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Qualsiasi cosa accada. Fabrizio Bernini: Il sogno di un imprenditore visionario, la storia della sua famiglia, il potere di una promessa
Qualsiasi cosa accada. Fabrizio Bernini: Il sogno di un imprenditore visionario, la storia della sua famiglia, il potere di una promessa
Qualsiasi cosa accada. Fabrizio Bernini: Il sogno di un imprenditore visionario, la storia della sua famiglia, il potere di una promessa
E-book247 pagine3 ore

Qualsiasi cosa accada. Fabrizio Bernini: Il sogno di un imprenditore visionario, la storia della sua famiglia, il potere di una promessa

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Info su questo ebook

“Mia madre era una birchia, abbandonata all’Istituto degli Innocenti di Firenze ad inizio secolo. Mio padre a causa di ferite mai curate era caduto nel tunnel dell’alcool. C’è stato un momento in cui, solo ed emarginato, mi trovai di fronte a un bivio: divenire uno dei tanti sbandati di turno, perso tra la droga e il vino, oppure faticare e credere nella forza dei miei sogni, trasformando la mia passione per la tecnologia in un’impresa.
Erano due sentieri: il primo al sole, apparentemente grande e in discesa. Il secondo buio, irto e pieno di rovi. Impaurito e timoroso, imboccai il secondo, era qui che si nascondeva la luce”.
Il libro-confessione del fondatore di Zucchetti Centro Sistemi, che è un insegnamento universale.
LinguaItaliano
Data di uscita5 gen 2024
ISBN9788875423971
Qualsiasi cosa accada. Fabrizio Bernini: Il sogno di un imprenditore visionario, la storia della sua famiglia, il potere di una promessa

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    Anteprima del libro

    Qualsiasi cosa accada. Fabrizio Bernini - Filippo Boni

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    Al lettore

    Questo libro narra la storia di Fabrizio Bernini e della sua famiglia partendo dalle origini dei suoi genitori. I fatti riportati sono realmente accaduti e le persone citate sono tutte esistite.

    Il volume è il risultato dell’incontro professionale e umano tra Fabrizio, imprenditore e cavaliere del lavoro, fondatore di Zucchetti Centro Sistemi, la sua famiglia e Filippo Boni, scrittore e ricercatore; è la fusione del loro reciproco sentire e l’umile tentativo di offrire al lettore non il mero elenco di successi e di avventure di un uomo coraggioso, bensì la testimonianza di una vita unica che vuole essere un monito, un esempio e una speranza per tutti i giovani, oggi troppo perduti dietro l’effimera realtà virtuale e digitale, e anche uno spunto di riflessione più ampio, profondo e universale sul senso dell’esistenza.

    I

    Il sogno

    Ricordalo, Fabrizio, è una promessa che dovrai farmi, non dimenticarlo mai. Non dimenticare queste parole….

    Mamma!.

    Improvvisamente sgranai gli occhi. La maglietta bianca era madida di sudore. Osservai mia moglie che dormiva candidamente accanto a me, distesa su un fianco. Nella penombra della notte di metà aprile il temporale scuoteva gli alberi. Sentivo nitidamente ululare il vento attraverso le case, smuovere le tegole, infilarsi tra le pietre del borgo de La Torre, nel mio piccolo paese di Mercatale di Bucine, nel cuore della Toscana, e la pioggia battente picchiettare con veemenza e isteria sui tetti. I lampi, di tempo in tempo, illuminavano a giorno la camera, sembravano i flash spumeggianti di un fotografo schizofrenico.

    Era notte fonda, lo capii afferrando lo smartphone. Comparvero i numeri bianchi dell’ora sul display: le 3 e 47 minuti. Riappoggiai il cellulare sul comodino e mi alzai.

    Mi mossi lentamente, senza riuscire a cancellare l’immagine di mia madre dalla memoria, distesa sul letto in cui l’ho vista per l’ultima volta prima che spirasse, con la maschera dell’ossigeno sul viso, raccomandarmi con un filo di voce qualcosa che non riuscivo a ricordare in nessuna maniera.

