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Sonnenberg Hotel
Sonnenberg Hotel
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E-book596 pagine8 ore

Sonnenberg Hotel

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Info su questo ebook

Al Sonnenberg prendono vita le ombre. Occhi furtivi si muovono incessantemente, sono ovunque, nascosti tra le pieghe dei tendaggi, negli angoli bui e tenebrosi dei locali, negli spazi reconditi e dimenticati. La Grande Guerra è finita da qualche anno e nell’animo delle persone si raccoglie un astio particolarmente acceso verso coloro che hanno perso la guerra, e comunque ritenuti responsabili del conflitto.
Sembra un giorno come un altro, a parte il freddo glaciale di fine inverno che in Svizzera in quel periodo è particolarmente pungente, al Sonnenberg soggiornano varie persone, di diversa nazionalità. Capitati lì per motivi differenti, rimangono prigionieri di una tempesta di neve che, abbattendo le vie di comunicazione, rende impossibile la richiesta di aiuto.
La convivenza forzata conduce a un clima di estrema tensione, nel quale rabbia e frustrazione prendono il sopravvento, conducendoli individualmente in un percorso introspettivo che induce a entrare e uscire dal proprio Io e alla liberalizzazione dei propri istinti, fino a che quest’ultimi non prenderanno il sopravvento.
Tra i tanti personaggi, l’elemento di spicco è Andreas, dalla personalità controversa ed enigmatica; affascinante e carismatico sarà colui che terrà le redini dell’intera vicenda. 
Evan Martinuzzi ha raccontato magistralmente una storia difficile, cruda e nuda. Avvalendosi della sua ottima capacità narrativa ha saputo descrivere i complicati meccanismi che regolano la personalità, donando spessore e corposità a tutti i suoi personaggi.
Sonnenberg Hotel è la sua opera.

Evan Martinuzzi è nato a Cordenons nel 2002. Si appassiona alla scrittura fin dalla giovane età, producendo storie e romanzi brevi che ama condividere con il
proprio circolo di amici. Diplomato al liceo classico di Pordenone, ha iniziato ad approfondire la storia dello scorso secolo, accompagnandola alla propria passione nel raccontare storie surreali.
 
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2023
ISBN9791220138376
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    Anteprima del libro

    Sonnenberg Hotel - Evan Martinuzzi

    LQpiattoMartinuzzi.jpg

    Evan Martinuzzi

    Sonnenberg Hotel

    © 2023 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-3320-3

    I edizione febbraio 2023

    Finito di stampare nel mese di febbraio 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Sonnenberg Hotel

    Der schlimmste Feind, dem

    du begegnen kannst, wirst

    du immer dir selber sein.

    "Il peggior nemico che

    puoi affrontare sarai

    sempre te stesso".

    Così parlò Zarathustra,

    f

    . Nietzsche

    Chaque jour vers l’Enfer

    nous descendonds d’un

    pas, sans horreur.

    "Ogni giorno discendiamo

    verso l’Inferno, un passo

    alla volta, senza orrore".

    I fiori del male,

    c

    . Baudelaire

    Ad Aramis e Porthos

    Nota medica

    «Era l’inferno».

    Questa è stata la prima frase di senso compiuto dopo settimane di tentativi da parte mia e delle infermiere di instaurare un dialogo con il nuovo paziente dell’Otto Wagner Spital.

    Non credo che fosse nemmeno cosciente di chi lo circondava o di dove si trovasse. È continuamente scosso da violenti spasmi muscolari, soprattutto quando la sua mente cerca vagamente di ricordare ciò che è accaduto. Nominare il Sonnenberg Hotel è divenuto un tabù all’interno di quel reparto: il paziente inizia a tremare, le pupille si dilatano, le sue gambe iniziano a scalciare, colpendo il più delle volte l’infermiera Ziehrer che tenta disperatamente di legarlo al letto medico; ma la cosa peggiore sono le sue grida spaventose, atroci, agghiaccianti. Siamo costretti a tappargli la bocca con un panno per impedire che anche gli altri pazienti inizino ad urlare. Dopo averlo legato al letto e dopo averlo imbavagliato è necessario attendere almeno due ore prima che si calmi.

    Kornemann suggerisce di sedarlo durante queste fasi caotiche, attutendo così lo sforzo fisico sul paziente, ma sia io sia il dottor Kelsen riteniamo sia più produttivo per il soggetto che la mente si sfoghi, entrando forse in un primo stadio di coscienza causato dalle proprie azioni.

    Un fatto curioso è accaduto l’altro giorno, durante una tipica giornata di neve viennese: il paziente era stato scortato fuori, nel cortile, assieme agli altri detenuti, quando ad un certo punto ha iniziato a piangere. Nessuno si è accorto di ciò finché non gli è venuto un attacco di panico. A quanto riporta il resoconto di Kelsen pare che sia caduto nella neve e che vi sia rimasto per cinquanta minuti. Fortunatamente una delle guardie ha notato l’uomo, salvandolo da un possibile attacco di cuore o da un’ipotermia aggravata dai suoi abiti ospedalieri.

    Perché mai ha iniziato a piangere? Me lo domando da ieri, ovvero da quando Josef mi ha fatto arrivare sulla scrivania il fascicolo aggiornato: Paziente sviene nel cortile durante una nevicata.

    Nessun paziente al di fuori di lui conosce il Sonnenberg Hotel, quindi nessuno può averlo fatto entrare in quello stato confusionale solamente accennando al nome tabù.

    La soluzione ci è sorta stamattina, camminando per le strade di Vienna. Riflettevamo su come il paziente urlasse e sbraitasse ogni volta che si accennava al fatidico hotel, ma proprio il giorno prima si era messo a piangere, lasciandosi cadere nella neve. Che quelle fossero lacrime di gioia? Era mai possibile? Così pensai, finché Kelsen non mi illuminò con le sue parole: «E se fosse stata la neve?».

    La neve? Uno stimolo visivo! Ma certo! Perché non ci avevo pensato prima?

    Ora sorgeva un altro problema: uno stato confusionale prodotto da due input differenti che conducono a due sentimenti contrapposti nella medesima persona? Ho dunque deciso di fare un esperimento per osservare la reazione del paziente ai due input emessi contemporaneamente.

    Kornemann mi ha aiutato a condurre il soggetto nel cortile dell’ospedale. Come previsto, alla vista della neve si è lasciato cadere a terra, piangendo e sibilando frasi sconnesse. Comprovato l’effetto dato dallo stimolo visivo, il dottor Kornemann ha pronunciato il fatidico nome del Sonneberg Hotel. La reazione è stata alquanto sbalorditiva: il paziente ha smesso immediatamente di piangere, abbandonandosi a frasi di senso compiuto. Erano sussurri impercettibili per la mia età, ma Eirich mi assicura che abbia detto più volte: «Era l’inferno, era l’inferno…».

