosa bestemmia, guardò l’orologio, calcolò quanto gli mancava a staccare, elencò mentalmente una serie di possibili scappatoie e le scartò tutte. Non c’era alcuna via di fuga. Non con l’Orbace, il terribile caporedattore dalla pupilla biancastra per un glaucoma, che metteva paura anche agli inviati più coriacei. Rassegnato, Bustoni inserì un nuovo rullino nella Nikon con la lentezza asmatica che gli aveva valso il soprannome di Moviola.

    Sandro Tarioli, il principe dalla nera, aveva già indossato il suo giubbotto di jeans imbottito di similpecora e si stava precipitando alla scrivania dell’Orbace. Nel percorso, urtò un tavolo, tirò giù un paio di santi sconosciuti (San Numanzio martire e santa Filomena da Castrocaro), agguantò un taccuino dalla scrivania di Macioni, si beccò un Cazzo fai, stronzo, sono i miei appunti, replicò con un vaffanculo, accese una sigaretta e si piazzò davanti al caporedattore, che stava già parlando con Giuseppe Turante, talpa della questura e famoso biscazziere.

    «Cazzo, ma le notizie le devo sempre sapere da qualcun altro? Che ti paghiamo a fare?»

    «Ho appena chiamato, capo, eri occupato. Anche gli altri, state sempre al telefono». Il piagnucolio di Turante arrivava distintamente fino alle mie orecchie, tese come un centometrista in attesa dello sparo.

    «Stiamo al telefono a lavorare, fregnone, mica come te che passi le giornate a organizzare le scommesse dei cavalli…».

    «Va bene, va bene, senti quello che ho saputo da qui. Il cadaverone è un portavalori di un istituto di vigilanza. Aveva appena ritirato un pacco di soldi in banca, è uscito e, mentre stava per salire sul furgone, lo hanno bloccato. Quattro, viscopist», riconobbi con un certo orgoglio l’acronimo di viso scoperto con pistola, «scappati in macchina. Forse ha fatto l’eroe e lo hanno addobbato. Per ora è tutto quello che so».

    «Quanto?». Orbace, l’Implacabile.

    «Quanto cosa, capo?»

    «Quanti soldi, cretino».

    «Io… Non lo so, è successo venti minuti fa, sono le prime…».

    «Non sai mai un cazzo!». La cornetta rimbalzò sull’apparecchio, e improvvisamente tutti si scoprirono molto impegnati a guardare da un’altra parte. Orbace sospirò, il menabò già mezzo disegnato in testa.

    «Ok, lavoriamo per domani, l’edizione notte è già in chiusura. Tarioli sul posto, cronacone. Va anche Luciana: appena si sa l’indirizzo del morto voglio la vedova in lacrime, i figli incazzati e l’intero album di foto. Cerca di portarle via, così gli altri non le trovano… Sempre che non siano arrivati prima di noi», sospirò come a significare che con la banda di incapaci che gli toccava dirigere c’erano ben poche speranze di non farsi fregare dai concorrenti. Luciana si alzò con il solito movimento fluido, da gatta sonnolenta e, per una volta, nessuno le guardò il sedere.

    «Francesco, vai con la seconda macchina. Voglio un bel ritratto del quartiere, la gente indignata: basta, non ne possiamo più dei delinquenti, pena di morte e tutte le stronzate». Tornai a sedermi rassegnato e riportai lo sguardo sull’agenzia di cinque righe che dovevo trasformare in una breve. Quattro giovani arrestati, fumavano hashish. Quasi feci cadere la Olivetti quando sentii il mio nome.

    «Corvino».

    Cuore a mille, tre metri in un nanosecondo. Dritto davanti alla scrivania, quasi sull’attenti.

    «Non so se te ne sei accorto ma c’è stato un omicidio… Sai quando fanno pum pum a qualcuno e quello muore? I giornali, in genere, queste cose le scrivono…».

    «Ho… ho sentito, capo», riuscii a deglutire.

    «Hai mai visto un morto?».

    Frugai nella memoria dei miei ventidue anni. Un mese e mezzo in redazione. Volontario, alias la pezza da piedi della cronaca. Tre brevi pubblicate prima del trionfo: un taglio basso di ventidue righe su una protesta di piscicoltori che avevano gettato trote vive in una fontana del centro. Titolo: Trote congelate. Fine del curriculum, a parte i cinque esami a lettere con 28 di media e la cintura marrone di karate.

    «Hai mai visto un morto, sì o no?». Lo sguardo da alligatore dell’Orbace mi riportò al presente. Decisi che nonna nella bara, intravista a otto anni (una statuina di cera seppellita in una confezione di raso pervinca e mogano scuro), non contava.

    «Non… non di recente», confessai.

    «Bene, allora è venuto il momento. Guarda il cadaverone, non ti chiedo altro. Quando torni me lo descrivi: com’era vestito, dov’erano le ferite, in che posizione stava e tutto il resto. Vai… Sandro!». Tarioli, già sulla porta, piroettò su se stesso con la sua migliore espressione checcazzovuoiancora?.

    «Prendi Corvino».

    «Cor… vino? A quest’ora? Mi ubriaco…».

    Alzai le spalle, la sentivo dalle elementari. Afferrai un pacco di fogli con l’intestazione del giornale, visto che non avevo uno straccio di tesserino da sventolare davanti a poliziotti o carabinieri. Era il test standard dei neristi in prova e lo sapevo. Il mio primo morto ammazzato. My first cadaver. Mi precipitai sulle scale.

    La marmitta dell’Alfetta esalava un ciclone di fumo nero. Pierino l’autista ci dava dentro col gas, pronto a lanciarsi in una delle sue evoluzioni da assassino su quattro ruote.

    «Cazzimosci, io stacco all’una», ci salutò con la consueta signorilità mentre ci infilavamo nell’auto in formazione da battaglia: fotografo davanti, con la Nikon pronta, e io e Tarioli dietro. «Vi ci porto, ma vi fate venire a prendere da Morolo, chiaro?». Guardai l’ora: le 11:30. «Muoviti, Lumacò, che vuoi fare, il dibattito sindacale a morto caldo?», lo rimbeccò Tarioli, con quel tono cartavetrata che autisti, fotografi, tipografi e archivisti adoravano. L’accelerata ci schiacciò contro il sedile. Dopo venti minuti e dieci incidenti evitati per un soffio, eravamo sul posto. Un cerchio di divise e cappotti attorno a qualcosa di indistinto, e una folla di curiosi che faceva pressing tenuta a bada a fatica dai poliziotti. L’Alfetta non si era ancora fermata che Tarioli era già sceso, aveva tagliato la calca come una lama e, con un cenno di saluto a un poliziotto in borghese, si era infilato al centro del cerchio: una freccia dritta al bersaglio. Arrancai dietro di lui chiedendomi quanto ci sarebbe voluto per acquisire un decimo della sua sicurezza. Un poliziotto colossale con la pistola infilata direttamente nella cintura dei pantaloni e una coda di cavallo ossigenata mi sbarrò il passo.

    «Dove cazzo vai? C’è un morto».

    «Appunto, sono un giornalista», mostrai il mio patetico foglio con l’intestazione della redazione. A Tarioli bastò un cenno. Mentre Coda Ossigenata si faceva da parte, lo vidi accostarsi al capo della mobile, Gigi Sepe, scambiare una veloce stretta di mano, avvicinarsi all’oggetto misterioso steso a terra, prendere qualche appunto, girarsi e puntare alla folla dei curiosi, evidentemente in cerca di qualche testimonianza. Professionale. Impassibile. Inarrivabile. Vidi Bustoni chino sulle ginocchia che scattava foto a ripetizione, feci un respiro profondo e mi avvicinai. Il mio primo morto ammazzato.

    «Corvino».