    Era un sogno ricorrente, quello di mia madre, che di tempo in tempo, senza che mai lo volessi o lo cercassi, mi tornava a far visita.

    E se da una parte rivedere il suo volto sereno mi trasmetteva tenerezza, dall’altra un profondo senso di solitudine mi si attaccava al cuore e non se ne andava. La continuavo e la continuo tutt’ora a sognare, scomparsa da ormai dieci anni, con i suoi occhi vispi, il suo sorriso indelebile, la sua voce rassicurante, la sua veste indimenticabile e tutto l’amore che mi aveva lasciato dentro.

    L’amore che non se ne va, l’amore che nessuno conosce e che nessuno sa cosa sia.

    Ma non riuscivo a capire che cosa volesse dirmi attraverso quella visione e tutto questo mi tormentava.

    Mi sentivo irrequieto.

    Appoggiai le mani sul davanzale della finestra e osservai da una fessura di una persiana la strada sotto casa, bagnata di pozzanghere, crivellarsi delle gocce della pioggia che, come piccoli proiettili, uno dopo l’altro spostavano i sassolini.

    Amo i temporali perché ti scuotono l’anima. Sconquassano il senso dell’esistenza.

    Afferrai il bicchier d’acqua sopra alla madia e ne bevvi un lungo sorso. Chiusi gli occhi per qualche istante e poi li riaprii lievemente.

    L’immagine di lei era sempre di fronte a me. Il silenzio della notte come un manto oscuro avvolgeva tutte le cose.

    Attraverso la persiana ritrovai un bambino zig-zagare in bicicletta, sotto il rumore del tuono impetuoso di un temporale estivo.

    Chiusi gli occhi.

    Vidi un ragazzo correre come un matto sulla sua bicicletta; improvvisamente mi sentii chiamare. C’era mio babbo, seduto sotto un noce.

    Quel bambino ero io e quella era la vecchia strada de La Torre, dove avevo imparato ad andare in bici. Già, la bici, il vecchio sogno del babbo di vedermi correre da grande come i mitici Felice Gimondi ed Eddy Merckx, i campioni di allora.

    Bravo Fabrizio, non ti fermare, corri con quella bici Fabrizio, non ti fermare mai. Vai con quella bici, diventerai un corridore figliolo mio.

    Stava seduto su una sedia di paglia con una mano sulla fronte e con l’altra appoggiata alla cintola dei pantaloni. Portava una canotta color avana e un berretto di tessuto sulla testa leggermente spostato all’indietro, verso la nuca. Sorrideva come raramente lo avevo visto fare. E quel sorriso mi scuoteva, mi lasciava un segno profondo negli abissi più reconditi dell’anima.

    Aprii gli occhi.

    La pioggia scrosciante continuava a lavare la strada sotto di me.

    Non ho mai abbandonato il paese in cui sono venuto al mondo un giorno di maggio di tanti anni fa, nel 1957.

    La nostra prima e umile casa, in pietra, che i miei genitori acquistarono con mille sacrifici all’inizio del loro viaggio assieme, l’ho sempre osservata con il rispetto per un tempio. Là dentro si celava e si custodiva il nucleo aggrovigliato, profondo e misterioso dei nostri ricordi e affetti più lontani. La nostra famiglia, i primi anni insieme, le prime felicità ed i primi drammi condivisi. Non ho mai sopportato l’idea di dover abbandonare per sempre la vista della casa in cui sono venuto al mondo, non ho mai sopportato il pensiero di trasferirmi e di strapparmi dalle mie radici.

    È vero, ha un senso anche partire, scappare, salutare e dirsi arrivederci e poi magari sentir salire nel tempo la voglia di tornare, di riabbracciare un cristiano, un albero, una pietra, una casa, un amico che appartiene ad un luogo, a quel luogo e che per te ha un senso e un significato. Forse ci vuole anche forza e coraggio per scappare, per andare via. Ma io ho sempre sognato di appartenere a queste case, a questa gente, a questi cortili ed a queste strade. Ed ho sempre sognato di poter contribuire a cambiare in meglio il loro destino.