    Era l’inferno? Tutto ciò che il soggetto si ricorda del Sonnenberg Hotel è il fatto che fosse stato un inferno. Speravamo di ottenere altre informazioni, ma ciò che ci aveva detto si poteva facilmente evincere leggendo i rapporti della polizia svizzera. Dopo questo esperimento, l’uomo è tornato immediatamente in uno stato confusionale, gridando e scalpitando. È stata necessaria la presenza delle guardie per sedarlo. Purtroppo temo che il paziente sia irrecuperabile a questo punto. Kornemann ha richiesto di prendere sotto la propria ala il soggetto e sono ben più che lieto di affidargli una tale gatta da pelare.

    Attenderò indicazioni dal direttore, sperando che giungano in tempi brevi.

    Dr. Bethe

    15/02/1923

    Atto primo

    Una selva oscura

    Rimase immobile con il foglio in mano, con il cuore in mano.

    La sua mente galoppava rapida in quei secondi, analizzando in pochi battiti ogni singola ipotesi. Quel pezzo di carta era la sua fine, siglata da una mano femminile, dolce ma al contempo decisa. Il fatale ultimatum gli era stato consegnato dal suo collaboratore più stretto e ai suoi occhi pareva un tradimento in piena regola. Il suo cuore affondava secondo dopo secondo nel suo petto, generando una voragine colma di paura e ansia: sentiva il peso della responsabilità.

    Alzò gli occhi verso Lucien, immobile nella penombra tiepida della tenda.

    «È quello che penso?» domandò lui con il suo accento francese.

    Il giovane al di là della scrivania annuì, sfogando la propria frustrazione sull’indifeso pezzo di carta.

    «La signora Brodrick ci ha fatto sapere che questa sarà la nostra ultima settimana in Egitto, Lucien» riferì Andreas, alzandosi con prudenza. Si guardò attorno, attento ad ogni rumore prima di ricominciare a parlare. «C’è stato un cambio di direzione: gli americani hanno voluto tagliare i fondi a lei e alla sua equipe. Ha compiuto delle scelte affinché gli scavi principali continuino».

    L’amico non ci pensò due volte e si avviò verso la bottiglia di scotch posata sul tavolo.

    «Sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato, Andreas».

    Versò il contenuto senza badare a spese, in due bicchieri logori e scheggiati.

    «Sapevamo che Mary avrebbe fatto dei tagli agli scavi. Sapevamo anche che noi eravamo in lizza per essere ricacciati in Francia, dopotutto in tre mesi non siamo riusciti a trovare nulla».

    «E loro cosa sono riusciti a trovare laggiù?» controbatté l’altro, stringendo con rabbia il bicchiere.

    «Laggiù non hanno i supervisori americani che sorvegliano gli scavi».

    Lucien sorrise, alzando lo scotch sopra la propria testa.

    «Ai due archeologi senza lavoro» brindò con finto orgoglio.

    «Ai due archeologi senza lavoro» ripeté Andreas, stendendo a fatica un sorriso.

    Socchiuse gli occhi. Sorseggiò quell’amaro e dolce intruglio che spacciavano per scotch. Sorrise.

    «Attenzione!».

    Un braccio possente si mosse a sostenerlo, impedendogli di cadere.

    Si risvegliò di soprassalto in groppa ad un ronzino carico di bagagli, avvolto da una densa foresta di abeti sporcati da una neve grigia e congelata. Un freddo glaciale si infiltrò nelle sue ossa.

    «Vous allez bien, mounsier Niemann?»¹ gli domandò Lucien, continuando a sorreggerlo per il braccio. Finalmente riuscì a riposizionarsi sulla scomoda sella, riprendendo il controllo del proprio destriero. Si voltò a ringraziare l’amico, ma il giovane volto non vi era più: non stava parlando con il raggiante Lucien Lantier, sempre sorridente e con la battuta pronta, amato dalle donne ed acclamato dagli uomini. Questo era un volto più duro, squadrato, con occhi infossati in pozzi profondi, nemmeno i capelli corrispondevano a quelli dorati dell’amico archeologo; questi erano più cupi, simili al carbone, così come le folte sopracciglia, per niente somiglianti a quelle di Lucien.

    «Sto bene, danke. Mi sono solo addormentato…».

    Riportò gli occhi sulla strada: sei paia di occhi lo stavano osservando con preoccupazione.

    «Tenete un occhio su Niemann» ordinò la guida della spedizione, masticando con impazienza un inglese che non gli apparteneva. «Non vorrei iniziare a perdere turisti su queste montagne».

    Il gigante baffuto, in groppa ad un asino malconcio, proseguì sul sentiero, seguito a ruota dal resto del gruppo. Andreas fu costretto a posizionarsi in mezzo agli altri sei ospiti affinché non precipitasse nuovamente nel sonno e nella neve. Sentiva su di sé gli occhi nascosti del francese che aveva scambiato per Lucien. Il suo cuore si strinse al ricordo di quelle lontane memorie.

    «Muoviamoci! Qui fuori si gela!» si lamentò una voce giovanile, raschiando l’aria pesante.

    Con mani tremolanti l’archeologo riuscì a convincere il proprio destriero a rimettersi in marcia.

    «Calmati, ragazzino» rispose un’altra voce gelata dal vento. Una voce rauca, ingessata dallo scarso abbigliamento invernale, fulminò senza pietà il giovane infreddolito che si era appena lamentato. A sedare l’impazienza del ragazzo era stato un altro tedesco, più giovane di Andreas, più attraente secondo una ragazza svizzera che li aveva visti partire mezz’ora prima.

    «Il Sonnenberg Hotel non va da nessuna parte» continuò a dire il suo connazionale, dopo che un momentaneo ghigno aveva solcato le sue gelide guance. «Sapevi che è infestato?».

    «Da cosa?» replicò il ragazzo, dubbioso e tremolante sotto l’enorme pelliccia. «Ragni e topi?».

    «Da un fantasma, ragazzino. Si dice che vi sia morta… una contessa, se non ricordo male. La cugina di Elisabetta di Baviera. Una storia tragica».

    «Tenti di spaventarmi?» domandò preoccupato il giovane, lasciando che il proprio mulo lo scortasse pigramente tra gli ostacoli di quella foresta. In lontananza, oltre il dirupo sul cui fondale riposava calmo il lago ghiacciato dei Quattro Cantoni, era possibile ammirare le possenti Alpi svizzere, ricoperte da quel manto pallido come la luna. Sopra le loro teste, invece, nubi grigie avanzavano a passo veloce verso di loro, portando con esse i feroci venti dell’inverno.

    Non promettevano bel tempo.

    «Spaventarti?» ripeté il tedesco con una sonora risata malsana. «No, non io perlomeno. Ci penserà la spettrale contessa bavarese a farlo».