    Era il momento della verità. Le 16:45. Tutti fumavano a catena e pestavano sui tasti delle Olivetti, con un effetto mitragliatrice rilanciato da ogni scrivania tranne la mia. Ogni tanto qualche redattore si interrompeva per guardare il vuoto con aria sognante: sapevo che quello era il momento della frase che non ti viene, dell’aggettivo che ti sfugge come un’anguilla, il momento ad alto rischio vaffanculo in cui è meglio tenersi alla larga. Sulla strada del ritorno, mentre Tarioli compulsava gli appunti in uno stato di concentrazione estatica, Bustoni mugugnava di malumore e Pierino sacramentava per il cambio saltato, io ero rimasto in silenzio a ripensare al cadavere. Adesso…

    Mi alzai cercando di mostrarmi disinvolto e, dopo tre passi, tornai indietro con le orecchie in fiamme a prendere il taccuino.

    L’Orbace mi guardò con insolita neutralità.

    «Allora, com’era ’sto morto?». Aveva quattro foto in mano, girate dalla sua parte. Sapeva tutto. Il mio esame di nerista.

    «Be’, le ferite che ho visto erano tre, una sulla spalla e due sul petto. I fori sembravano piuttosto piccoli e non c’era molto sangue. Forse gli hanno sparato con un piccolo calibro, una 7,65 o una 22 da tiro. Indossava la divisa blu da metronotte, il cappello era caduto a due metri di distanza. La pistola era ancora nella fondina, chiusa: non gli hanno lasciato il tempo di estrarla. La polizia ha trovato cinque bossoli, segno che due colpi sono andati a vuoto».

    «Aspetta, non correre… Il cadaverone era supino o bocconi?».

    Mi confondevo sempre, maledizione… ma stavolta, per fortuna, non potevo sbagliare.

    «Su un fianco, girato di tre quarti. Come se, caduto a terra, avesse tentato di rialzarsi ma non ci fosse riuscito. Quando hanno tentato di soccorrerlo era già morto».

    «Il cadavere dava ancora qualche segno di vita», celiò l’Orbace, citando lo strafalcione che era costato il posto a un corrispondente e aveva fatto sghignazzare l’intera redazione per mesi. Il tono faceto mi imbaldanzì.

    «Gli assassini sono scappati su una…». L’unico occhio mi gelò.

    «Non me ne frega niente degli assassini, solo il morto, ricordi? Di che colore erano le scarpe?»

    «Nere».

    «Capelli?»

    «Biondi, piuttosto radi anche se aveva solo trent’anni».

    «Occhi?»

    «Azzurri… mi è sembrato».

    «Mi è sembrato non esiste. Di che colore?»

    «Azzurri».

    «La cintura?»

    «Prego?»

    «La cinta dei pantaloni… Di che colore era?».

    Sentii un tuffo al cuore. Cinquanta possibilità su cento. Rischiai.

    «Di pelle… marrone?».

    Le foto schiaffeggiarono la scrivania.

    «La cintura dei calzoni non si vede. Era coperta dalla giacca e non credo che ti abbiano fatto spostare il cadavere. Non ci provare con me, ragazzino, se non sai una cosa dillo chiaramente. La cronaca è precisione, i dettagli sono essenziali».

    Sentii un pizzicore al naso e agli occhi e strinsi la mascella. L’Orbace sollevò lo sguardo. Non mi ero accorto di Tarioli, dietro di me. Nell’occhiata che si scambiarono, un impercettibile cenno d’assenso.

    «E dimmi una cosa, ma dimmela col cuore. Ti ha fatto impressione?»

    «No… Ecco, non sembrava una persona, non più almeno. Sembrava… una cosa… Cioè, non vorrei essere… No, non mi ha fatto impressione». Era vero. Tre forellini e la vita spenta, clic, come un interruttore. Nessuna emozione. Solo un oggetto da studiare, osservare, catalogare. Un testo di studio per l’esame di cronaca nera. «Ok, Corvino, niente male… No, non te ne andare, sentiamo Luciana cosa ci porta».

    Bellissima. Trionfante. Gongolante. Mamma giaguaro che torna alla tana con un cucciolo di antilope in bocca per i giaguarini affamati. L’album rilegato in cuoio planò sulla scrivania con uno schiocco promettente.

    «Ecco qui, capo, tutte le foto del matrimonio più l’intervista della neo vedova. Figli nisba. Ma c’è un fratello metronotte pure lui che giura vendetta: Se li trovo li ammazzo con le mie mani».

    «Niente male. C’erano altre foto in casa?»

    «Una, incorniciata, in salotto… Ce l’ha Franco. Ho promesso di restituirla al più presto… Magari tra un mesetto?»

    «Anche due. Come hai fatto a lavorarti la vedova?». Era uno show a mio uso e consumo. Ascolta e impara, pivello.

    «L’ho abbracciata. Mi sono messa a piangere. Le ho detto che mio fratello era stato ucciso da un pirata della strada a otto anni e sapevo cosa stava provando». Inutile aggiungere che era figlia unica.

    «E per le foto?»

    «Signora, l’ultima cosa che vorrei è disturbarla in questo momento di dolore», Luciana recitava se stessa, insinuante, supplicante, lacrimosa, «ma, vede, vorremmo una bella immagine di Massimo, di suo marito, per ricordarlo com’era veramente, per far capire alla gente che bisogna farla finita con questa delinquenza… Sa, per non dover pubblicare quell’orrore, il corpo steso a terra con tutto quel sangue, mi capisce?».

    L’Orbace ghignò di soddisfazione. Io imparai qualcosa. Il giorno dopo, la foto del cadavere campeggiava a tre colonne in prima pagina, nel suo bravo lago di sangue. Esame superato, anche se non a punteggio pieno.

    «Bel lavoro sul delitto del portavalori. Con le foto abbiamo stracciato tutti. Grande Luciana. Ottimo anche il pezzo di Tarioli, la classe non è acqua. Seguiti?».

    Antonio Amico, direttore dell’edizione notte, girò attorno uno sguardo interrogativo che diceva oggi è un altro giorno e attese qualche secondo che tutti smettessero di crogiolarsi alla pioggia benefica dei complimenti. Riunione di redazione: un cerchio di sedie, sigarette, sguardi concentrati che si spostavano continuamente dalle mazzette dei giornali alla faccia di chi prendeva la parola, Tarioli stravaccato con lo sguardo al soffitto, apparentemente insensibile agli elogi con la sua consueta, scanzonata, imperturbabilità, io rigido come un palo vicino alla porta, felice e timoroso per essere stato ammesso in quel consesso di giganti.

    «Indagini a zero, la polizia brancola nel buio», riassunse l’Orbace in tono annoiato. «Abbiamo pensato di partire con un’inchiesta sulla nuova malavita scatenata; ormai siamo a cinquanta morti dall’inizio dell’anno. Quelli del mitra potrebbe essere il titolo. Avevo pensato a Mirioni, se non ha altro per le mani».

    Dario Mirioni, roccioso inviato di nera, ex partigiano e alcolizzato altalenante, grande scrittore di gialli economici che pubblicava al ritmo di due al mese con lo pseudonimo di Gou Nissoman, alzò gli occhi al cielo e formulò silenziosamente le due parole con cui accoglieva puntualmente ogni incarico: Che palle. «Vado a lavorare», annunciò raccogliendo i giornali. Avrebbe consultato l’archivio, sarebbe sparito per un paio di giorni inseguendo alcuni suoi misteriosi contatti e sarebbe ricomparso con tre o quattro puntate di sei cartelle ciascuna folgoranti come un romanzo d’appendice.