    Forse è per questo che non sono mai andato via. Forse è per questo che non ho mai avuto la benché minima intenzione di lasciare la mia terra ed i miei sogni di ragazzo. Restare, magari soffrire e aiutare gli altri a cambiare. Questo era il mio sogno e questo ho provato a fare.

    La Torre è un piccolo e antico agglomerato di case abbarbicate tra le colline toscane, nel comune di Bucine, che fa parte dell’attuale Mercatale Valdarno. La sua storia mi ha sempre affascinato.

    Il paese sorge sull’antico tracciato della Via Cassia ed è la moderna fusione di due comunità che nei secoli erano state vicine ma ben distinte: quella di Santa Reparata a Mercatale e quella di San Biagio a La Torre a Mercatale che infatti costituivano due parrocchie a sé.

    Quand’ero piccolo mi raccontava sempre un vecchio amico che consideravo un nonno, un abitante di questo antico castello, che sotto la signoria dei Conti Guidi Mercatale aveva acquisito importanza dall’inizio del 1200 quando il conte Guido Guerra V, nel creare il Viscontato della Val d’Ambra, aveva concesso che vi risiedesse il podestà come chiesto dai costituenti dello Statuto della Val d’Ambra. Scelsero Mercatale per la sua posizione geograficamente parallela alla vicina Bucine, dove invece risiedeva il visconte, così che, per garantire l’autonomia dei due poteri, il capo del governo, il podestà, e il capo dello stato, il visconte, sarebbero stati non lontani ma comunque separati. Ma la scelta di Mercatale fu dettata anche da un’altra ragione: al podestà sarebbe stato più facile amministrare la giustizia se si fosse stabilito nel punto più visitato e di più facile accesso del viscontato, ossia il luogo del mercato. Mercato da cui La Torre di San Biagio e oggi la cittadina prendono il nome.

    Nel corso dei secoli il borgo, sperimentò meno il passaggio di armate e di eserciti a differenza di molti altri castelli vicini, ma nel 1529 dovette soccombere alle forze del Principe Filiberto d’Orange, viceré di Napoli, che marciava per assoggettare Montevarchi (e poi, nel 1944, la 28ª Brigata dell’Esercito canadese la riprese ai nazi-fascisti per andare, stavolta a liberare, Montevarchi).

    E fin da bambino il poter vivere e crescere in un borgo di pietra, ricco di storia, mi ha sempre profondamente inorgoglito e affascinato.

    Tornai a letto.

    Mi distesi con gli occhi aperti senza distogliere lo sguardo dal soffitto che vedevo nella penombra. La pioggia, intanto, si era fatta più intensa e violenta. Sentii alcune imposte sbattere lontano, un cane abbaiare al vento, non riuscii a riprendere sonno.

    Pensavo che probabilmente mia madre volesse mandarmi un messaggio che andava al di là del mero sogno.

    Il fatto che la sua immagine tornasse con una certa frequenza a farmi visita nel sonno mi faceva pensare che volesse che io potessi esaudire in qualche modo un suo desiderio. Ma non capivo fino in fondo a cosa si riferisse con precisione e questo pensiero mi assillava e mi lasciava al contempo angustiato.

    Era l’ennesima notte che mi appariva. L’ennesima notte che mi svegliavo sudato, di soprassalto; la sua immagine spariva improvvisamente ed io mi ritrovavo tormentato, in silenzio, inghiottito dal buio a riflettere senza arrivare a niente.

    Non avevo raccontato a nessuno del sogno, neppure a mia moglie, con la quale condivido tutto da una vita. Speravo di poterglielo confidare, una volta capito il senso delle parole della mamma e forse il suo desiderio recondito.

    Il mattino seguente mi alzai di buon’ora e cercai le foto dei miei genitori.

    Aprii un vecchio album ingiallito e cadde a terra una foto piuttosto avvizzita del mio primo motorino, forse scattata da mio padre.

    Era un Guzzino ‘48 rosso fiammante con il cambio sul serbatoio. Osservai la foto con un po’ di malinconia, mi stropicciai la testa, strinsi gli occhi e mi ripensai ragazzo tra i boschi e le campagne a correre come un matto con quel vecchio arnese.

    Appoggiai l’album sul tavolo del salotto e portai la foto con me al lavoro.

