La stanza dei coralli
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Può capitare che due persone, lontane anni luce, si trovino a percorrere un pezzo di strada insieme, spinte dal sogno di qualcun altro.
Ciò che porta Christian e Cesare a collidere, perché di collisione si tratta, è il testamento spirituale di Dario, compagno gay del primo e figlio del secondo, escluso dalla vita di quest'ultimo dieci anni prima.
Così un giovane designer affermato e un vecchio padre stanco e chiuso in se stesso, accettano di portare in tre luoghi prescelti le ceneri di colui che entrambi hanno amato e perso, in modi e tempi differenti.
Ognuna delle tappe rappresenterà un momento di confronto inaspettato e a tratti violento, che porterà due mondi paralleli e lontanissimi a sfiorarsi e forse toccarsi, passando attraverso chiavi di lettura personali e tutt'altro che scontate.
A far da sfondo a questa distonica caccia al tesoro, un percorso che tocca luoghi che restano impressi nella memoria come ricordi infantili che sanno di mare, buona terra e fiori di ciliegio.
A volte anche le storie più banali mirano a sovvertire la placida prospettiva degli eventi.
Non ci sono i buoni e i cattivi, ma solo persone sospese in microcosmi auto riferiti, che cristallizzano certezze più o meno dolorose.
I due protagonisti si trovano a confrontarsi, loro malgrado, su un terreno accidentato, fatto di odio reciproco, amarezza, paura ed equivoci, il tutto alimentato da un “non detto” tenace e conclusivo, difficile da scardinare.
Servirà un viaggio per riequilibrare il senso delle cose, chilometro dopo chilometro, ora dopo ora, fino alla tappa finale.
Un luogo dove forse, un giorno, poter restare.
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Anteprima del libro
La stanza dei coralli - Valeria Munari
CORALLI
COLLISIONE
Christian aprì la porta dell’appartamento al secondo colpo di campanello.
Il primo biz
, troppo breve, era stato archiviato come uno dei tanti rumori-fantasma che spesso percepiva nell'eco dell'appartamento vuoto.
L’uomo anziano e sbiadito che gli si materializzò davanti lo fissò, restando immobile.
Christian ne soppesò i confini, giudicandolo stanco e ingracilito rispetto all’ultima volta che si erano visti: poi si spostò leggermente, lasciando all'ospite lo spazio per entrare nel grande appartamento tutto luci e hi-tech.
Chiuse la porta guardando altrove, per nascondere l'irritazione: non solo invadeva il suo spazio vitale, ma lo faceva lentamente e in silenzio, come un'erbaccia che pian piano soffoca una pianta alla radice.
L'uomo (Dio, com'era grigio...), si levò uno dei guanti di pelle indugiando un po' troppo su ogni dito, e lo gettò sulla lastra di vetro nero e lucido del tavolino: un oggettino da paginone centrale delle riviste di arredamento più glamour.
Infilò la mano nella tasca del soprabito, ne trasse un foglio di carta piegato a metà e con uno scatto angolare della mano, da burattino di legno, lo porse a Christian, che riconobbe immediatamente i segni, sottili e regolari, di chi scrive graffiando la carta.
Dario.
Il suo Dario.
Nell’epoca dell’Iphone, dell’Ipad, dell’Iqualsiasicosa, Dario aveva sempre usato la penna per le cose importanti.
Il vecchio attraversò la stanza, diretto alla finestra panoramica, e puntò lo sguardo verso le luci serali, rese intermittenti e tiepide dalla pioggia battente.
Christian conosceva già il contenuto della lettera.
21 dicembre 2014
Ciao papà,
ho riscritto cento volte l’inizio della lettera, perché dopo quasi dieci anni che non ci parliamo, non sapevo come cominciare.
Poi ho pensato che in fondo non è così importante, dal momento che un giorno saremo tutti morti.
Beh, in realtà io lo sarò prima di tanti altri: lo dico perché se stai leggendo significa che l’ultimo ciclo di chemio non ha dato gli esiti sperati, e che quindi è questione di poco.
Comunque volevo chiederti scusa papà.
Non perché non sono diventato avvocato come te, o perché sono un fallito senza arte né parte, che canta nei locali per campare, e nemmeno perché sono gay. Non è una colpa.
Ti chiedo scusa perché quando mi hai detto di andarmene l’ho fatto senza guardarmi indietro, e senza provare a farti capire. A parlarti. Ad ascoltare.
Non pretendo la tua approvazione o la tua benedizione postuma.
Vorrei solo che tu facessi una cosa per me: una specie di caccia al tesoro, di quelle che facevamo quando ero ancora il tuo piccolo campione
, e tu non eri il grande uomo impegnato che sei.
Le mie spoglie verranno cremate. A stretto giro, temo.
Vorrei che le ceneri fossero sparse in tre luoghi immensamente importanti per me, che Christian conosce benissimo.