    Qualche anno prima, Mirioni aveva sfiorato il licenziamento con la storia dell’alluvione di Firenze. Spedito sul posto dal giornale, aveva surclassato la concorrenza con una serie di pezzi che grondavano fango, sangue e dolore. Fino a quando il direttore aveva deciso di mandare altre tre persone di sostegno. I colleghi, giunti nell’albergo in cui Mirioni aveva detto di alloggiare, non ne avevano trovato traccia. Dopo una breve indagine era venuto fuori che era comodamente sistemato in una pensione di Arezzo in compagnia della sua amante del momento. Non usciva quasi mai dalla stanza, si faceva spedire tutta la stampa locale fiorentina, guardava il telegiornale e non si era neanche avvicinato alle zone disastrate. Richiamato in sede aveva reagito alla strigliata della direzione con un’alzata di spalle e cinque parole: «Non volevo sporcarmi i calzoni». Sospensione senza stipendio con censura, ma le telefonate di protesta dei lettori, quando le sue corrispondenze erano sparite, l’avevano fatto richiamare in tutta fretta. Rispedito a Firenze sotto scorta, aveva dovuto sporcarsi i calzoni e sciaguattare nella fanghiglia a mezza gamba, ma i suoi pezzi erano sempre strepitosi.

    «Passiamo agli esteri».

    Alfio Giovannini, occhialuto e puntiglioso caporedattore del settore si schiarì la gola ma l’Orbace non aveva ancora finito.

    «C’è un’altra storia che può diventare un paio di contro copertine», annunciò mostrando un foglietto tutto spiegazzato. «Ieri mattina davanti al supermercato c’era un gruppo di genitori che distribuiva volantini. Ce l’hanno con una setta asiatica, neocristiani o qualcosa del genere, che avrebbe irretito parecchi ragazzi. Li imbottiscono di chiacchiere, gli fanno il lavaggio del cervello e a poco a poco li strappano alle famiglie. Sembra che finiscano in Inghilterra, in Germania o addirittura in Corea, a lavorare come schiavi per l’organizzazione, e uno di loro, tornato a casa, pare si sia ammazzato per il rimorso… Avevo pensato di infiltrarci qualcuno almeno per qualche giorno, vedere come funziona l’approccio, i primi contatti, la tecnica di manipolazione mentale, e raccontare tutto in un paio di puntate, che ne dici?»

    «Potrebbe funzionare», approvò Amico che di solito respingeva ogni proposta dell’Orbace per principio, «ma ci vorrebbe un tizio sveglio e abbastanza giovane. E voialtri siete incasinati con il delitto e l’inchiesta sulla mala. Dopodomani c’è una manifestazione di extra e ci saranno casini di sicuro, ne riparliamo la prossima settimana, tanto la setta non scappa».

    La risposta fu un grugnito. Ma per un attimo mi sembrò che l’occhio senza luce dell’Orbace saettasse nella mia direzione.

    Capitolo due

    «Quando svieni mi lasci solo. E io soffro a stare solo. È un percorso che dobbiamo fare in due, lo capisci? Siamo uniti io e te, uniti dal dolore. E se tu te ne vai così il nostro legame si spezza. Lo sai cosa significa questo, no? Te l’ho spiegato: se fai così dovrai andartene per sempre».

    Il terrore vibrava dappertutto nel suo corpo mentre la pezzuola fredda accarezzava la fronte che bruciava come il fuoco. Onde di sofferenza salivano dalle unghie estirpate e si irradiavano dal polso all’avambraccio, fino alla testa e poi di nuovo in basso, verso le dita. La benda lo metteva un po’ al riparo dall’orrore. Temeva il momento in cui avrebbe dovuto guardarsi le mani e capire.

    La pallina scivolò fuori a fatica, mentre il bavaglio veniva sciolto. La bocca era un deserto di pietra che si ammorbidì gradualmente alla prima, meravigliosa, rigenerante, sorsata d’acqua tiepida. Poi una seconda. Si protese in avanti come un uccellino che aspetta l’imbeccata.

    «Bevi piano, che ti fa male… Perché mi hai lasciato solo?». Sentì la punta della lesina che gli premeva delicatamente contro la gola. Qualcosa di caldo e viscido colò sul collo. Una sensazione nuova, bellissima, un dolore quasi impercettibile, rosso chiaro, che testimoniava la vita, che era vita. Non ancora. Non ancora.

    «Pensi che sia venuto il momento? Che dobbiamo lasciarci?».

    Annaspò nel mare del terrore, la voce non riusciva a uscire, si nascondeva. Un’altra sorsata. Parla, rispondi. Non ancora, per favore.

    «Credi di dovermi lasciare? Pensi che il nostro legame debba finire qui? Hai il permesso di rispondere». La voce non dava tregua, con una nuova sfumatura, quasi lagnosa, di rammarico.

    «No, Signore, non ancora», implorò sull’orlo del baratro. «Non ce l’ho fatta, è stato un momento di debolezza», sputava le parole una ad una come grumi di sangue. «Migliorerò, resisterò, glieLo giuro. Non La lascerò più solo. Non accadrà mai più. La prego, mi faccia restare ancora con Lei».

    «Stai piangendo…». Rimprovero, delusione. Stava precipitando.

    «No!». Si accorse troppo tardi di aver gridato e si morse la lingua. Respirò a fondo. «No, non piango, glieLo giuro… È una reazione… Mi escono le lacrime ma io… piango di gioia, ecco. Voglio stare con Lei, La prego, mi faccia restare».

    «Piangi di gioia», stavolta la sfumatura era d’ironia, stava perdendo terreno, scivolava verso l’abisso, verso il commiato.

    «Sì, di gioia. Piango di gioia».

    «Va bene, ho deciso di crederti». Un’ondata calda di trionfo e di riconoscenza. Non ancora.

    «Dammi la mano destra».

    Docilmente, immediatamente. Le pinze si poggiarono sulle dita martoriate ormai insensibili. Uno scricchiolio appena percettibile, una tonalità nuova di rosso, forse amaranto. Durò solo pochi istanti. Non urlò, non pianse, non svenne. Era felice.

    «Riposati, tra poco ti porto da mangiare». Il bagliore arancione si spense, la benda cadde. Sapeva di dover restare con gli occhi chiusi mentre i passi – pesanti, regolari, tranquilli – si allontanavano. Buio e solitudine. Nascose le mani dietro la schiena sentendo qualcosa che cedeva e si spezzava ma non aveva colore né sensazioni. Pianse di sollievo, in silenzio.

    «Marco». Il braccio del sensei era puntato contro di me come un fucile. Non oggi, maledizione. Il frullato di emozioni che avevo ingurgitato in redazione mi turbinava ancora dentro, ero riuscito a precipitarmi a casa, agguantare la sacca e fiondarmi di nuovo in macchina, verso il dojo. Pessima idea.

    Mi affrettai ad alzarmi, strinsi il nodo della cintura e raggiunsi il mio posto alla destra del tatami, mentre il maestro scrutava la fila delle cinture superiori alla ricerca del mio avversario. Un branco di lupi pronti a spolparmi.

    «Giorgio». In piedi all’istante. Fluido, determinato, imbattibile. L’essenza stessa del karate in un metro e ottanta per 75 chili di aggressività pura e riflessi al cromo vanadio. Il peggio che mi potesse capitare.

    «Rei». Ci inchinammo all’unisono ma senza abbassare gli occhi uno dall’altro.

    «Ajimè».

    Partì come un lampo. Mae-geri, mawashi. Calcio frontale e subito dopo una staffilata semicircolare dritta al viso. Evitai di farmi staccare la testa con una parata goffa e sentii il braccio intorpidirsi fino alla spalla. Sperai di averlo preso col gomito sul collo del piede, ma lui cominciò a volteggiarmi attorno, impassibile. Poi fluì verso di me espandendosi come un fiume. Tzuki allo stomaco, il pugno corto, diretto, che era la sua specialità. Parai in chudan e piroettai su me stesso in un calcio frustato all’indietro che andò rovinosamente a vuoto. Mentre recuperavo un simulacro di guardia, mi infilò spietatamente con un altro pugno al petto.

    «Wazari». Mezzo punto. Lo sguardo del maestro era carico di riprovazione mentre mi inchinavo e tornavo al mio posto per riprendere il combattimento. Grondavo sudore. Pessima figura. Volevo solo andare a casa.