    Passarono i mesi e giunse l’estate.

    Il sogno da quella notte turbolenta di aprile sembrava essere scomparso. Mia madre sembrava dissolta nel silenzio. La sua voce flebile ma decisa, la sua raccomandazione ferma ma incomprensibile, era sciolta nel tempo.

    Mi chiesi anche se quei sogni fossero mai avvenuti o se non fosse stata la mia fantasia ad avermi convinto che fossero tali.

    Forse erano stati solo il prodotto del moto perpetuo notturno del mio cervello che continua a produrre pensieri, idee, progetti, sogni, a riappiccicare ricordi sconnessi.

    La foto del motorino, intanto, in ufficio campeggiava attaccata allo schermo del computer. Osservarla mentre lavoravo mi trasmetteva serenità, mi distraeva e mi aiutava a recuperare ricordi che credevo di avere perduto. A volte il solo vederla mi permetteva di ritrovare nei recessi della memoria nomi e persone che nel corso della vita avevo dimenticavo e soprattutto recuperavo momenti preziosissimi che credevo di non portare ormai più in me.

    Che strano, pensavo, in quest’azienda, la Zucchetti Centro Sistemi, che ho creato dal niente, con le mie mani, con le mie vittorie, le mie sconfitte e con i miei sacrifici, si producono idee e invenzioni tecnologiche che hanno l’obiettivo di migliorare il futuro dell’uomo, ed io adesso mi perdo dietro a un sogno e ad una vecchia foto di un motorino scassato. E poi chissà dove sarà finito il mio, il Guzzino che smontavo e rimontavo pezzo per pezzo quand’ero ragazzo, compagno di scorribande, di fughe e di sogni indomiti.

    La domenica successiva decisi di andare ad Arezzo alla Fiera Antiquaria con mia moglie. Ho sempre amato gli oggetti di tecnologia vintage di ogni tipo. Vecchi telefoni, grammofoni, tv abbandonate negli angoli di certe bancarelle e molto, molto altro ancora.

    Camminare tra le meravigliose strade medievali ed i vicoli della città poi mi rasserena, osservare i banchi mi fa viaggiare nel tempo e, quando riesco, ci faccio sempre un salto: la fiera si tiene ogni primo settimana del mese.

    Con mia moglie arrivammo a metà mattina e ci perdemmo tra la folla. Un caffè in un bar, una passeggiata lungo il corso, e poi come sempre ci dividemmo.

    Ci ritroviamo qui tra un’ora, mi raccomando non tardare, si assicurò lei, preoccupata che perdessi troppo tempo.

    Imboccai Corso Italia, percorsi un centinaio di metri e poi infilai in via di Seteria, la strada di pietra che divide il Corso da Piazza Grande. Costeggiai con un leggero fiatone una fila di dehors di ristoranti affollati di stranieri; nell’aria aleggiava un profumo dolciastro di zucchero di canna e fiori d’arancio. Oltrepassai una bottega di un antiquario e proprio nell’angolo lo vidi.

    Fu una folgorazione. Era appoggiato al muro, in bilico su una pietra sconnessa, con il manubrio spostato verso sinistra, di fianco ad una bancarella. Era una copia identica del mio primo motorino Guzzino ‘48 rosso fiammante; per un attimo ebbi anche la sensazione che fosse lui. Rimasi senza fiato. Ripensai al sogno, alla foto, alle domande che mi ero posto nei mesi successivi, al messaggio che mia madre forse voleva mandarmi da ovunque fosse, ripensai a tutte le avventure vissute su quel mezzo. A fatica riuscivo a respirare. Appoggiai una mano al muro, con un fazzoletto mi asciugai il sudore sulla fronte e lo osservai.

    Alzai lo sguardo.

    Il proprietario aveva la barba bianca, folta, gli occhi vispi, stava seduto su uno sgabello di tela da pescatore con i sandali di pelle e un golf rosa. Un tipo bizzarro, con la pipa in bocca e lo sguardo gentile. Mi avvicinai, sfiorai la carrozzeria, ma quell’uomo mi gelò ancor prima che potessi aprir bocca.