    Andreas si limitò a seguire la colonna di muli, perdendo di vista il più delle volte la sicura guida che si destreggiava senza troppi problemi in quella schiera di abeti. Anche gli altri viaggiatori iniziarono a preoccuparsi: quel breve tragitto che doveva condurre i turisti dalla stazione di Seelisberg al Sonnenberg Hotel stava durando da troppo tempo. Erano sulla giusta strada? Sarebbero arrivati prima che un nuovo strato di neve si depositasse sopra il canton Uri? Oppure si sarebbero dovuti accampare in mezzo alla foresta?

    I muli avanzavano senza porsi altrettanti quesiti. Anche la guida non sembrava preoccupata.

    «Quanto manca?» domandò con un filo di voce l’archeologo.

    Né la guida né il resto del gruppo rispose. I soffi del vento avevano gelato anche le loro voci.

    Lentamente la vegetazione iniziò a diradarsi, permettendo loro di osservare il lago a fondo valle che riposava sotto una strato di ghiaccio. La natura lo aveva ascoltato: gli abeti divennero sempre più rari sul sentiero, finché non incontrarono ciò che rimaneva di diversi tronchi abbattuti, cataste di legna gelata che segnavano i margini del sentiero. Finalmente poteva rivedere il buffo cappello giallo della guida in lontananza.

    «Endelig fremme!»² esclamò il ragazzino impaziente.

    Un possente edificio a base rettangolare dominava con prepotenza la modesta piazzola di fronte a sé, spiccando in altezza su due ampi piani: una cupola a base ottagonale sorgeva all’apice della parte frontale dell’edificio con l’elegante lanterna spesso raffigurata nelle cartoline della zona. Le pareti bianche avevano camuffato la struttura agli occhi di Andreas, ma ora poteva osservarla in tutto il suo splendore ottocentesco. La guida, imitata dal resto della spedizione, scese dal proprio destriero all’ombra dell’hotel. Intorno a lui, su quella che doveva essere la piazza che sorvegliava dall’alto l’immenso specchio d’acqua, si raggrupparono gli infreddoliti e impazienti viaggiatori.

    «Ci siamo tutti?» gridò l’uomo dalle ampie spalle, mentre gli ospiti dell’hotel si apprestavano a scendere di sella. «Non abbiamo perso nessuno, giusto? Gut, gut. Forza, forza. La signora non ama aspettare. Vediamo un po’: due, quattro e sei. Perfetto! Nessuno è stato mangiato dai lupi».

    «Lupi?» ripeté catatonico il giovanotto del gruppo. Persino Andreas sentì un insolito brivido corrergli lungo la schiena.

    L’archeologo e gli altri cinque infreddoliti viaggiatori presero le proprie valigie, diretti verso l’entrata principale del Sonnenberg, ma una figura femminile si palesò sull’uscio prima che qualcuno avesse potuto anche solo fare un passo in avanti. Dietro di lei apparvero altre donne.

    «Albert, alla buon’ora. Temevo che vi foste persi!» esclamò la donna, avanzando nella neve e sfidando lo sguardo della guida. Non attese una risposta dall’uomo e si voltò ad osservare con occhi inquisitori i nuovi arrivati. Anche Andreas ebbe modo di studiarli: vi era il francese, più infreddolito di prima; vi era il tedesco dalla lingua lunga, più alto di quanto ricordasse; dietro di loro vi era il ragazzino del nord con una pesante pelliccia addosso; al suo fianco si ergeva un altro uomo, più robusto e anziano degli altri con delle lunghe basette nere; ed infine vi era l’unica donna della spedizione: era relativamente anziana a giudicare dai corti capelli grigi, il voluminoso cappotto falliva nel nascondere la sua vera forma fisica, mentre i suoi occhi suggerivano un’innata predilezione per i gusti forti, come era suggerito dal sigaro nella mano sinistra.

    «Lieta di accogliervi, signori. Sono impaziente di conoscervi, ma lo farò meglio nel nostro hotel. Vi prego, entrate pure» esordì la proprietaria, sciogliendo quella maschera di ghiaccio in un accogliente sorriso. «Lasciate pure che le mie ragazze portino dentro i vostri bagagli».

    Gli altri viaggiatori si sentirono sollevati e depositarono nella neve i vari effetti personali, tutti tranne il suo compatriota: quest’ultimo preferì tenersi stretta la costosa valigia di pelle che stringeva in mano. Una delle cameriere tentò di sfilargliela, ma ottenne in risposta uno sguardo velenoso.

    «Entrate pure» ripeté per l’ennesima volta la donna, accompagnando all’interno i nuovi ospiti.

    I sei viaggiatori entrarono precipitosamente all’interno, mal celando la scortese brama di ripararsi dal freddo. I più educati mascherarono questa impazienza con una momentanea timidezza.

    Andreas incrociò lo sguardo con la proprietaria: era bassa rispetto all’archeologo, magra con le guance cadenti e con labbra sottili coperte da un leggero strato di rossetto; i suoi capelli erano alquanto ricci e ben pettinati, simili alla corteccia degli alberi, mentre i suoi occhi erano celesti, pari al cielo che le nubi nascondevano gelosamente. Nei suoi anni di gioventù doveva essere stata una donna attraente, ma in quel momento appariva solamente come il simulacro di una bellezza antica.

    Il freddo che ghermiva la regione sembrò svanire improvvisamente una volta entrati all’interno del maniero: la calda luce delle lampade elettriche illuminò i loro stanchi volti provati dal lungo viaggio nei meandri della Svizzera. I loro abiti risultarono maggiormente coperti dalla neve di quanto Andreas pensasse, però quella patina bianca si stava rapidamente sciogliendo. Persino gli interni di quel lussuoso luogo riuscivano a riscaldargli l’animo: le pareti erano foderate da pannelli di legno intagliati con cura, utili per custodire efficacemente il calore prodotto dalle caldaie di ultima generazione. Quell’ambiente così ricco con i pannelli di abete, il tappetto rosso, le colonne marmoree, gli alti soffitti a cassettoni e persino l’aroma pungente di lavanda gli ricordò la propria casa d’infanzia, abbandonata nelle lontane memorie della sua giovinezza. Era da anni che non pensava alla reggia di suo zio dove da bambino trascorreva la maggior parte del tempo.

    Gli sembrava di essere a casa.