    «Ajimè». Giorgio tenne la guardia bassa e restò quasi immobile al suo posto, ondeggiando leggermente sulle punte dei piedi come una ballerina. Mi stava lasciando il tempo di recuperare, tipico di quel fottutissimo samurai cavalleresco. Scattai con tutta la velocità che avevo in corpo (pochissima) e sferrai un calcio laterale di taglio che lui schivò con un lievissimo movimento del tronco, caricai lo tzuki con un kiai a gola spiegata e sentii un treno urtare in pieno il mio plesso solare. Un istante dopo ero a terra, boccheggiante, il maestro chino su di me che cercava di farmi recuperare il respiro, Giorgio già inginocchiato al suo posto, di schiena, correttissimo, sportivissimo. Mi alzai a fatica, aspettai il saluto e il braccio del sensei levato nella sua direzione, «Ippon», poi andai a stringergli la mano. Quando mi chiese: «Tutto bene?», rimpiansi di non avere una calibro 9 in dotazione nel karategi.

    «Che hai Marco? Non ti ho mai visto così deconcentrato».

    Ero appena uscito dalla doccia, sgocciolando sul pavimento e cercando di districare la manica dell’accappatoio mentre la temperatura polare dello spogliatoio stava già lavorando a un inizio di polmonite. Dolorante, cercai di infilarmi gli zori bagnati e scossi la testa.

    «Mi dispiace, sensei… È stata una giornata pesante in redazione», tentai di giustificarmi, «sai, sono appena arrivato, mi mettono sotto. Sono ancora in prova, se non faccio una buona impressione mi sbattono fuori e addio sogni di assunzione…». Il mio patetico tentativo di evitare il pistolotto naufragò.

    «Capisco, hai un nuovo lavoro, una nuova vita, hai la testa piena di pensieri», il maestro riusciva sempre a fare la doccia e infilarsi la tuta nel tempo che noi impiegavamo a spogliarci. Forse era una specializzazione che si studiava dopo il primo dan di cintura nera. Spogliatoio-do, l’arte di rivestirsi in sei secondi netti senza mai smettere di rompere le palle. Cercai di mostrarmi debitamente attento ma non vedevo l’ora di andarmene a casa a leccarmi le ferite.

    «Quando sali sul tatami devi dimenticare tutto il resto», proseguì implacabile. «Il karate è concentrazione, più che tecnica. Svuota la mente, sii presente in ogni istante, in ogni movimento. L’essenza è questa. Devi essere come un lago che riflette ogni immagine ma non trattiene nulla. Tu non fai karate, tu sei karate, almeno qui. Se ci riesci, credimi, ti sarà utile in qualunque cosa tu faccia, anche nel tuo nuovo lavoro».

    «Sì sensei». Gli altri salutavano e uscivano uno dopo l’altro. Beati loro.

    «Se lavori solo col corpo non arriverai a nulla, tanto vale che ti metti a fare quella ginnastica aerobica che va tanto di moda», era un pistolotto de luxe, il padre di tutti i pistolotti. «Il karate è una pratica dello spirito. Morte o vita in un attimo, l’origine era questa. Non importa quante volte perdi o vinci, ogni volta devi essere al massimo».

    «Sì sensei». L’inventario mentale del contenuto del frigo che mi aspettava a casa mi gettò nello sconforto.

    «Sei sempre stato uno dei migliori. Continua a esserlo. Non ti deconcentrare. Ricorda che quest’anno ti voglio preparare per gli esami di cintura nera». Mio malgrado sentii un brivido di eccitazione. Cintura nera. Futuro cronista di nera. Il nero era il mio traguardo nella vita.

    Il seminterrato dove vivevo solo da tre mesi, per generosa concessione dei miei (Adesso che si è liberato pensiamo che potrebbe essere un’occasione per renderti autonomo, specie ora che hai intrapreso una strada, bla, bla, bla), era il consueto mix di disordine e squallore, letto sfatto e lavello intasato di piatti sporchi, perché la donna a ore veniva solo due volte alla settimana. Nel frigo, un pezzo di emmental mi guardò maligno. Sono duro, son verdastro, son la gioia di papà. Lo buttai nel cestino assieme al latte scaduto tre giorni prima e a un pomodoro in decomposizione. Considerai l’idea di cucinare la specialità dello chef, spaghetti al burro e parmigiano, ma mi mancavano due ingredienti su tre. Rassegnato, scesi al bar che stava per chiudere, comprai una pizzetta riciclata, tre tramezzini in età da pensione e due birre in lattina e me ne tornai nella tana col bottino. Masticai avidamente stravaccato davanti a un film alle ultime battute, rinunciai all’idea di farmi una canna, m’infilai tra le lenzuola stropicciate e crollai svenuto alla decima riga di Delitto e castigo.

    «Pronto, lei è un cronista?». Voce roca, affannata, ansante. Buttai giù il caffè a temperatura piombo fuso. La mia lingua si trasformò all’istante in una felpa.

    «Sì… io… sono un cronista, sì, mi chiamo Marco Corvino».

    «Cronista, cronista? Ha una vocetta da ragazzino. Quanti anni ha?»

    «Trentadue». Mentire al telefono non è peccato. Cercai di assumere un tono grave, professionale, a dispetto delle mie corde vocali implumi. «Desidera?». Gentile coi lettori, sono la nostra forza, i nostri veri finanziatori. Era la prima regola che avevo imparato.

    «Ecco, vede, volevo dire… Ma forse non è il caso. Il fatto è che ho litigato con mia moglie».

    «Sì?»

    «È una vera stronza, capisce? Io la chiamo la mignotta. Sono sicuro che mi mette le corna e poi, quando voglio fare roba con lei, ha sempre le sue cose. Alle donne sposate le mestruazioni vengono tre volte al mese, lo sa? È sposato lei?»

    «No. Cioè… insomma, scusi, la capisco ma ha chiamato un giornale, mica un consulente matrimoniale, non credo che queste vicende personali possano interessare…».

    «Una stronza mignotta, ha capito? Una grandissima puttana. Stamattina gliel’ho detto sul grugno, lei si è pure incazz… incavolata, scusi, e sa che ha fatto? Mi ha dato una sberla e mi ha anche graffiato con l’anello… L’ANELLO CON LO SMERALDO CHE LE AVEVO REGALATO IO, ’STA GRAN ZOCCOLA».

    «Ho capito… si calmi per favore. Come le dicevo, queste diatribe familiari non…».

    «…Allora sa che ho fatto? Gliene ho mollato uno dritto sulle sise».

    «E ha fatto male, la violenza in questi casi…».

    «Il fatto è che avevo un coltello in mano. Stavo sbucciando una mela e neanche me ne sono accorto, di quel maledetto coltello».

    «Ah… E allora?»

    «No, non le ho fatto male, non ha sofferto…».

    «Meno male, perché…».

    «È morta subito, capisce? All’istante, zac, stecchita… Un minuto prima era viva, strillava, s’incazzava e poi tutto d’un tratto eccola lì, morta… Povero amore mio, cosa ti ho fatto? Ma io mi ammazzo, sa? Adesso mi taglio le vene così la rivedrò in Paradiso e passerò l’eternità a chiederle scusa».

    «Aspetti, non pianga, non faccia così…», il mio cuore stava ballando la tarantella. Fallo parlare, dagli corda, vai sul posto, intervistalo, accompagnalo in questura. Foto, titoli di prima: il nostro cronista arresta un uxoricida. IL MIO SCOOP.

    «Pronto, cronì? È ancora lì? S’è addormentato? Stavo dicendo che ora mi taglio le vene…».

    «Sì, cioè, no… Ascolti, non faccia altre sciocchezze. La vita è il bene più prezioso», mi morsi la lingua: chi credevo di essere, il Papa? «Sì, insomma, lei può a ancora rimediare, espiare. E poi chi le dice che la signora è morta davvero? Magari è solo ferita».

    «Morta, mortissima, mi creda. Faccio il macellaio».

    «Senta signor… Come si chiama?»

    «Perché?». Sospettoso. La situazione mi stava sfuggendo di mano. Respira a fondo, concentrati.