Mi piacerebbe che le tre cerimonie
avvenissero a maggio, il più clemente dei mesi, e vorrei che lo faceste insieme.
Basta un fine settimana, non temere. So che non puoi allontanarti dall'ufficio.
Non credere che per lui sia facile. Non sei esattamente nella hit parade dei suoi soggetti preferiti.
Ci ha messo anni a curarmi le ferite, e qualcuna, credimi, me l'ero portata da casa.
So che questa è iniziata come una lettera di scuse e finisce con una supplica che certamente non hai voglia di assecondare, ma ti prego di vederla come un testamento morale.
Del resto puoi credermi, se ti dico che è l’ultima cosa che ti chiedo.
Addio papà.
Dario
L'ospite non proferì parola per un secolo.
"Pochi sanno che il tacet è in partitura", pensò Christian, citando una battuta del film Le vacanze intelligenti, uno dei suoi preferiti.
Un tacet, davvero ingombrante, che riempiva l'attico.
Sembrava che quell'individuo si portasse dietro un carico di nebbia ghiacciata, capace di infilarsi in ogni angolo, e brinare tutto quanto.
- Lei sapeva di questo? Di questa cosa?
Christian alzò un sopracciglio: - L'ultima volta che ci siamo visti lei mi ha dato del tu, se non erro. Comunque sì, lo sapevo. Ne avevamo parlato, e a dirla tutta ho cercato di dissuaderlo più volte. Del resto non credevo che lei avrebbe accettato.
Il padre di Dario si voltò, fissandolo come si guarda una cosa vecchia gettata all'angolo di un cassonetto.
Il ricordo fotografico del sergente istruttore, i primi giorni di leva, balenò nel cervello di Christian: lì guardava così tutti quanti, quei ragazzini in divisa, che sudavano freddo per ogni macchiolina di fango sulle scarpe.
- Organizzi i suoi impegni, per questo venerdì o il prossimo se riesce. Io non posso allontanarmi dallo studio per più di un fine settimana.
Christian fece un cenno di assenso con la testa: - Questo venerdì può andare. Partiremo alle 18.00. La passo a prendere .
Il piccolo uomo assentì a sua volta, stringendo le labbra a fessura, come chi scende a patti controvoglia.
Era chiaro che non vedeva l'ora di andarsene, e Christian si guardò bene dal trattenerlo, anche perché il profondo disagio che stava cercando in tutti i modi di nascondere raggiunse l'apice quando notò che il vecchio non produceva alcun suono camminando, nonostante le scarpe di cuoio.
Gli sembrava di avere a che fare con una specie di spirito.
Un riflesso d'uomo e nulla più.
Non appena si fu congedato, Christian si precipitò, incespicando, a chiudere la porta a doppia mandata, assicurandosi più volte che nulla potesse più entrare e uscire.
Sudava freddo e aveva la nausea.
Un attimo dopo era in cucina, con la faccia immersa in una foresta di utensili, molti dei quali nemmeno riusciva a identificare, alla ricerca di un vecchio pacchetto di sigarette nascosto nel corso di uno dei suoi patetici tentativi di smettere di fumare.
Si versò due dita di cognac e raggiunse con sollievo la grande poltrona nera, guardandosi intorno, alla ricerca di un fermo immagine.
Voleva assicurarsi che la nebbia fosse passata del tutto.
Dopo qualche minuto le tempie smisero di battere.
Socchiuse gli occhi, e si sentì galleggiare a mezz'aria, immerso in qualcosa di liquido e vischioso.
Fortunatamente durò poco.
Levò il bicchiere al soffitto e parlò all'aria: - Non so perché ma avevi ragione. Non ci avrei scommesso un centesimo.
Poi accese la sigaretta e fumò piano, ascoltando la pioggia, fattasi finalmente intensa.
CHI BEN COMINCIA
Era quasi certo che il nome scientifico del tiglio selvatico fosse Tilia Cordata.
Il calendario olfattivo di Christian decretava la fine della primavera, e l'inizio dell'estate, quando l'aria si riempiva di determinati profumi, impressi a fuoco nell'emisfero infantile della sua memoria.
Per questo si era sorpreso a sorridere, quando, all'odore di asfalto ancora umido per i piovaschi notturni, si era aggiunto insistente quello del tiglio, rinfrescando l'abitacolo.
Spense l'autoradio, con un gesto automatico.
Per qualche strana ragione, ogni volta che cercava una strada poco nota o non era certo di dove voltare, spegneva la musica.
Imboccò un viale leggermente in salita, bianco e ghiaiato, fiancheggiato da enormi cipressi secolari. Gli venne in mente quello di Bolgheri.
A Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar...
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Finalmente, arrivò davanti al cancello della bella casa liberty di proprietà della famiglia Pozzi Villani, con un leggero anticipo. Spense il motore incamerando