    «Seguitemi pure, signori» invitò loro la proprietaria, scortando il timido gruppo di ospiti in un raffinato salotto dominato da un imponente caminetto acceso. Attese alcuni secondi prima di tornare a parlare affinché tutti si fossero accomodati sui morbidi divani smeraldini del salotto. «Benvenuti al Sonnenberg Hotel di Seelisberg, signori e signora. Io sono la proprietaria dell’hotel: Hannah Maurer, voi potete chiamarmi tranquillamente Hannah, non amo le oziose formalità. Il tempo non è dei migliori, ma sono sicura che i nostri comfort vi faranno sentire a casa. Infatti possediamo una sala da ballo e da musica per i ricevimenti più formali, una sala da biliardo qui al piano terra, per non parlare delle terme e dei trattamenti benefici che offriamo nella struttura qui vicino».

    A quest’ultima informazione l’altro tedesco e il ragazzino sorrisero. Andreas non aveva nemmeno notato l’altro edificio, più piccolo e modesto, a pochi passi dalla struttura principale. Anche lui pensò di farsi un bagno durante il suo breve soggiorno.

    «Per qualsiasi evenienza vi è un collegamento telegrafico con Seelisberg e anche una linea telefonica da poco installata. Nel frattempo le mie cameriere si adopereranno per riporre le vostre valigie nelle rispettive camere. Detto ciò, posso offrirvi una cioccolata calda?».

    «Con piacere, Hannah» rispose prontamente l’alto bavarese, accendendosi una sigaretta con un pacchiano accendino placcato d’oro sul quale risaltava un’aquila nera in campo ocra.

    «Per me una vodka semplice, grazie» controbatté la donna con voce stanca.

    «Per me un tè al limone, cortesemente» fece l’uomo robusto, prendendo spazio sul divano.

    Hannah sorrise con eleganza e uscì dal salotto, lasciando solo il gruppetto.

    «Una vodka? A quest’ora?» domandò il tedesco, emanando una nube di fumo grigio.

    «Solo il fuoco scalda più della vodka, ragazzo».

    «Come dite voi, signora…?».

    «Piotrowski, Helena Piotrowski» rispose placidamente la donna, tagliando la capa del costoso sigaro con il proprio tagliasigari «Avrebbe la cortesia di accendermelo, signor…?».

    «Hallerstein». L’uomo si chinò verso la donna che sedeva oltre il piccolo tavolino che separava i tre divani posti di fronte al caminetto. La fiamma danzò con sinuosità fra loro. «Polacca?».

    «Siete così intuitivo, signor Hallerstein» disse Helena con un sorriso pronto a sbocciare.

    «Von Hallerstein? Quel von Hallerstein?» si intromise il francese, rimettendosi in piedi.

    «Franz Wilhelm von Hallerstein di Monaco, figlio di Hans Heinrich von Hallerstein» recitò il bavarese, alzandosi a sua volta e porgendo la mano al francese.

    «Matthieu Lemaire, quarantunesima divisione, 221° battaglione di fanteria».

    Un silenzio glaciale piombò sui presenti. Il francese e il tedesco si osservarono per diversi secondi, scrutando attentamente il volto dell’altro: uno era squadrato, con capelli pari al carbone, severo e segnato dall’età, mentre l’altro era dolce, ammantato da capelli dorati con intensi occhi celesti, irridenti, pronti alla burla. Uno era agli antipodi dell’altro, ma entrambi covavano un sentimento comune e quel sentimento era una pericolosa miscela di vendetta, di rabbia e di odio velenoso.

    Una risata nasale ruppe quello stallo.

    «Un francese e un tedesco nella stessa stanza; pare una barzelletta» commentò il ragazzino, agguantando con scatto felino una caramella dal vassoio sul tavolino.

    I due uomini si voltarono a scrutare il giovane con sguardi poco caritatevoli.

    «Tu da dove vieni, junge?» domandò il signor Hallerstein, tornando a sedersi sul divano.

    «Dalla Norvegia» rispose lui, masticando l’amara caramella. «Dalla cittadina di Bergen, per essere precisi. E non mi chiamo "junge", mi chiamo Mikael Shoness, tysker»³.

    «Junge vuol dire ragazzo» fece Andreas. Anche l’archeologo fu tentato da quei dolciumi incustoditi.

    «Lo so» controbatté Mikael con un sospiro. «Anche voi venite dalla Germania?».

    Dai pozzi profondi del francese s’infiammò nuovamente una luce ostile, alimentata da memorie non troppo distanti nel tempo: quello sguardo era l’eco rabbiosa di un’intera nazione.

    «Da Colonia» rispose pacatamente l’archeologo.

    «Anche voi avete un nome da nobile come il signor Hallerstein?» domandò il ragazzo con curiosità.

    «Purtroppo il mio è un nome poco tedesco: Andreas Niemann. Nessun von e nessun Wilhelm».

    Mikael parve deluso dalla sua risposta. La signora Piotrowski, invece, pareva più interessata all’uomo taciturno che da dieci minuti sedeva indisturbato sulla comoda stoffa dei divani.

    «Anche voi siete tedesco?» domandò la donna.

    Nel porre la domanda, la signora aveva volutamente espirato una quantità minacciosa di fumo. La risposta da parte dell’elegante signore dalle lunghe basette arrivò con esitazione.

    «Dipende a quale nazione associate la città di Danzica, signora Piotrowski».

    «Polonia» fecero il francese e il norvegese.

    «Germania» controbatterono i due tedeschi.

    Un sorriso impacciato solcò le guance barbute dell’uomo.

    «Un uomo combattuto fra due nazioni. Voi per quale delle due vi battete?» continuò a dire Helena.

    «Io non mi batto, semmai lotto per la pace». La voce dell’uomo era profonda, ma non era minacciosa, bensì calda e confortevole. Anche il suo aspetto suggeriva un atteggiamento paterno e attento: i suoi abiti fabbricati su misura ricordavano ad Andreas suo zio materno, mentre le folte sopracciglia e le orecchie a sventola facevano risaltare il suo lato burlesco.

    «La pace è di parte, si sa».

    Le parole della signora Piotrowski colpirono Andreas nel profondo per la loro cruda verità, ma il volto della donna parve sciogliersi nell’accenno di un sorriso canzonatorio, dissimulando la malizia.

    «Almeno possiamo essere sicuri del vostro nome, signore?».

    «Su questo posso esserne alquanto certo, signora Piotrowski: dottor Zekharia Joselewicz».

    «Dottore, addirittura!» si finse sorpresa la donna polacca, rigirandosi il sigaro tra le dita sottili.

    Franz trattenne a stento una risata priva di felicità, ma prima che Andreas potesse domandare il motivo di quell’infelice momento di ilarità, la signora Maurer tornò festante dai suoi nuovi ospiti.

    «Domando scusa per l’attesa» iniziò a dire la donna, mentre porgeva con estrema gentilezza le rispettive tazze ai presenti. «Ho ricevuto alcune telefonate da Seelisberg: sembra proprio che oggi il tempo sia deciso a peggiorare. Fortuna vuole che non vi sentirete soli qui dentro: sono in arrivo altri ospiti».

