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L'eredita' Villani
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L'eredita' Villani
E-book219 pagine3 ore

L'eredita' Villani

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Info su questo ebook

Ognuno di noi ha un sogno più o meno segreto, un desiderio che si presenta come una piccola voce che, prima piano e poi sempre più forte, si impone e sovrasta tutto.Dalla finestra del mio appartamento vedevo le colline, un’oasi di pace e ombra nelle giornate estive, un’esplosione di colori in autunno e sempre, in ogni stagione, un luogo di silenzio. Erano anni che percorrevo in lungo e in largo le colline veronesi, mi incamminavo su strade sterrate, scoprivo boschetti, angoli dimenticati dove tutto si era fermato a età remote, e sempre alla ricerca di quella che doveva diventare la mia casa.
Ormai le delusioni non le contavo più, molti mi avevano preceduta in questa affannosa ricerca e al mio arrivo venivo accolta con un sorriso di commiserazione e con l’augurio di maggior fortuna. La mia ricerca si era spostata e procedeva lentamente, il raggio d’azione si allargava sempre più e ormai comprendeva i comuni limitrofi. Molte volte avevo sentito sobbalzarmi il cuore nella certezza di aver raggiunto ormai lo scopo del mio vagabondare, ma sempre dovevo ricredermi e il mio peregrinare puntualmente ricominciava. La voglia di trasferirmi in mezzo al verde diventava ogni giorno più pressante e ogni annuncio economico era fonte di speranza.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2012
ISBN9788862596909
L'eredita' Villani

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    Anteprima del libro

    L'eredita' Villani - Annalisa Prina

    L’EREDITA’ VILLANI

    ANNALISA PRINA

    EDIZIONI SIMPLE

    Via Weiden, 27

    62100, Macerata

    info@edizionisimple.it / www.edizionisimple.it

    ISBN edizione digitale: 978-88-6259-690-9

    ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-307-6

    Stampato da: WWW.STAMPALIBRI.IT - Book on Demand

    Via Weiden, 27 - 62100 Macerata

    Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.

    Ogni riproduzione anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.

    Prima edizione cartacea dicembre 2010

    Prima edizione digitale ottobre 2012

    Copyright © Annalisa Prina

    Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale

    o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.

    Premessa

    E’ la rincorsa a un sogno.

    La vicenda si svolge tra le colline veronesi dove, finalmente, trasformo in realtà il mio sogno: una casa persa tra il verde.

    L’euforia per la realizzazione dei miei desideri si scontra con gli episodi della vita di una ragazza: la proprietaria di un diario scovato nella casa.

    Dalle pagine di quel diario scopro la vita di Cristina. La ragazza e la sua giovane famiglia si trasferisce a Venezia e qui, per due anni, vive momenti indimenticabili: gite in barca, passeggiate alla scoperta della città e la grande alluvione del ‘966.

    La vita per la giovane famiglia si complica sempre più fino a sfociare nella peggior tragedia che può colpire una donna: la morte della sua bambina.

    Morte annunciata, voluta dall’incomprensione, dalla prepotenza e dalla superficialità.

    Con la scoperta di questa realtà, l’incanto della casa che aveva alimentato il mio entusiasmo, sparisce.

    La realtà si presenta nella sua crudezza facendo cadere ogni brandello di magia.

    Dichiaro che i nomi e i fatti descritti sono frutto di fantasia: Ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale

    Un ringraziamento particolare a Fiorella Maira. Lei sa perché.

    L’eredità Villani

    Ognuno di noi ha un sogno più o meno segreto, un desiderio che si presenta come una piccola voce che, prima piano e poi sempre più forte, si impone e sovrasta tutto.

    Dalla finestra del mio appartamento vedevo le colline, un’oasi di pace e ombra nelle giornate estive, un’esplosione di colori in autunno e sempre, in ogni stagione, un luogo di silenzio. Erano anni che percorrevo in lungo e in largo le colline veronesi, mi incamminavo su strade sterrate, scoprivo boschetti, angoli dimenticati dove tutto si era fermato a età remote, e sempre alla ricerca di quella che doveva diventare la mia casa.

    Ormai le delusioni non le contavo più, molti mi avevano preceduta in questa affannosa ricerca e al mio arrivo venivo accolta con un sorriso di commiserazione e con l’augurio di maggior fortuna. La mia ricerca si era spostata e procedeva lentamente, il raggio d’azione si allargava sempre più e ormai comprendeva i comuni limitrofi. Molte volte avevo sentito sobbalzarmi il cuore nella certezza di aver raggiunto ormai lo scopo del mio vagabondare, ma sempre dovevo ricredermi e il mio peregrinare puntualmente ricominciava. La voglia di trasferirmi in mezzo al verde diventava ogni giorno più pressante e ogni annuncio economico era fonte di speranza.