    «No, va bene, niente nomi. Le dico il mio: Marco Corvino. Se vuole, se crede, posso venire da lei anche adesso. Niente polizia. Parliamo, valutiamo la situazione, vediamo che si può fare. Io… il nostro giornale la può aiutare, possiamo pubblicare un pezzo, raccontare la sua versione, metterla in buona luce. Vessato da una moglie infedele, ha perso la testa all’ennesimo tradimento e in un istante di follia… Capisce?»

    «No, non infedele. Mignotta. Povera mignottina mia».

    «Va bene, mignotta, come vuole lei… Ma è meglio non infierire sul ricordo della defunta». Che cazzo stavo dicendo?

    «Lei mi aiuterebbe veramente? Verrebbe qui a parlare con me?», esitante, terrorizzato. «Oddio c’è sangue dappertutto, è pieno di sangue, non ce la faccio più, voglio morire. In galera non ci voglio andare, capito? Piuttosto mi ammazzo».

    «Non lo faccia, rifletta… Mi dia il suo indirizzo, vengo immediatamente da solo, cioè col fotografo ma quello non conta… Dove si trova? L’indirizzo…».

    «Senta, mi lasci riflettere. Marco Corvino, ha detto? La richiamo». Clic.

    Scossi il telefono ma non servì a rianimarlo. Tuuu tuuu. Mi precipitai dall’Orbace che stava parlando fitto fitto con Luciana e mi rivolse uno sguardo infastidito.

    «Scusa, capo, c’è un’emergenza. Ha telefonato un tizio, ha detto che ha appena ammazzato la moglie. Sta lì, davanti al cadavere, e non sa che fare, non ha chiamato la polizia, solo noi…».

    «Sarà il solito scimunito».

    «No, capo, credimi, sono sicuro che era sincero. Parlava, straparlava, diceva che vuole tagliarsi le vene per chiederle scusa in Paradiso…».

    «Vabbe’, prendi il fotografo e vacci. Ma vedrai che sarà un mattoide».

    «Il fatto è che non so dove sta… Non mi ha dato l’indirizzo…».

    «Cosa? Non ti sei fatto dire l’indirizzo? Merda, ma con tutti i cronisti veri che abbiamo proprio te doveva beccare?».

    Fu peggio di uno schiaffo. Sentii le orecchie che cominciavano a imporporarsi.

    «Ci ho provato capo ma è diffidente, sconvolto… Ha detto che richiama e…».

    «E allora tu piazzati davanti al telefono, aspetta che richiami, fallo parlare, fatti dire dove sta e corri, magari con Tarioli».

    «Scusa capo, ma ormai si fida di me, penso che se mi vede arrivare con un’altra persona magari crede che sia un poliziotto…».

    «Tu fallo parlare e poi vediamo. Corri, sei ancora qui? Magari sta richiamando adesso e non ti trova…».

    Il telefono, in effetti, stava squillando. Lo agguantai al volo. Era Turante con due brevi dalla questura. Poi fu la volta di una signora che si lamentava per una multa già pagata che le era arrivata di nuovo. Ancora Turante, due ladri presi sul fatto. Il presidente di un comitato di quartiere che chiedeva un pezzo sulle discariche abusive che ammorbavano l’aria. Un mio ex amico del liceo. Turante. Friggevo. Tre ore interminabili. Gli altri entravano, uscivano, andavano al bar. Il telefono mi guardava beffardo. Radio questura snocciolava interventi di routine. Alzai il volume nel terrore che si mettessero a gracchiare di un tizio che aveva ammazzato la moglie e si era svenato. Niente.

    Stavo per alzarmi e andarmi a prendere un altro caffè ma lo squillo mi fece ripiombare sulla sedia.

    «Marco Corvino?»

    «Sì!». Dall’espressione di Luciana mi resi conto di aver gridato.

    «Sta registrando, vero? Magari c’è un poliziotto vicino a lei che ascolta tutto quello che dico». Sembrava più calmo, adesso, rassegnato.

    «No, glielo assicuro, glielo giuro. Noi tuteliamo sempre le nostre fonti. Ma lei si deve rendere conto che…».

    «Ho capito, ho capito. Lei viene qui, parliamo e poi mi accompagna dalla polizia. Ci ho pensato su, si può fare. Non m’importa neanche di andare in galera. Ho ammazzato il mio amore, la mia mignottina adorata… È giusto che paghi… Forse, tutto sommato, è meglio che chiami direttamente il 113 così la facciamo finita».

    «Aspetti, per quello c’è tempo», cercai di dare alla mia voce un tono rassicurante, ma era impossibile, mi sembrava di aver catturato a mani nude una succulenta trota pronta a sgusciare via alla prima distrazione. «Cerchi di rendersi conto… Il giornale la può aiutare, se lei si fa intervistare noi faremo di tutto per alleggerire la sua posizione. Magari possiamo anche trovarle un buon avvocato… Una difesa agguerrita fa miracoli, sa…».

    «Io… non so…». Fallo parlare, non lasciartelo sfuggire.

    «Se vuole posso venire con un collega più anziano, uno che conosce bene tutti i poliziotti, che sa come comportarsi in queste…».

    «Allora lei non è un cronista vero, eh, Corvino? Vede che ci avevo azzeccato».

    «Ma no, sì, che c’entra? Sono un cronista, ma in due forse è meglio».

    «Via dei Girasoli 123».

    «Via dei Girasoli 123?», c’ero riuscito. «Mi aspetti, arrivo subito. Non chiami nessuno, non avverta la polizia, mi aspetti, va bene?».

    Quattro secondi dopo ero davanti all’Orbace. «Ho l’indirizzo, vado, corro». Telefonai al fotografo, poi rimbalzai nel corridoio come una palla da tennis. Mentre correvo verso le scale mi sentii afferrare le braccia. Una stretta di ferro mi trascinò indietro. La polizia. Mi hanno intercettato, hanno sentito tutto, riuscii a pensare mentre mi divincolavo imprecando e scalciando. La stretta si serrò ancora di più e venni scaraventato in una stanzetta laterale. Alfio Cagnoni, l’usciere malavitoso che fungeva anche da guardia del corpo del direttore, era seduto davanti a un telefono e sghignazzava. Riconobbi la voce di Tarioli che mi urlava nelle orecchie. «Calmati, calmati… A momenti mi sfondi una caviglia con quei maledetti calci».

    «In via dei Girasoli / Al centoventitré / T’aspetta l’assassino / Che vuol parlar con te…», canterellò Cagnoni. Poi, con una voce completamente diversa: «Con l’anello di smeraldo che le avevo regalato io, capisce? La mia mignottina adorata».

    Sentii le gambe molli, l’adrenalina che fluiva fuori dal mio corpo come acqua da un imbuto, ma anche uno strano senso di sollievo.

    «Uno scherzo… mi avete fatto uno scherzo. E io ci sono caduto come un deficiente». Cercai di sorridere e mascherare lo smacco. Piccolo, stupido, presuntuoso.

    «Non uno scherzo, Marco, un test. Lo facciamo a tutti quelli che iniziano con la nera», la voce di Tarioli era comprensiva, solidale, «e tu te la sei cavata alla grande. Vieni, andiamo dal capo».

    Il sorriso da alligatore era più sinistro che mai. L’unico occhio saettava disapprovazione.

    «Noi non forniamo difesa gratuita agli assassini. Non siamo uno studio legale pro bono».

    «Hai ragione, io… non sapevo come convincerlo».

    «E ricorda una cosa: i nostri telefoni sono sotto controllo. La polizia avrebbe rintracciato il numero, sarebbe già andata sul posto e addio scoop».

    «Che dovevo fare?», ero completamente smontato.

    «Niente», concesse l’Orbace, «niente di più e niente di meno di quello che hai fatto. Sei stato bravo, Corvino, forse tutto sommato, nel giro di qualche anno, potremmo fare di te un cronista accettabile». Poi si sedette e afferrò un foglio. Udienza conclusa.