    «Mi fa piacere sentirtelo dire, Hannah» commentò Franz. «Negli ultimi anni questo posto era un mortorio. E la Grande Guerra non ha di certo favorito la situazione».

    «Altri ospiti? Quanti ancora devono arrivare?» domandò il giovane Shoness con la cioccolata in mano.

    «Una decina, se non erro. Ora vi devo lasciare: devo seguire i preparativi per il pranzo. Buona continuazione, signori. Sono felice che abbiate iniziato a conoscervi». Detto ciò la proprietaria, fece un modesto inchino e seguì le proprie cameriere fuori dal salotto.

    «Siete già stato qui, signor Hallerstein?» chiese Andreas, rinunciando a sorseggiare la bollente bevanda.

    «Vengo qui al Sonnenberg Hotel da quando avevo sette anni, signor Niemann: conosco questo posto come le mie tasche. Imparerete anche voi ad amarlo e poi a odiarlo».

    «Odiarlo? Perché mai dovrebbe odiare questo posto?» domandò il francese con occhi immobili.

    «È molto soggettivo, ma alle volte questo hotel è capace di lasciarvi addosso una sensazione sgradevole, pesante e sinistra» spiegò il signor von Hallerstein, continuando tranquillamente a fumare la propria sigaretta. «Però i comfort compensano efficacemente quella sensazione».

    I presenti si godettero in un silenzio sacro le proprie bevande, ammirando la neve che iniziava a posarsi all’esterno e il fuoco silenzioso che danzava sulle braci del caminetto. In quel momento Andreas sentì il petto riempirsi di un tepore da lungo tempo agognato: finalmente poteva godersi i frutti del proprio lavoro, ignorando i gravosi ricordi del passato e gli incombenti oneri del futuro.

    Caro signor Hallerstein, credo che mi sarà molto difficile odiare questo posto.

    Sorrise tra sé e sé, ammantato dal caldo abbraccio dell’hotel.

    Un cavaliere solitario avanzava tra la fitta neve, mentre fiocchi pallidi andavano a posarsi delicatamente sulla sua pelliccia che lo riparava dalle violente intemperie della Svizzera.

    Ad un primo acchito sembrava che una notte gelida fosse alle porte, ma il suo fidato orologio da taschino non mentiva: era solamente mezzogiorno, eppure il sole era gelosamente custodito da nubi nere come la pece, protetto da venti crudeli. Persino quella innocente neve sembrava ostacolare la sua avanzata: per tutto il viaggio quel manto bianco aveva tentato di nascondere le tracce di coloro che erano giunti prima di lui, ma lui era stato temprato nella fredda steppa siberiana.

    Il suo compagno di viaggio, un vecchio somaro malnutrito vendutogli da un commerciante di Seelisberg, continuava placidamente a destreggiarsi tra le occulte rocce del sentiero. Gli abitanti del canton Uri lo avevano avvertito sulle insidie che la neve riesce abilmente a nascondere. Radici sporgenti, rocce appuntite, tane di volpi e rami caduti avevano costellato la via principale. Quest’ultima era delineata da alberi marchiati con pittura rossa, però la vernice si era solidificata e gelata, somigliando sempre più a sangue rappreso su quei tronchi nudi. Era inquietante.

    Senza che se ne rendesse conto, il suo destriero si fermò: tra la leggera nebbia e la neve calma si poteva osservare un enorme edificio bianco. Camini alti e nascosti sbuffavano a ritmo sostenuto, finestre coperte da tende purpuree risplendevano tenuemente in quella falsa notte invernale, segnalando al viandante che era finalmente giunto alla sua destinazione: il Sonnenberg Hotel.

    Il somaro doveva aver riconosciuto la zona oppure era giunto al limite delle proprie forze. Il suo cavaliere scese di sella con un balzo felino e si accorse che il terreno era solido sotto la neve. Scostò appena il manto cristallino per rivelare un magnifico mosaico composto da minuscoli tasselli accuratamente disposti a formare un disegno più vasto a lui celato.

    «Finalmente un po’ di riposo» si disse l’uomo con un sospiro di sollievo.

    Iniziò a scaricare i bagagli dal proprio animale, posando delicatamente la custodia del proprio violino e la spada d’ordinanza a terra.

    Crack.

    Si voltò verso quel rumore: era il suono di un ramo spezzato, un ramo secco rotto dal peso di qualcosa di più grande. Scrutò attentamente la foresta che lo circondava. Si sentiva osservato.

    La sua mano fu guidata istintivamente verso la fondina legata alla sua cintola: accarezzò freneticamente la propria Nagant, pronto a sparare al minimo segnale di pericolo.

    Sapeva che qualcosa si nascondeva tra le fronde dei pini e sapeva che quella minaccia era in allerta.

    Occhi pallidi risplendevano tra i cespugli e tra le ombre, occhi feroci, specchi di ghiaccio, distanti ma pronti a balzargli contro. Il loro respiro si era fatto pesante, tremante nell’aria gelida, rabbioso.

    Ringhi ostili iniziarono a propagarsi dal cuore della foresta. Il bottone che chiudeva la fondina si aprì di scatto. Gli occhi nascosti si moltiplicarono. La mano portò la fidata pistola al livello dell’addome, pronta a sparare. Ma improvvisamente i ringhi si acquietarono.

    Un rumore più vicino, più definito e più meccanico si fece violentemente strada fino al cavaliere: dallo stesso sentiero da cui era arrivato, sopraggiunse un modesto carro trainato da un cavallo infreddolito. Dal mezzo di trasporto caddero sguardi incuriositi e preoccupati sul cavaliere.

    «Good morning, sir» esordì l’uomo più anziano sul mezzo, tenendo saldamente gli occhi puntati sulla sua Nagant. «Posso domandarvi il perché di quella rivoltella?».

    Il suo accento era fortemente britannico, cosa che non sorprese Alexander dato che il cappotto dell’uomo mostrava con fierezza la corona d’Inghilterra. Sottili baffi bianchi spuntavano da sotto il suo nasone gelato, radi capelli argentati si potevano notare sotto il cappello da ufficiale inglese, mentre occhi verdi, attenti e inquisitori riposavano immobili dietro un paio di occhiali rotondi.

    «Lupi» rispose il cavaliere russo, riponendo l’arma nella fondina. «Il bosco ne è pieno».

    «Fortuna vuole che non abbiamo avuto problemi con loro» commentò una voce stanca dall’interno della carrozza. Questo accento era diverso, più duro e grezzo, simile alla fastidiosa lingua tedesca che Alexander tanto detestava.

    L’inglese scese dal mezzo, confrontandosi con il russo.

    «Slavo, dico bene?» domandò l’ufficiale.