    La prima volta che sentii parlare dell’eredità Villani fu nell’82, quando lessi sul quotidiano locale che veniva posta in vendita una grande proprietà sulle colline veronesi. Seguiva un numero telefonico che corrispondeva ad uno studio notarile.

    Perché non chiamare? Forse avrei subito un’altra delusione, ma ero ormai stanca della vita della città e del caos del traffico. Decisi che dovevo comporre quel numero. Un’efficientissima segretaria mi fissò un appuntamento, fui ricevuta dal curatore testamentario della signora Villani, il quale mi spiegò per sommi capi la modalità della vendita.

    Da quel giorno non ebbi più pace. Dubbi e certezze si alternavano nella mia mente. Probabilmente avrei trovato una casa molto diversa dalle mie aspettative, in una posizione molto suggestiva in una radiosa giornata estiva, ma triste e tetra nei lunghi mesi invernali.

    Il risiedere stabilmente in un luogo così tranquillo e tanto diverso dall’abituale a lungo andare, forse, mi avrebbe fatto rimpiangere i vantaggi della città: il negozio ben fornito, il teatro con lo spettacolo importante, l’ospedale ben attrezzato per ogni evenienza. Ma la voglia di veder finalmente realizzato il mio sogno passava sopra ogni ostacolo e lo dissolveva. Per tradurre la mia speranza in realtà dovevo formulare la mia offerta, e per far questo, ero costretta ad uscire dal mondo dei sogni e delle illusioni e mettere i piedi a terra. Un grosso impegno finanziario mi aspettava; forse quella casa era il fine della mia vita, forse avrei trovato un rifugio sicuro per star lontana dallo stress quotidiano e ritrovare la mia identità perduta chissà dove.

    Mentre aspettavo il giorno stabilito per l’apertura delle buste delle varie offerte, un’infinità di pensieri si accavallavano nella mia mente. Domande che non avevano risposta mi ronzavano continuamente nella testa: perché quella grande casa circondata da un ampio giardino veniva venduta? Come mai le case dei contadini nascoste dagli ulivi e la terra grassa venivano lasciate?

    In quei giorni prendevo la macchina e mi arrampicavo a S. Pietro, parcheggiavo, poi camminavo per i viottoli e per i vicoli per assaporare l’aria che avrei dovuto respirare per il resto dei miei giorni.Scoprivo un minuscolo paese, poche case lungo la strada, una piccola piazza, così minuscola da far pensare fosse il cortile interno di un palazzo. Un bar aveva due tavolini fuori dell’uscio, un negozio di alimentari esponeva la propria merce su un banco di legno tarlato. Dalla strada principale si staccava una stradina in terra battuta che s’inerpicava su per la collina, ulivi nodosi, alberi di ciliegi, qualche campo coltivato a segale, e poi prati tenuti a pascolo. Questo era S. Pietro.

    Dal paese la casa dei miei sogni non si vedeva. Era nascosta da un muro di pietre di fiume arrivate lassù non si sa come e quando e da un folto ciuffo di alberi. Dal cancello si vedeva un muro rosso che il trascorrere delle stagioni aveva stemperato in un colore caldo, uniforme, di una tonalità vissuta e familiare. Dei grandi alberi e dei cespugli, cresciuti senza nessuna potatura o argine, impedivano di vedere qualcosa di diverso se non un giardino inselvatichito. Le finestre erano chiuse e il portone sbarrato, il silenzio era totale e si aveva l’impressione d’essere lontani chissà quanto nel tempo e nello spazio.

    Arrivò il giorno di apertura delle buste, una grande emozione mi impediva di respirare liberamente.Solo in quel momento mi resi conto che, probabilmente, anche altri avevano condiviso il mio interesse per quella casa e la mia offerta,essendo modesta, sarebbe stata facilmente superata. Le mie certezze cominciarono a vacillare: forse avrei dovuto rimanere in città. Non volendo ammettere la limitatezza dei miei mezzi, mi sarei comportata come la famosa volpe che, non riuscendo a mangiare l’uva, la giudicò ancora acerba. Con mia grande sorpresa nessun altro si presentò. Mi trovai nell’anticamera del notaio con uno stato d’animo particolare: ero felice, tutti i miei sogni cominciavano a prendere corpo e i dubbi, che per tutto quel tempo non mi avevano abbandonato, svanirono nel nulla. Non riuscivo a credere di aver avuto tanta fortuna! Ora la realtà era davanti a me con tutte le sue incognite, gli imprevisti e le sorprese.

