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L'anonima guerra
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E-book236 pagine3 ore

L'anonima guerra

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Info su questo ebook

Da Firenze alla campagna polacca: un incontro casuale in mezzo all'acqua, nella Firenze della grande alluvione del '66, è il pretesto per ripercorrere un racconto che si snoda attraverso cinquant'anni. E' la storia di Klara Kalovi recte Weingrod, scrittrice superstite di un campo di concentramento nazista, ma soprattutto di suo cugino Adam e del suo viaggio clandestino attraverso un labirinto materiale, i boschi polacchi nei quali si cela per sfuggire alla follia dell'invasione, e personale. Adam riesce a salvarsi e a proseguire la fuga con una giovane contadina dal nome e dal carattere enigmatico, Bena, il cui personalissimo modo di vivere il labirinto costituirà la loro ultima ancora di salvezza.
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2014
ISBN9786050306019
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    L'anonima guerra - Teresa Del Bianco

    Postscriptum

    Firenze, 1966

    Sott'acqua

    Mattia, come ti senti?

    Non trovo sonno. Nella lunga notte di ieri, l’ho perduto.

    E’ iniziato così: ho dormito troppo. Ho imboccato una via grigia, un’autostrada infinita dai contorni sfumati. Addormentandomi, ho percepito l’intensità dei suoni che dolcemente diminuiva. Per primo è scomparso il rumore: le finestre, il tetto, il marciapiede, le piccole foglie degli intricati gerani hanno taciuto, gli spiriti notturni hanno chinato la testa e si sono addormentati scivolando sul mio cuscino.

    È così che deve essere successo: mi sono abituato. Ha piovuto per l’intera giornata, a partire dalle prime ore del mattino. A pensarci bene, erano giorni di un nubifragio ininterrotto. Io non sono abituato a dar peso a queste cose. Vivo in città, a chi verrebbe in mente che l’acqua potrebbe costituire un pericolo, che in fin dei conti l’acqua determini la vita o la morte? Mi annoiavo ed ho proiettato sull’intera realtà, su Firenze, sulla mia bottega, sulle strade, sui passanti un velo irrisorio e leggermente turbolento. Ho canticchiato per tutto il giorno, atteggiandomi, nella mia solitudine, alle fattezze di un alto cantante francese, ripetendo parole come amis, pelle, aussi, vent. La grigia giornata autunnale, triste di pioggia, mi ispirava un grande classico.

    Sono andato a letto presto, mi sono detto: Mattia, mettiamo fine a questa giornata. Così alle dieci ero a letto. Ho dormito profondamente, come un bambino.

    Ho cominciato ad udire gli schiamazzi verso le otto del mattino. Ho il sonno pesante. Ho udito un acutissimo: maremma… e mi sono svegliato. Lentamente, come un cieco, ho guadagnato la finestra. L’inquilino del piano di sopra stava gridando, affacciato al balcone. La luce mi ha fatto chiudere gli occhi quando ho alzato il capo verso di lui e gli ho chiesto: Cosa succede?

    Lui ha gridato, giungendo le mani come per pregarmi, le ha scosse sporgendosi verso di me, quasi a volermi raggiungere e spaccarmi di colpo la testa.

    La prego, la prego non scherzi!

    Ho riso, ancora non credevo che potesse essere successo davvero qualcosa.

    Ho guardato in basso, verso la strada, ed ho visto il fiume: un fiume in piena, scuro, pieno di fango ed olio e percorso da una corrente furiosa, che correva sull’asfalto e sembrava aumentare continuamente di altezza. Tutto intorno, identica storia: acqua.

    Così, il sonno mi aveva ingannato! Aveva ingannato tutti noi.

    Ma chi avrebbe potuto credere ad una cosa del genere? In quel momento fui certo che nessuno ci avrebbe creduto e nessuno sarebbe giunto per aiutarci. Saremmo morti affogati e sepolti da un mare d’acqua dolce, i pesci avrebbero invaso il salone dei cinquecento e non avrebbero risparmiato il sindaco ed i consiglieri, i turisti sarebbero rimasti come galleggianti nei musei, circondati dal lento volteggiare dei loro ombrellini incerati. Noi tutti poveri diavoli assiepati nelle nostre case, ormai introvabili.