    Non vi era diffidenza nelle parole dell’inglese; probabilmente il fatto che Alexander fosse simile a lui lo rassicurava: anch’egli era avanti con gli anni, cinquantaquattro per l’esattezza, portava una folta barba nera alla base del mento accompagnata da baffi grigi, mentre i suoi capelli erano divenuti bianchi come la neve durante la guerra. A differenza del britannico non vestiva con l’uniforme russa, però portava sempre con sé la sua spada d’ordinanza in quanto ex ufficiale dello zar.

    «Sissignore, tenente Alexander Bogdanovič Nishenkov della guardia imperiale, seconda brigata, reggimento Semenovskij» rispose prontamente il vecchio combattente. Una luce antica brillò negli occhi del generale seguita da un sorriso di cortesia.

    «Generale Connor James Moore, al servizio di Sua Maestà, re Giorgio

    v

    » fece l’uomo, togliendosi il guanto e stringendogli la mano. «Una vera tragedia ciò che è accaduto: persino i francesi e la loro folle sete di rivoluzione si sarebbero placati di fronte ad un bambino di quattordici anni…».

    «E di fronte a quattro figlie innocenti» lo interruppe Alexander, angustiando il generale.

    «Immagino che sia per questo che siete qui: i comunisti vi potrebbero fucilare senza troppi ripensamenti, esattamente come è successo al vostro imperatore».

    «Ho tentato di combattere nell’Armata Bianca, ma è stata una battaglia persa. Lenin e Trockij hanno definitivamente ucciso la Russia, condannandola al comunismo» decretò il tenente con un sospiro.

    «Non vorrei disturbarvi, miei cari milites⁴» si intromise l’uomo dall’accento germanico, «ma la Grande Guerra è finita e qui fuori si gela. Quindi, perché non ci avviamo all’entrata?».

    «Tedesco?» domandò Alexander, prendendo i propri bagagli.

    «Austriaco per l’esattezza: Johan Amerling, lieto di conoscervi, signor Nishenkov» si presentò l’uomo di bassa statura, prendendo le sue due valigie. A seguirlo vi era un altro uomo, meno riparato dal freddo, caratterizzato da una sciarpa di lana rossa, il cui colore era stato sbiadito dal tempo.

    «Lui ce l’ha un nome?» chiese Alexander, osservando in lontananza l’uomo con la sciarpa.

    «Sappiamo solo che era diretto al Sonnenberg» rispose Johan, arrancando tra la neve. «Non ha pronunciato una singola parola da quando siamo partiti da Seelisberg».

    Le parole furono trascinate via dal vento; la minaccia dei lupi pareva essersi dileguata nel folto del bosco, ma Alexander sapeva che le belve non si sarebbero limitate ai confini della foresta.

    I quattro proseguirono in un silenzio ingessato. Improvvisamente una figura apparve sull’uscio dell’hotel, fermando la loro incerta marcia sulla neve.

    «Signor Moore, dico bene?» domandò la proprietaria, rivolta verso il cavaliere slavo.

    «In realtà sarei io, signora Maurer» la corresse Connor, «lui è il tenente Nishenkov».

    «Ah, perfetto, scusate per il disguido. Voi, invece, dovete essere il signor Amerling».

    L’austriaco stese un caldo sorriso, nascondendo timidamente i denti. Afferrò la mano della donna e ne baciò il dorso, ingobbendosi in un inchino maldestro ma ugualmente galante.

    «È per me un piacere incontrarla, signora Maurer» fece Johan, ricomponendosi.

    La donna riservò un infelice sguardo all’uomo di bassa statura, preferendo analizzare l’altro viaggiatore dalla sciarpa rossa: quest’ultimo aveva la carnagione leggermente più scura, con tratti caucasici; sfoggiava con fierezza un volto duro adornato da due paia di baffi neri, coronato da una zazzera informe. I suoi occhi risultavano accidiosi e scontrosi, così come le parole che nascondeva e che era pronto a sfoggiare con incurante sfacciataggine.

    «Voi invece?».

    «Sono un semplice viandante» rispose l’uomo con voce rauca, «vorrei prenotare una stanza».

    La proprietaria lo squadrò attentamente senza eloquente cortesia.

    «Seguitemi» sussurrò infine la signora Maurer. Scortò il gruppetto fino ad un elegante salotto dominato da un ampio caminetto e presidiato da un giovane dai capelli biondi. Quest’ultimo era chino su un vecchio libro dai lembi usurati, impassibile all’arrivo dei nuovi ospiti. La curiosità dello slavo non ricadde molto su ciò che stava leggendo, ma piuttosto su chi stava leggendo.

    «Signor Moore, signor Nishenkov e signor Amerling» richiamò a sé la donna, «lasciate pure le valigie alle cameriere; sono già state informate del vostro arrivo e saranno a vostra completa disposizione. Se necessitate di qualsiasi cosa, basta chiedere». Poi si voltò verso il semplice viandante. «Lei, signore, devi seguirmi per registrarsi nell’elenco degli ospiti e per pagare la camera».

    L’uomo con la sciarpa e la proprietaria uscirono dal salotto con passo martellante.

    Alexander notò sopra il caminetto un’incustodita bottiglia di whisky; anche il signor Amerling, con maggiore rapidità, aveva scorto quell’antico toccasana per il freddo.

    «Volete favorire?» domandò Johan, afferrando la bottiglia.

    «Dopo un viaggio così» commentò il generale Moore, «un sorso di whisky è ciò che ci vuole».

    «Vuole unirsi a noi?» chiese Nishenkov all’uomo seduto sul divano. Il ragazzo alzò leggermente lo sguardo dalla carta ingiallita, inchiodando Alexander con uno sguardo altamente infastidito.

    «Sono a posto così» si limitò a dire l’altro con un forte accento tedesco.

    Johan riconobbe immediatamente quella cadenza ed elargì un luminoso sorriso beffardo.

    «Com’è piccolo il mondo» esordì il signor Amerling, «un bavarese qui in Svizzera».

    «Voi non siete della Baviera» notò il tedesco. «Voi venite dal sud, dall’Austria. O dall’Ungheria?».

    «Vi sembro forse un ungherese?» scherzò giocosamente Johan.

    «Vi è forse una differenza?» replicò il bavarese.

    Johan sfoggiò un ennesimo sorriso di cortesia, arcuando all’estremo il sottile filo che gli attraversava le labbra, ma lo sguardo rimase immutato, freddo e lontano.

    «Siete molto simpatico, signor…?».

    «Von Hallerstein» rispose l’uomo, posando il libro. «Franz Wilhelm von Hallerstein».

    «Franz!» ripeté allegramente Johan, assestandogli una manata sulla spalla. «Io sono Johan Amerling, si ricorda di me? Ci siamo già incontrati, anni fa. Prima della guerra…».

    «Ad Essen, se non ricordo male. Era una cena d’affari tra i membri della Krupp».