    Entrai finalmente nello studio, ricevetti le congratulazioni d’uso, mi furono consegnate le planimetrie della casa e una grossa cartella con la documentazione che comprovava l’avvenuto passaggio di proprietà. Il notaio mi congedò con una stretta di mano e mi trovai con un fascio di carte e una grossa emozione dentro di me. Ora il momento tanto atteso, e nello stesso tempo tanto temuto, era arrivato: avrei potuto vedere nella realtà quello che avevo conosciuto in un filmato girato senza troppa professionalità.

    Era una bellissima giornata di maggio, una delle prime giornate calde che preannunciano il sole estivo, mi sembrava che tutto fosse più bello e avrei voluto gridare a tutti la mia soddisfazione. Era giunto il momento della verità. Mentre percorrevo la strada per S. Pietro ripensavo ai giorni trascorsi, alle domande che continuamente mi venivano alla mente e che non avevano una risposta.

    C’era una cosa in quel contratto d’acquisto che mi incuriosiva più di altro, ed era che alla morte dell’ anziana proprietaria nulla era stato portato via, né suppellettili, né documenti, nulla. Mi trovavo ad essere, senza volerlo, proiettata ad entrare nella vita di persone completamente sconosciute.

    Durante le mie passeggiate a S. Pietro avevo cercato qualche informazione. Avevo chiesto al barista se sapeva dirmi come mai quella casa era sbarrata, ma avevo ricevuto delle notizie molto vaghe; sembrava infastidito dalla mia curiosità. Avevo interrogato i contadini che coltivavano la terra attorno alla casa, ma anche da loro non era riuscita a sapere nulla. Solamente una donna, che aveva lavorato per tanto tempo alle dipendenze della signora Villani, che aveva vissuto con lei le gioie e i dolori degli ultimi anni, mi raccontò che gli eredi avevano voluto monetizzare il tutto e cancellare dalla memoria ogni ricordo. Non riuscii a saperne molto di più, un senso di pudore le impediva di parlare con una sconosciuta. Mi proposi di chiedere il suo aiuto per la riapertura della casa e in quell’occasione porle altre domande. Ormai non dovevo far altro che salire a S. Pietro, entrare in quel giardino, aprire quella porta e vedere esattamente che cosa mi aspettava.

    La notizia della vendita dell’immobile si era già diffusa in paese. Quando arrivai sulla piazza sentii tutti gli occhi fissi su di me. Volevano scoprire chi era la donna che aveva deciso l’acquisto, forse si chiedevano se quella villa sarebbe tornata a vivere, oppure avrebbe continuato a sonnecchiare per lunghi periodi per essere poi abitata saltuariamente. Erano tutte domande che si leggevano sui visi di chi mi scrutava guardandomi con sbirciate veloci. Continuai la mia strada, sentivo dietro di me gli sguardi ormai non più preoccupati a nascondersi, i commenti e le chiacchiere avrebbero preso fiato e per quel giorno, e forse anche per i successivi, sarei stata l’argomento principale delle conversazioni.

    Per prima cosa esplorai il giardino. Rose a cespuglio, ad alberello, a macchia coprivano quasi tutto lo spazio disponibile, una grande rosa rampicante copriva un piccolo gazebo dove trovavano posto una panca e un tavolino di marmo. Piante secolari, grosse querce, un imponente ippocastano, un piccolo boschetto di sicomori e lungo il muro dei noccioli e delle robinie formavano un intricato cielo verde.

    La casa sembrava quasi protetta e avvolta in una sciarpa merlettata di verde frescura.

    Appoggiata a una parete della casa una vasca di pietra sovrastata da un mascherone era seminascosta tra le erbacce.

    Doveva essere stata molto decorativa, il saltellare dell’acqua doveva sembrare una musica! La immaginavo rimessa a nuovo, avrei fatto piantare delle ninfee o qualche altra pianta acquatica. Nell’orto nulla era stato toccato, da molti anni era stato lasciato in balia della natura. L’ordine aveva lasciato il posto alle bizzarrie del tempo.

    Continuavo a camminare su e giù per il giardino, mi guardavo intorno, lo immaginavo nuovamente ordinato, senza più erbacce e rovi. Lo vedevo come doveva essere stato e lo paragonavo al mio ideale. Avrei tenuto il giardino il più possibile a prato, senz’altro avrei curato le rose e quel piccolo gazebo sarebbe diventato il mio posto prediletto.

    Lasciavo passare il tempo immaginando i lavori futuri, quasi non avessi il coraggio di aprire la porta e di entrare finalmente in casa. Le finestre del pianoterra erano chiuse da inferriate che lasciavano intravedere delle tende bianche impolverate dal trascorrere dei giorni.