    E’ tutto allagato? Ho chiesto.

    Una voce di donna mi ha risposto. Le donne, creature esperte di tutti i disastri.

    Dappertutto, dappertutto! L’acqua arriva quasi al primo piano! L’Arno ha invaso piazza del Duomo, Santa Croce è sott’acqua!

    Come lo avesse saputo, quella scimmiotta arboricola, io non lo so, visto che eravamo tutti lì assiepati alle finestre.

    Ci misi qualche minuto per ricollegare il quartiere di Santa Croce alla mia bottega.

    La mia bottega, la mia amata bottega. Gioiello di mio nonno, di mio padre, mio.

    Fin da bambino avevo evitato di giocare in quel luogo, per osservare in silenzio il lavoro dei miei vecchi ed imparare a dorare, ad assemblare, a riportare alla luce un volto rimasto per dimenticanza sotto ad una coltre di polvere. Mio padre ha riempito la bottega di quadri, infinite tele delle più varie dimensioni da trattare con cautela, lavare, coccolare. Con lui ho rifatto le unghie ad un milione di dame, ho riacceso gli occhi di pomposi aristocratici e ritrovato l’armonia di un gruppo di amici ritratti e crepati.

    Mio padre era un vero artista, io sono un robivecchi: ho riempito la bottega di ogni genere di cose. Vendo, vendo il mio cuore per cinquantamila lire. I miei dorati cherubini sono stati assunti come angeli custodi di bambini coreani ed americani.

    Ma se la bottega è andata sott’acqua, né le mie mani, né quelle di tutti i miei antenati messe insieme, potranno salvare i nostri cimeli dall’affogamento.

    L’immagine degli insignificanti ma scintillanti ninnoli che mio padre comprava quando errava da antiquario e che diventavano dono e gioiello per mia madre crudelmente mi attraversò, affettandomi come un cocomero. È stato chiaro fin da quel momento e da quella distanza che l’acqua ed il fango dovevano aver invaso la stanza ed il magazzino, imbevendo le tele, le pale, i fogli ed ogni altra cosa. L’onda del fiume aveva probabilmente sfondato la porta ed invaso ogni angolo, infranto le teche e divelto gli scaffali.

    Ogni oggetto si trovava ben in vista nella stanza della bottega, disposto ad arte sotto alle belle lampade che i miei avevano comprato come regalo per quella bella protetta che era la nostra bottega. Chiunque passando dalla strada poteva rimanere incantato dall’aura emanata dagli antichi dipinti, dalle ceramiche smaltate, dai candelabri con le braccia ancora tese in un tenue gesto d’invito ad un ballo dimenticato. Quel varco studiato ad arte per la vista di sconosciuti è stato infine la causa della sua rovina: l’ondata di piena aveva di certo infranto senza sforzo la grande vetrina, schiacciando i pezzi contro le pareti.

    La mia bottega, la mia bottega, acqua, acqua. Queste parole mi rantolarono nella mente, orribili. Ho avvicinato il capo al davanzale, vi ho premuto la fronte, con un gemito. Le persone attorno a me hanno gridato, impaurite.

    Che fa, si butta! Stia attento! Ma che lei non c’ha la bottega d’arte, a Santa Croce? Ma la non sarà mica al piano terra? Magari in un seminterrato! Poverino! Poverino!

    Sono tornato dentro, ma solo per un secondo. Avevo bisogno di un po’ di teatralità per non sentirmi perduto e condividere la tragedia con qualcuno. Mi sono sporto alla finestra ed ho pianto, senza lacrime, ma con la voce. Ho guaito, contorcendo il volto e le donne hanno cominciato a vociare a bassa voce, come sanno far loro, per raccontarmi le disgrazie degli altri.

    Ma lo sa, fuori Firenze l’è una tragedia! Durante la notte il fiume deve aver tracimato nei paesi, la gente deve essersi rifugiata sui tetti! E come si comunica con quei disgraziati? Che quattro di novembre funesto, funesto! E Palazzo Vecchio? E la biblioteca nazionale? E gli zii? E il mio scantinato?