    «Esattamente, mio padre aveva avuto la brillante idea di portare il proprio figlio ad una noiosa cena tra azionisti e affaristi. La stessa cosa deve aver pensato il caro Hans von Hallerstein, giusto?».

    A sentire il nome del padre, lo sguardo del tedesco si incupì e Johan se ne accorse.

    «Spero che vostro padre stia bene» si preoccupò immediatamente l’austriaco, rammaricato.

    «Mio padre sta bene» tagliò corto Franz, alzandosi e chiudendo sveltamente il libro. «Arrivederci, signori». Detto ciò, abbandonò il salotto con passo fulmineo, tenendo ugualmente la testa alta.

    «Vostro padre è un armaiolo» dedusse il generale Moore da sotto i baffi bianchi.

    «Mio padre è un uomo d’affari…» controbatté Johan, abbozzando un infelice sorriso. «…e come tutti gli uomini d’affari, la Grande Guerra lo ha arricchito oltre ogni necessità».

    «Arricchirsi sulle disgrazie altrui è una cosa ignobile» lo schernì Alexander con sguardo ferreo.

    «Pensavo che odiaste i comunisti».

    «Durante la guerra civile ne ho uccisi a centinaia di comunisti. Il mio disprezzo è rivolto alla classe dirigente che ha lasciato il mio paese in mano ai demagoghi socialisti» precisò il russo, riponendo il bicchiere ormai vuoto sul minuscolo tavolino che separava i divani. «Con il vostro permesso, mi ritiro nelle mie stanze».

    Il cavaliere slavo uscì dal salotto con passò pesante, scandito dal parquet che scricchiolava sotto il peso e la rabbia dell’uomo. Johan e il generale Moore si scambiarono uno sguardo di intesa, interpretato da entrambi i fronti in maniera erronea.

    Si svegliò improvvisamente. Il suo volto era umido, rigato dal sudore prodotto nel sonno: aveva nuovamente sognato il deserto del Cairo. Era ritornato inconsciamente al torrido sole egiziano, all’afosa cittadina nella quale si erano stanziate le numerose equipe della signora Brodrick, alle titaniche piramidi che lo avevano accolto impassibili, a Lucien. Aveva ripercorso un’ennesima volta la cacciata dal Cairo: gli ebrei erano stati cacciati dalla terra promessa, fuggiti in Egitto, mentre lui era stato cacciato dall’Egitto, ormai confinato nella sua nuova dimora, la Francia.

    Il sogno era identico, come al solito: la signora Brodrick non parlava, Lucien neanche; solo il presuntuoso americano continuava incessantemente a blaterare su come i fondi fossero necessari e vitali a quell’impresa per continuare.

    Il suo volo pindarico era infinito nel raggiungere l’apice, in una costante salita verso il sole, interminabile e perentorio: lo stava licenziando assieme a Lucien.

    Portò gli occhi lontani da quell’incubo martellante, senza fine. La sua attenzione fu attirata dal giornale che prima di addormentarsi aveva sporadicamente letto con sonno crescente: era crollato al suolo, spiegazzandosi rovinosamente. Alla quinta pagina del giornale parigino vi era un titolo che all’epoca aveva rappresentato la sconfitta del giovane archeologo: Liquidata la spedizione in Egitto degli archeologi Lantier e Niemann – taglio del personale da parte dei creditori americani.

    Vicino al breve trafiletto che narrava solennemente la disfatta della spedizione archeologica vi era anche una fotografia dei due esploratori: alle loro spalle sorgevano le famose piramidi e al loro fianco posavano anche alcuni accademici, assieme a diversi cammelli stanchi; sul bordo inferiore del loro ritratto, Lucien aveva scritto a penna: "De fou juge, briève sentence, ovvero dal folle giudice, sentenza veloce". Aveva ricevuto una pessima accoglienza al suo ritorno, incolpato ingiustamente come un codardo tornato dalla Grande Guerra, mentre Andreas era stato addirittura accolto con entusiasmo e fervore da parte dei suoi amici tedeschi: «Finalmente lontano dalle grinfie francesi» fischiavano i suoi compatrioti, alzando sopra il capo i boccali pieni di birra dorata.

    Qualcosa di pesante cadde sul nudo parquet del corridoio. Andreas si alzò di scatto, impugnando istintivamente come arma di difesa la Bibbia che riposava sul proprio comodino. Aprì la porta e osservò una giovane cameriera raccogliere frettolosamente alcuni abiti da terra: la valigia rivestita di cuoio che poco prima trasportava si era aperta in mezzo al corridoio, rovesciando sul pavimento diversi indumenti da uomo, alcuni particolarmente costosi.

    «Mi spiace infinitamente, signor Amerling» si scusò prontamente la ragazza, accatastando all’interno della valigia tutto ciò che era caduto. «Provvederò io stessa a stirare e piegare tutto».

    «Non si preoccupi, signorina» fece l’uomo di bassa statura con accento austriaco. Il proprietario degli abiti si curvò sul parquet, aiutando la ragazza a racimolare il tutto in breve tempo.

    «Serve una mano?» domandò Andreas, posando la Bibbia e uscendo dalla camera.

    «No, grazie. Non si preoccupi signore, faccio io» rispose sbrigativamente la cameriera.

    Detto ciò, chiuse la valigia e si diresse verso le scale. Uscita dalla loro vista, i due uomini si scambiarono uno sguardo alquanto incuriosito l’uno all’altro.

    «Voi dovete essere il signor Niemann, giusto?» dedusse l’uomo. Allungò una mano pallida per stringere quella di Andreas. «Io sono Johan Amerling, ma chiamatemi pure Johan».

    «Lieto di conoscervi» rispose l’archeologo, insicuro su cosa dire. «Come…?».

    «Ho avuto modo di disquisire amorevolmente con il signor Lemaire» raccontò Johan, voltandosi verso le scale che portavano al piano terra. «È stato così gentile nell’insinuare che io fossi tedesco, dicendo che ora ve ne erano tre di crucchi, così aveva detto. Uno lo conoscevo già, il signor Hallerstein, mentre l’altro era un certo Andreas Niemann».

    «Il signor Lemaire si è fatto conoscere a modo suo» scherzò il secondo tedesco, seguendo di pari passo il signor Amerling. «Però non si è sbagliato così tanto; voi siete austriaco, erro?».

    «Non errate» replicò Johan con una risatina. «Vengo proprio dal cuore dell’Impero asburgico, come si usava dire non tanto tempo fa. Mio padre, d’altro canto, è tedesco, mentre mia madre è effettivamente ungherese. I suoi genitori, invece?».

    «Entrambi tedeschi, sebbene Danzica, dove è nata mia madre, ora sia polacca».

    «Anche lei di Danzica? Come il dottor Joselewicz» notò Johan, passeggiando con noncuranza.