    Uno scatto nella serratura e la porta si aprì.

    La prima cosa che mi accolse fu un profumo di cera, un soffio di aria calda mi venne incontro e mi diede il benvenuto. Passando dal sole all’ombra ebbi l’impressione di entrare in un antro nero senza fine; vi erano dei riflessi dorati lungo le pareti e, in fondo, una scala portava verso l’ignoto.Chiusi gli occhi per abituarmi alla penombra e quando li riaprii vidi un grande tavolo nel mezzo dell’androne, un lampadario, ai lati delle porte dagli stipiti di pietra bianca e una scala di legno con il corrimano sostenuto da colonne. Rimasi affascinata dall’atmosfera: mi rendevo conto che quel locale senza quel tavolo e quella lampada non sarebbe stato più lo stesso. Ormai ogni oggetto aveva scavato una nicchia nel tempo, era diventato parte integrale dell’aria stessa, se tolto avrebbe creato un vuoto incolmabile.

    Cominciai a visitare una stanza dopo l’altra. Dalle finestre entrava la luce del sole e le inferriate disegnavano sul muro dei riquadri d’ombra. Entrai in cucina, una cucina da manuale: rami di tutte le misure e fogge coprivano la parete opposta alla finestra, il sole si rifletteva su quei rami e lanciava lampi rosati che davano un colore caldo alla stanza.Vi era un grande focolare nero sormontato da una trave spessa e annerita dal fumo, un secchiaio di pietra inclinato leggermente e lo scolatoio di legno, una cucina economica con la caldaia per l’acqua calda in ottone, un tavolo di legno massiccio attorniato da sedie impagliate, e una madia che occupava la parete vicino alla porta. Non sembrava una stanza senza più vita, anzi, avevo l’impressione di sentir cigolare la porta; percepivo ancora il profumo delle domeniche, quando la festa entra nello spirito della persone. Intuivo la fragranza del pane appena sfornato, qualche intingolo spandeva il suo aroma fino lassù verso le travi annerite dal trascorrere delle stagioni. Sentivo lo scalpiccio degli zoccoli, il gorgoglio dell’acqua, una musica veniva dalla stanza vicina .Avevo teso l’orecchio, percepivo ancora un leggero scalpiccio che si perdeva lontano. Erano dolci ronzii, fruscii, tintinnii che per lunghi anni avevano dimorato tra quelle pareti e ora diventavano un eco sempre più fievole. Mi riscossi da questo sogno ad occhi aperti e, imponendomi maggior attenzione, continuai ad esplorare la cucina. Piatti, bicchieri, posate riposavano nella grande madia, tutto era in ordine, coperto da teli bianchi, non aspettavano altro che ricominciare a servire. Con lo stesso spirito mi accinsi ad entrare in possesso delle altre stanze.

    I mobili del salotto erano stati protetti da lenzuola bianche, la polvere si era depositata e aveva sigillato ogni ricordo. Non doveva essere stato usato molto frequentemente, tutto dava l’impressione di una stanza non vissuta, quasi fredda, ma l’atmosfera cambiò quando aprii l’ultima porta. Era un piccolo salottino, una poltrona molto usata era vicino alla finestre; da lì lo sguardo spaziava sui cespugli di rose, il gazebo e il cancello. Un tavolino da lavoro, un televisore, uno scrittoio a ribalta completavano l’arredamento. Aveva l’aria di un luogo a lungo abitato e la presenza umana si sentiva ancora calda, si intuiva che quello era il luogo abituale dove l’anziana signora trascorreva le sue giornate.

    Una sorpresa mi aspettava: vicino al salottino una stanza completamente vuota, isolata dal resto della casa da una porta di legno massiccio, era chiusa a chiave. Entrai: delle ricche tende di pizzo pendevano da bastoni di ottone ormai opachi. C’era solo, nel mezzo della stanza, un vaso di vetro con delle rose ormai secche. L’impressione era sgradevole e perciò chiusi a chiave la porta e mi allontanai molto perplessa.

    Ora dovevo salire al piano superiore, mi trovai ai piedi della scala e, quasi entrassi senza essere invitata nell’intimità di qualcuno, mi sentii impacciata. Fino a quel momento avevo visto e preso possesso della parte pubblica della casa. Ora dovevo entrare in quelle stanze che erano servite non solo per dormire, ma anche per pensare, meditare, essere se stessi. Stavo entrando dove non si desiderano occhi indiscreti.

    Cominciai a salire, una corsia di velluto rosso proteggeva i gradini tirati a cera, li sentii scricchiolare sotto il mio peso, e nel silenzio generale quel rumore mi fece sobbalzare. Al

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