    «Andiamo al bar, dai», Tarioli mi prese per un braccio. In ascensore mi sorrise: «Pensa, un anno fa un fesso di volontario rispose così: Se davvero ha ammazzato sua moglie chiami la polizia».

    «E che fine ha fatto?»

    «L’abbiamo provato sulla scuola. È durato due mesi, poi…». Fece un gesto d’addio.

    Mezz’ora più tardi stavamo di nuovo correndo. Rapina con sparatoria in una banca del centro. Un vigilante abbattuto col calcio di una pistola, raffiche di mitra sul soffitto, una signora trascinata fuori per fare da scudo ai banditi in fuga, caricata sulla macchina dei rapinatori e rilasciata, in preda a una crisi isterica, un chilometro più avanti, posti di blocco dappertutto. Tarioli la cronaca, io le testimonianze. Facce pallide, terrorizzate, inferocite. Intervistai impiegati, clienti della banca, passanti; raccolsi nomi e indirizzi mentre facevo impercettibili cenni al fotografo affinché scattasse primi piani di nascosto. Le foto erano il terrore di tutti i testimoni che, davanti all’obiettivo, ammutolivano di colpo e scantonavano.

    Più tardi rimasi due ore davanti alla casa della signora sequestrata, assieme ai colleghi di altri due giornali, e non ebbi pace finché il marito non scese, mi assicurò che la moglie non era in grado di parlare e mi raccontò tutto quello che gli aveva detto. «Ok, per me va bene così», disse Sergio Bucci, un vecchio e grasso cronista che lavorava per il primo quotidiano della città, «me ne vado». Salì sulla macchina che si allontanò. Lo imitai. L’autista mi rivolse uno sguardo compassionevole.

    «Quello fa un giro e poi te lo ritrovi di nuovo qui. Cerca di beccarla da sola. È un vecchio volpone, Bucci», mi spiegò in tono paziente.

    «Ma no, mi ha detto che…».

    «Scommettiamo una cena?». Ce ne andammo per tornare dopo un quarto d’ora. La macchina di Bucci era di nuovo lì. Quando mi vide fece un gesto che voleva dire: È la guerra….

    «Senti, siamo rimasti solo io e te… quella stronza non parla e io stasera voglio andare al cinema con mia moglie. Molliamo sul serio?». Mi porse la mano. Gliela strinsi, orgoglioso, da pari a pari. Almeno stavolta non mi ero fatto fregare. Crescevo.

    Capitolo tre

    Non vedeva più i colori. Non sentiva più il dolore. Sveniva di continuo, e quando si riprendeva singhiozzava di paura e autocommiserazione. Lo stava deludendo. Tentò di tornare a galla, di riemergere dall’ovatta biancastra che lo stava sommergendo. Sentiva la voce carezzevole, insinuante, venata di dispiacere.

    «Mi dispiace, sai? Abbiamo fatto un bel percorso assieme, noi due… Un lungo percorso, e siamo stati tanto vicini. Ti ho capito, tu hai capito me…». La stanchezza era come una coperta calda, morbida, accogliente. Decise di rannicchiarcisi dentro, di non lottare più. Finito. Tutto finito. Quiete.

    «Tra le persone che sono state qui con me tu sei quella che mi ha reso più felice, credimi. Non ci sarà nessuno come te. Per questo voglio lasciarti un ricordo. Lo porterai con te nel posto dove stai andando». Lo sentì armeggiare, poi un lampo giallo lo accecò attraverso la benda.

    «Voglio che tu mi veda, adesso». Mani delicate sciolsero il nodo sulla nuca. Una vampata di terrore puro. Scosse la testa, gli occhi serrati.

    «no. Non La voglio vedere, non voglio… Non ancora, La supplico. Posso resistere, non voglio andare via, voglio restare». Dita asciutte e forti sotto il mento. Qualcosa che pungeva sulla parte sinistra del torace, che si insinuava tra le sue costole. Aprì gli occhi e Lo vide. Poi il buio.

    Emerse dal gruppo di turisti come un fulmine. Un angelo devastatore alto e smilzo, con una barba ben curata alla Cavour, occhiali tondi da professore di inglese e lunghi capelli biondi, che urlava qualcosa di incomprensibile con una voce rauca e folle. Nessuno vide il martello fino a quando non scavalcò la balaustra con un balzo, piombò sulla grande Madonna di marmo levigato che qualcuno stava ancora fotografando e la colpì due volte sul braccio che sorreggeva la figura del Cristo deposto dalla croce. Rumore di pietra in frantumi, grida di sorpresa e sgomento, poi ancora le urla selvagge del pazzo che continuava a colpire. Tutti immobili, paralizzati dall’orrore: un’espressione che avrei scritto centinaia di volte in centinaia di occasioni diverse. Poi il folle si fermò per un istante, ansimando: il tempo necessario perché due turisti di Urbino si rendessero conto di quello che stava accadendo, gli si avventassero contro e lo afferrassero ciascuno per un braccio. Un poliziotto si destò dallo shock, estrasse la pistola, raggiunse i turisti e il pazzoide, riuscì a trovare le manette e gliele assicurò ai polsi, aggiungendo un cazzotto allo stomaco di cui non c’era alcun bisogno dato che il tizio, ormai ammansito, si limitava a farfugliare frasi che nessuno capiva. Radio Doppia Vela 21 ci avvisò all’istante.

    «È successo qualcosa alla basilica centrale», disse Macioni alzando gli occhi dalla schedina del Totocalcio con cui sperava, ogni settimana, di cambiare il suo destino per potersi togliere lo sfizio di prendere a calci in culo l’Orbace davanti all’intera redazione prima di infilargli in testa il cestino della carta straccia (dove, di solito, finivano i suoi pezzi). «Non si capisce bene, sembra che qualcuno abbia preso a martellate una statua».

    «Una statua? Cazzo dici, forse una persona…».

    «No, sembra proprio una statua, fatemi sentire». Volume a palla.

    «La persona è stata neutralizzata? Ripeto: la persona è stata neutralizzata? Notiziateci se serve ausilio».

    «Visto? Una persona». Tarioli si stava infilando il similpecora mentre agguantava un fascio di fogli, pronto a uscire, ma Macioni gli fece cenno di aspettare…

    «Sì, la persona è tranquilla ma c’è un gruppo di gente attorno alla macchina che vuole tirarlo fuori. Mandate altre auto, ripeto, mandate altre auto», la voce del poliziotto trasudava paura.

    «Volante quattro mi sentite? Intervento immediato alla basilica per tentativo di linciaggio in corso… in ausilio ai colleghi. Vigilanza anche attorno alla statua danneggiata perché la gente cerca di raccogliere frammenti». Le ultime parole furono sommerse dal rumore delle macchine da scrivere spostate e dalle sedie allontanate di scatto dalle scrivanie.

    «Sandro, Luciana, Corvino, fuori», decretò l’Orbace. «Ce la facciamo per l’edizione notte se vi date una mossa… Antonio col fotografo in questura: cerca di intervistare il tizio e naturalmente voglio la foto per la prima. Giovanna, chiama l’archivio: mi serve un pezzo sulla basilica e su quella statua del cazzo. Turante», sbraitò al telefono senza smettere di dare ordini alla redazione, «sali dal questore e intervistalo. Voglio sapere perché i poliziotti di questa merdosa città dormono mentre i nostri capolavori artistici vengono devastati dai lanzichenecchi. Anche le statue adesso…», grugnì mentre spostava faticosamente i suoi ottanta chili di lardo redazionale per trascinarsi dal direttore.

    Mi toccarono le testimonianze, come al solito. Turisti sbalorditi. Passanti indignati. Bancarellari e urtisti divertiti che mettevano in mostra i modellini della statua oltraggiata urlando «Questa è sana, questa è sana» e facevano affari d’oro. Poliziotti scontrosi che rispondevano a mugugni. Una suora in lacrime. Un prete che quando gli dissi il nome della testata per cui lavoravo si fece il segno della croce e mi invitò a redimermi: «Lei è così giovane, pensi ai suoi genitori…». Riempii il taccuino di appunti, corsi in una tabaccheria a comprarne un altro, riempii anche quello. Dentro la notizia. Professionale. Felice. Giornalista vero. Come gli altri.