    «Avete parlato anche con lui?» chiese l’archeologo, circospetto.

    «Ho parlato con molti ospiti da quando sono arrivato: detesto l’isolamento e la mancanza di tatto nelle persone. Sono un uomo che ama stare al centro dell’attenzione, onestamente».

    «La Svizzera e le sue Alpi sono il luogo più sbagliato per voi, dunque» replicò Andreas con un sorriso.

    «Purtroppo è stato il mio compagno di viaggio a scegliere questo ostico hotel».

    Nel pronunciare la parola hotel, il signor Amerling pose così tanta enfasi che risultò evidente il suo disprezzo per tutto ciò che lo circondava, specialmente il freddo.

    L’archeologo fece per rispondere, ma l’austriaco preferì continuare la sua marcia verso i luoghi misteriosi che quell’hotel custodiva. I corridoi erano sorprendentemente caldi, privi di quel freddo statico che dominava gli ampi spazi nella villa dei suoi zii.

    «Mi è stato detto dalla signora Maurer che vi era una sala da biliardo» commentò Johan, trascinando i piedi e schioccando la lingua. «Spero proprio che non stesse mentendo… Oh, bingo!».

    Un ampio portale in pietra condusse i due vagabondi a quattro tavoli da biliardo, illuminati da luci calde e soffici sopra ad un pavimento a scacchiera; un ampio caminetto tipico dei castelli tedeschi scoppiettava allegramente all’estremità opposta da cui erano arrivati. Lungo le pareti, coperte da pannelli di legno, erano stati posizionati dei tavolini sui quali li attendevano delle brocche piene di liquori e vini italiani. Qualcuno si era già servito di quel tesoro bramato dagli uomini più soli.

    Una figura ricurva dominava uno dei tavoli più lontani, impegnata a posizionare sulla traiettoria vincente la propria stecca, assente dalla realtà che circondava quella persona.

    Era un uomo di mezz’età, elegantemente vestito con toni scuri. Dall’uscio su cui Andreas si era fermato, poté solamente osservare una nuca pelata, circondata da capelli ingrigiti.

    «Possiamo unirci alle sue bevute, signore?» domandò Johan altisonante, scrutando la caraffa di vino mezza vuota e un bicchiere completamente svuotato.

    Uno sguardo sottile s’alzò dal tavolo, scoccando rapido come un proiettile contro i due; l’uomo mantenne salda la propria posizione sul gioco, intoccato da quell’improvvisa distrazione.

    «Purché siate silenziosi».

    Era una voce fredda, distante, impersonale. Non vi era attenzione a ciò che diceva né tanto meno interesse a chi lo stesse dicendo. Johan sorrise senza battere ciglio e si versò quietamente da bere.

    Andreas circumnavigò la sala, accettando il bicchiere offerto da Amerling; quest’ultimo era intento a decifrare l’impassibile giocatore di biliardo, il quale non aveva ancora fatto la propria mossa.

    «Credo che lo scopo del gioco sia colpire le palle» commentò Johan con raffinato sarcasmo.

    «Voi avete rotto le mie, signore» replicò l’uomo con un sussurro.

    Ad Amerling fuggì una risata soffocata. Decise di unirsi allo svago dell’uomo, prendendo dalla parete una stecca e posizionandosi sul lato opposto a quello del solitario bevitore.

    «Meno male che questo gioco non è come gli scacchi, altrimenti sareste già squalificato».

    L’uomo schioccò le labbra con frustrazione crescente. Abbandonò la propria posizione e piantò i propri occhi apatici sull’austriaco: aveva un volto asciutto con un’ampia fronte, zigomi alti e occhi ben incavati nel cranio. Due baffetti castani sporgevano da un naso storto, rotto da una probabile rissa, mentre il suo orecchio destro mostrava chiari segni di ustioni e lacerazioni.

    «Siete veramente fastidioso. Ve lo hanno mai detto?».

    «A volte» ammise Johan, imitando la posa del giocatore di biliardo. «Ma il più delle volte dicono che io sia molto spiritoso. A voi lo hanno mai detto?».

    Gli occhi cristallini dell’uomo caddero su Andreas, inchiodandolo sul posto.

    «Potreste almeno presentarvi, voi» fece l’uomo. Si avvicinò all’archeologo con fare minaccioso.

    «Sissignore: io sono Andreas Niemann e l’altro simpatico ragazzo è il signor Johan Amerling» rispose meccanicamente il giovane, facendo un passo indietro. L’uomo si limitò a riempirsi il calice con il vino rosso, senza degnare di un altro sguardo Andreas.

    «Conoscevo un Amerling, prima della guerra» fece l’altro, spostando il suo interesse da Andreas a Johan. «È morto tempo fa sul Monte Grappa. Era un bravo ragazzo, ma purtroppo combatteva dalla parte sbagliata del Piave».

    L’austriaco si morse un labbro e scosse il capo, rinunciando definitivamente al gioco del biliardo.

    «Italiano, giusto?» domandò Johan, fronteggiando lo sguardo freddo dell’uomo.

    «Tommaso Cesare Farini di Ravenna» rispose l’italiano con il vino in mano. «Ufficiale nell’esercito italiano, decorato con la croce al Merito di guerra da Sua Maestà, Vittorio Emanuele

    iii

    ».

    «Siete il secondo soldato che incontro in questo hotel, terzo se contiamo anche il generale Moore».

    «Generale Moore?» ripeté Andreas con volto aggrottato.

    «Sì, un amabile inglese vestito perennemente da ufficiale di Sua Maestà, re Giorgio

    v

    » precisò Johan, posando la stecca sul tavolo. «Questo posto sta diventando alquanto affollato».

    «Vi consiglio di fare il vostro tiro, signor Amerling, prima che venga notte» gli ricordò il signor Farini, trangugiando il vino rosso. «Vorrei finire la partita prima di cena».

    «Ora è diventata una partita tra noi due?» chiese Johan con un sorriso combattivo. «E io che pensavo che voleste solamente il nostro silenzio, invece ora mi chiedete pure di giocare».

    «Avete preso la stecca in mano, avete accettato la sfida».

    «Vero, vero» annuì Amerling sorridente. «Una volta preso in mano un pezzo degli scacchi, bisogna fare la propria mossa».

    «Siete forse un appassionato di scacchi?» domandò Andreas, sciogliendosi dalla rigida insicurezza che provava verso l’italiano. Ora pareva più rilassato, più incline alla sana competitività; eppure conservava intorno a sé un’aura gelida, scomoda e paralizzante.

    «Sapete giocarci?» controbatté Johan, seminando il caos tra le bocce sul tavolo da biliardo. Una andò in buca, scomparendo dal campo da gioco; Tommaso stese un sorriso irrequieto.

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