    Le piace? Viene da Milano. Una chicca… l’ho comprato a una fiera due mesi fa. È un gioiellino, ma non posso venderglielo purtroppo, l’ho già rivenduto proprio stamani, il proprietario verrà a ritirarlo la prossima settimana.

    Restai in silenzio per qualche secondo e sorrisi.

    Eccome se mi piace, sarei pronto a fare una follia per comprarlo, gli dissi.

    Mi dispiace sia già stato venduto. Lo sa che è stato il mio primo motorino? Lo amavo come fosse un amico, lo sentivo mio più della mia stessa pelle. Quanti ricordi….

    Tacqui. Allungai una mano e accarezzai la carena. Mi comparve di fronte un mondo. Rividi la strada bianca, sassosa, assolata e polverosa della Valdambra in piena estate.

    Fine anni Sessanta. Cavalcavo quel motorino come fosse una moto da gran turismo, mi sentivo un cow-boy con un cavallo di razza in corsa verso le praterie più sconfinate, avevo la sensazione di poter conquistare il mondo e di essere un cavaliere. Invece ero solo poco più di un bambino che provava a scacciare i fantasmi del passato, le proprie fragilità ed i propri dolori. E fuggendo tra i boschi e i prati, mentre aumentavo il gas e la velocità, mi sembrava di scappare da me stesso e da una vita che, pur essendo giovanissimo, fino ad allora certo non mi aveva sorriso.

    Quel Guzzino in quegli anni era in verità uno strumento di fuga apparente, di conquista, e soprattutto una forma di salvezza.

    Forse è per questo che sentivo prepotentemente questo legame con lui. Forse è per questo che sfiorandolo rividi la mia infanzia, rividi mia madre accarezzarmi e, soprattutto, rividi mio padre sorridere.

    Quel tipo strano mi osservava mentre incantato fissavo il ferrovecchio.

    Guardi, vedo che è molto legato a questo mezzo, o almeno al ricordo che ha di lui: le voglio fare un regalo.

    Lo fissai sorpreso.

    Se vuole glielo noleggio per una settimana, a patto che se nel frattempo dovesse rompersi, lei rimborserà per intero il cliente che l’ha già comprato. Almeno avrà sette giorni per tornare indietro nel tempo e ritrovare sé stesso.

    Quelle parole mi toccarono in profondità.

    Quell’uomo non era solo un ambulante, era un taumaturgo e neppure lo sapeva.

    Affare fatto gli dissi "non so come ringraziarla, l’abbraccerei!".

    Lasci perdere, ho qualche foglio da farle firmare per il noleggio, poi ci ritroviamo qui tra una settimana esatta.

    Firmai i fogli, strinsi la mano a quell’uomo, presi il motorino e a spinta me ne andai. Dopo alcune decine di metri, per l’emozione, fui costretto ad appoggiarlo ad un muro ed a sedermi ad un bar ad osservare la gente passare, nella confusione generale.

    E lì, mescolato nella moltitudine, continuai a pormi domande a cui non sapevo dare una risposta.

    Non so quanto tempo trascorse, ma so che mentre bevevo un bicchier d’acqua gassata con una fetta di limone, sentii la voce di mia moglie, che era molto preoccupata.

    Fabrizio, Fabrizio! Alla faccia della puntualità, ma dov’eri finito? È da un’ora che ti cerco, stavo per chiamare i carabinieri!.

    Preso dall’emozione che mi aveva suscitato l’aver rivisto e noleggiato il vecchio Guzzino, quasi fosse un preciso segno o un presagio, mi ero dimenticato di tutto: la fiera, la domenica mattina, l’appuntamento con mia moglie.

    Andiamo Fabrizio, ti vedo confuso….

    Mi afferrò per la mano e mi trascinò via.

    Aspetta! In realtà io stasera a casa tornerò con quello! e le mostrai il motorino appoggiato al muro.

    Lei restò a bocca aperta.

    "Ma è uguale al tuo di quand’eri ragazzo!"

    Esatto, l’ho preso a noleggio per una settimana da un ambulante.

    O mio Dio Fabrizio, non ti si può lasciare solo nemmeno un secondo…

    Fu così

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