    Cercai inutilmente di assumere l’aria smagata che leggevo sul viso degli altri colleghi anziani, quella alla cheppalle, ma quando finisce ’sta stronzata?, ma ero troppo congestionato, troppo eccitato. Qualcuno, comunque, cominciava a riconoscermi e perfino a salutarmi. Il massimo fu quando un praticante poco più anziano di me si avvicinò, dette una sbirciata ai miei appunti e mi chiese timidamente se avevo beccato il poliziotto che aveva arrestato il matto. «No, mi sa che è andato subito in questura», risposi con aria di sufficienza mentre mi sentivo crescere di un paio di centimetri buoni.

    Tre giorni dopo, quando ormai sulla storia si era scritto tutto l’immaginabile, Tarioli superò se stesso, con uno di quei colpi d’ala che gli erano valsi il soprannome di Principe della nera.

    «E sulla storia della statua che cazzo ci inventiamo? È un nostro scoop, bisogna insistere!».

    Il fondo del barile era stato grattato fino al legno. Ogni dettaglio sviscerato. Ogni pallosissimo esperto e studioso intervistato. Il questore era stato messo sotto accusa. Il sistema di sicurezza rinforzato. Avevamo persino sondato una ad una le agenzie turistiche che raccoglievano fiumi di prenotazioni da gente che andava a vedere la statua mutilata. Vivevo giornate intere sul sagrato a raccogliere le faccette, quelle testimonianze pubblicate in colonnino con la foto del tizio di turno sormontata da nome, cognome, indirizzo, età e professione in neretto che facevano aumentare le vendite perché ciascuno degli intervistati, il giorno dopo, comprava cinquanta copie («E l’età di questa babbiona? Quanti cazzo di anni ha, ’sta befana?» «Scusa, capo ma non me l’ha voluto dire… mettiamo 56?» «Sì, bravo, così quella magari ne ha 54 e mezzo e fa causa al giornale… Possibile che non riesco proprio a insegnarti un cazzo?»). Insomma, giravamo a vuoto. L’unico vero buco lo avevamo preso da un quotidiano nazionale che aveva spedito un inviato in Australia a intervistare la madre dell’Iconoclasta (un professore di origine ungherese che non aveva mai dato segni di squilibrio in precedenza, ma era stato piantato dalla moglie due mesi prima) e aveva pubblicato l’intero album di foto di famiglia. Ma l’Orbace aveva incassato bene: contro le risorse economiche dei giornali capitalisti potevamo mettere in campo solo il nostro ingegno.

    «Allora? Volete un caffè per svegliarvi? Che cazzo ci inventiamo adesso?».

    Sandro Tarioli alzò la testa, cogitabondo.

    «Lo rifacciamo?».

    L’ultima scena fu una carneficina. Mi piacque da morire. Gianna, come al solito, aveva chiuso gli occhi e si era persa il meglio. Uscendo dal cinema, sfoderò la sua migliore espressione da regina offesa e io capii che sarebbe stato un sabato difficile, anche se non sapevo ancora quanto.

    «Ci facciamo una pizza?».

    Era scontato. Cinema, pizza poi a casa mia a fare l’amore. Il sabato, quando i suoi andavano in campagna, dormiva da me e i genitori facevano finta di credere alla storia dell’amica che la ospitava nei weekend una settimana sì e una no. Durava da due anni e mi stava benissimo, anche se avrei dovuto cogliere i primi, inquietanti, segni di stanchezza: il sesso sempre più svogliato, l’espressione assente, certi scatti di insofferenza che reprimeva a fatica quando le parlavo ininterrottamente del giornale per un pomeriggio intero. Era venuta a trovarmi sul lavoro una volta ed ero rimasto deluso dal fatto che non si mostrasse estasiata di fronte alle meraviglie della redazione. In compenso avevo guadagnato almeno dieci punti nella considerazione della parte maschile della cronaca: snella, distinta, una cascata di capelli castani lussureggianti, gonna stretta e stivali neri, quella meravigliosa erre moscia che le dava un tono ancora più blasé, Gianna incarnava perfettamente le mie fantasie erotiche. E a giudicare dalla cupidigia che avevo visto brillare negli occhi di Mirioni e Tarioli, non solo le mie. Luciana l’aveva semplicemente ignorata, il resto delle colleghe in gonna lunga, zoccoli, scialli da zingare e bigiotteria da bancarella aveva storto il naso.

    Donne senza femminilità, afrori di patchouli e tabacco nero, turpiloquio, aggressività, guerra dichiarata alla ceretta, ascelle cespugliose: l’altra metà del cielo redazionale non concedeva eccezioni. La più sdrucita era figlia di un editore siciliano impaccato di miliardi ma guai a menzionarlo. Nei miei confronti, mantenevano un’altera e divertita diffidenza verso il signorino-che-vuol-divertirsi-a-fare-il-giornalista, atteggiamento che io cercavo di vincere con i capelli incolti, i jeans rattoppati e la miglior versione possibile di un linguaggio da caserma. Una volta avevo arrischiato una battuta sulla storia di una prostituta violentata da un cliente e avevo sfiorato la catastrofe.

    «Che vuoi dire, che una puttana non è una donna come tutte le altre?», aveva ringhiato Nadia, il naso da tucano a un millimetro dal mio e l’alito da drago segnato dalle venti Gauloises senza filtro fumate in mattinata che mi costringeva a tirarmi indietro. «Che chiunque la può stuprare a suo piacimento solo perché è costretta a vendere il suo corpo? È questo che intendi?»

    «No… Io… È solo che non è la stessa cosa se violentano una ragazzina, no?», stavo arretrando verso il burrone. «Cioè, se una fa certe scelte magari corre anche dei rischi».

    «Scelte?», Nadia si era girata verso le altre con le braccia allargate. «Magari quella poveraccia ha un figlio da mantenere e non trova un altro lavoro… Magari ha un pappone che la massacra di botte tutte le sere… Magari non ha un papà imbottito di soldi che la mantiene…».

    Tarioli era misericordiosamente intervenuto in mio soccorso sdrammatizzando con una delle battutacce grondanti liquame che solo a lui erano permesse. Più tardi, mi aveva rifilato una paternale sui rischi di urtare la sensibilità postfemminista della redazione. Da allora consideravo cazzo, fica e annessi come un terreno minato.

    Capricciosa per me, margherita per lei e un crostino alle alici diviso in due. Anche il menù era un rituale. Come cenetta erotica lasciava un po’ a desiderare ma io non guadagnavo una lira e lei studiava filosofia e spendeva tutta la paghetta dei genitori in vestiti. Per champagne e aragosta avremmo dovuto aspettare qualche anno, come per un sacco di altre cose.

    Guardai i resti della margherita sbocconcellata di malavoglia nel piatto di Gianna mentre attaccavo di buona lena anche la sua metà del crostino, poi scolai l’ultimo sorso di birra.

    «Non hai fame?»

    «No… Tu sì, a quanto vedo».

    «Non ho pranzato», bofonchiai rischiando il soffocamento con la mozzarella filante, «solo un panino e tre tramezzini… Sai c’è stata una rapina…». La vidi alzare gli occhi al cielo e battei in ritirata verso territori più ospitali. Feci un cenno verso un cameriere, il quale mi voltò immediatamente le spalle. La maleducazione che regnava in quella pizzeria era proverbiale, inversamente proporzionale alla convenienza dei prezzi e alla bontà del cibo. Tavoli sempre affollati di studenti che fumavano, discutevano, si incazzavano, si divertivano, code chilometriche all’ingresso, frastuono di motorini e vecchi scooter in strada.

    «Andiamo da me?», era una domanda retorica, almeno credevo. Mentre annaspavo per districare una manica dell’eskimo, la vidi esitare.

    «Mi dispiace, stasera non posso…».

    «Ma come, i tuoi non sono fuori?»

    «Sì, è che… Devo studiare per un esame. E poi ho le mie cose». Ho le mie cose. Le quattro parole più detestate da ogni maschio sano e giovane, specialmente il sabato sera.

    «Ma come le tue cose? Non le hai avute una… due settimane fa?»

    «Che fai, mi tieni i conti, adesso? Sei diventato il mio ginecologo?», la voce di Gianna si era abbassata di un’ottava: allarme rosso.

    Tentai di essere conciliante. Pessima strategia.

    «Gianna, ma che hai? Sei assente, suscettibile… ti incazzi per niente. Sembri una di quelle sgallettate del giornale».

    «Il giornale, il giornale», adesso era scesa al contralto, disastro inevitabile, «mi hai rotto con questo maledetto giornale a pranzo, cena e colazione. Non pensi ad altro, non parli d’altro che della redazione e di quei falliti dei tuoi colleghi». Colleghi? Magari. «E il delitto qui, la rapina lì… Sei una palla, Marco, fattelo dire. Hai completamente smesso di studiare. Se hai deciso di fare il cronistucolo da quattro soldi per tutta la vita sono affari tuoi ma almeno non mi ammorbare».

    Rabbia e umiliazione sono un cocktail pericoloso, soprattutto alla seconda birra da tre quarti, ma riuscii ad aggrapparmi a un barlume di autocontrollo…

    «Ma come? Eri d’accordo anche tu… Ci sto provando, Gianna, ce la sto mettendo tutta. È la mia occasione… Non hai sempre detto che il giornalista è una bellissima professione…». Aveva uno zio editorialista degli esteri in una prestigiosa testata milanese ma preferii non ricordarglielo: prima di essere accettato come volontario di cronaca al giornale, era andato a parlargli. Mi aveva consigliato una laurea e un master negli Stati Uniti. Da allora, l’argomento era tabù. Uno dei tanti.

    «Insomma, Gianna, che ti ho fatto? Sembri mio padre». Mi morsi la lingua quando la vidi sbiancare di collera. Lo detestava, ricambiatissima…

    «Mi accompagni a casa per favore?».

    La 128 giallo uovo era ancora uno dei pochi punti a mio favore, almeno rispetto ai Vesponi dei suoi amici studenti. Gianna era l’unica donna della sua generazione che non rifiutasse di farsi aprire lo sportello, ma quella sera ero veramente troppo incazzato per la galanteria. Guidai in silenzio verso casa sua sentendomi bello, pallido e offeso. Lei soffiava il fumo fuori dal finestrino con l’indifferenza di chi ha preso un taxi e vuole evitare di dar confidenza all’autista. Frenai sotto il suo portone. Quartiere bene. Fino a un paio d’anni prima l’avrei considerato territorio nemico, zona ad alto rischio, come quello in cui abitavo io. Ormai mi sentivo fuori dalla guerra di bande tra zecche e uomini-freccia, tra pelosi e camerati.

    «Be’, siamo arrivati». Il Glaciale Gentiluomo.

    Esitò. Per un attimo vidi le cose in una prospettiva tutta diversa. Bisticcio tra innamorati. Temporale estivo. Segue riconciliazione, corsa a casa mia, sesso al calor bianco, pigre coccole al mattino, colazione a letto…

    «Marco, forse è meglio se non ci vediamo per un po’». Toast, marmellata e succo d’arancia scomparvero all’istante. Il mio stomaco si contrasse…

    «Come?»

    «Ho detto che è meglio se non ci vediamo per un po’… davvero, per tutti e due… Tu hai il giornale, la tua vita, i tuoi nuovi amici… Io devo studiare e non so più se noi due…».

    «Come si chiama?», mi era uscita di bocca improvvisa come un satori, il lampo istantaneo dell’illuminazione zen.

    «Ma chi? Di chi parli? Che cazzo c’entra?»

    «Hai qualcun altro, vero? Ecco perché fai tanto la stronza… Voglio sapere chi è». Le mie viscere si erano aggrovigliate come serpenti, cuore in gola…

    «Non c’entra niente, Marco, siamo noi due che proprio non funzioniamo più insieme…».

    «VOGLIO SAPERE COME CAZZO SI CHIAMA!».

    «Non è che stiamo insieme, cioè, non lo so…». Adesso era spaventata. Non mi aveva mai sentito urlare, prima.

    «Chi-cazzo-è?». Ero combattuto tra la voglia di spaccarle la faccia e quella di abbracciarla e mettermi a piangere.

    «Dino Franceschi…». La lieve nota di fierezza nella sua voce mi fece boccheggiare. Dino Franceschi, proprio lui. Ex compagno di liceo, leader del collettivo-so-un-cazzo-cosa, preparatissimo, bellissimo, inarrivabile. Loden sdrucito su jeans scoloriti che probabilmente aveva ordinato da un sarto di Parigi. Leggermente bleso. Il sogno di tutte, l’invidia di tutti. Avevo un motivo in più per volerlo assassinare a tradimento. In confronto ero Rigoletto.

    «Ma certo, è perfetto per te. Bello, stronzo e non fa un cazzo tutto il giorno. Proprio il tipo che ti frega la donna mentre ti ammazzi di lavoro dalla mattina alla sera e naturalmente», cercai di non gracchiare mentre sparavo la domanda da un milione di dollari, «ci sei stata a letto».

    Silenzio colpevole.

    «CI SEI STATA A LETTO?». Le mie corde vocali stavano facendo gli straordinari.

    «Ma che c’entra, adesso? Stiamo parlando di noi due, mi pare…». Arretrava, sulla difensiva.

    «Di noi due, appunto. E se hai scopato con quel pezzo di merda mi piacerebbe saperlo». Avrei voluto mostrarmi sarcastico e tagliente ma ero solo patetico nella mia disperata speranza che rispondesse di no, niente sesso con altri, solo te, amore… Mi deluse per l’ultima volta.

    «È l’unica cosa che ti interessa vero? Già, voi maschi pensate solo a quello: ci sei andata a letto? Hai scopato con lui? Hai goduto? Avanti, perché non mi chiedi se ce l’ha più grosso del tuo? Tanto lo so che è lì che andremo a finire…».

    La mia mano destra scattò da sola. Non lo schiaffo con cui avrei voluto scardinarle la mascella ma uno tzuki perfetto che disegnò una ragnatela di crepe sul parabrezza della 128. Per un istante, solo un istante, dimenticai lo sconforto e l’umiliazione e mi congratulai con me stesso: neanche un po’ di dolore alle nocche. Agisci prima di pensare. In palestra non ci sarei mai riuscito. Nel tameshiwari, le prove di potenza in cui si frantumano tavolette di legno, mattoni o blocchi di ghiaccio, ero una schiappa senza futuro.

    Negli occhi di Gianna, ora, c’erano solo rabbia e paura.

    «Mi vuoi picchiare? Accomodati. Anzi, ti do un motivo in più: ci sono stata due volte e mi è piaciuto da impazzire. Mi ha fatto godere, mi ha fatto sentire donna. Non so se sarà l’inizio di una storia o no ma di sicuro sono state due scopate grandiose… E negli intervalli non mi rompeva le palle con le tue stronzate sul giornale».

    «Fuori da questa macchina, stronza». Ma anche stavolta era avanti di un passo e stava già aprendo lo sportello. Lo sbatté con violenza (cosa che mi mandava regolarmente in bestia) e si avviò verso il portone pestando i piedi come se avesse voluto conficcare i tacchi nell’asfalto.

    Misi in modo e ingranai la prima. Guidai per qualche minuto prima di fermarmi in un angolo buio per asciugarmi le lacrime. Mi sentivo un bambino abbandonato mentre cercavo di scacciare l’immagine del baccanale di Gianna e Dino tra le lenzuola. All’idea di tornare a casa mi si chiudeva lo

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