    Il canto dei pietosi cardellini continua così, per delle ore.

    Tristemente, passarono ore in cui mi dissi che mi ero salvato per merito della pigrizia. Ero rientrato a casa oresti, per accontentare il sonno, e le mie belle cose preziose erano perite senza di me.

    Perduto, tutto perduto. La disperazione mi assaliva a poco a poco.

    Immaginavo orde di vecchi avari che nuotavano e correvano attorno al Ponte Vecchio per recuperare i gioielli. Immaginavo i patrizi bagnati e lucidi che si attardano di fronte alla casseforti per far sortire la combinazione e portare in salvo i preziosi, mentre la voce della moglie trascinata via dai vicini si fa sempre più lontana. L’immagine del grasso borghese che lascia cadere i gioielli sulle scarpe nel momento in cui dalla porta entra l’ondata, che lo sbatte all’interno della cassaforte e ne fa la sua tomba era proiettata su tutte le pareti di casa mia, come in un cinema d’ombre. La notte seguente e quella dopo ancora sono state notti così, da barricati.

    Nessuno ci crederà, a queste notti di Firenze veneziana.

    Nessuno ci crederà, penseranno che si tratti di una barzelletta inventata da un manipolo di ubriachi che si sono tuffati in Arno. Nessuno crederà ed i libri marciranno nel fango, le statue si tingeranno di nero e alghe… chi bacerà più quelle labbra e quelle natiche di pietra, dopo che saranno così abbarbicate d’edera acquatica?

    Questa è stata la prima sera dell’uscita, fuori da casa, per le strade di Firenze.

    Mi sono allontanato molto, con la voglia di fuggire. Fuggire, sì, ma dove? Tutta la terra è pregna d’acqua, partorisce fango, squarcia strade. Non c’è via di fuga, non c’è nemmeno più la porta di quella mia bottega. Guardo intorno ed è tutto bagnato, tutto marcio, pronto a sciogliersi.

    Quando i fiorentini capiranno che non arriverà nessuno, che non possiamo chiamare nessuno, allora sarà irreparabile. Le nostre case non sono abbastanza grandi per accogliere tutta quell’acqua. La farsa continuerà ancora per poco, me lo sento.

    Poi avranno voglia di andare a scavare, tirare fuori le cose dal fango. Quando si accorgeranno che il fango ha rovinato ogni cosa, allora si estingueranno.

    Ancora questi pensieri mi danno la nausea. Sono uscito in preda alla furia e alla paura e la mia uscita è stata benedetta con la preoccupazione di tutti i vicini. Un paio di signore mi hanno invitato da loro quando hanno visto che correvo via. Sono stato designato come il suicida, l’individuo instabile, distrutto da questa tragedia. Vivo da solo, non c’è la mamma, né una donna, le comari mi vedono come spacciato. In pochi giorni siamo diventati una comunità apprensiva, il mezzo di comunicazione sono le pareti ed i pavimenti, le notizie risalgono il filo del lampadario e spuntano sotto alla tavola del piano di sopra.

    Dopo aver camminato molto, attorno alla bottega, soltanto immaginandola, mi sono ritrovato di fronte ad una bettola. Sono entrato, senza sapere se fosse aperta o se il padrone avesse dimenticato di chiudere l’uscio, nella fretta. Lui era lì, mi ha accolto e mi ha servito il vino. Ho bevuto. Ho chiacchierato con l’oste ed ho concluso dicendo:

    Così mi ritrovo qui da solo a bere, in questa bottega.

    E lui mi ha indicato Lei. Una signora sola a bere in un’osteria. Un caso molto particolare. E ora, è soddisfatta? Cosa le pare del mio racconto?

    Molto teatrale. Ma lei è sempre così teatrale?

    No. Soltanto in occasioni particolari. Sono un gran ruffiano. So che in questo paese viene considerato soltanto chi alza la voce, chi fa la lacrimuccia. In questi due giorni, sono diventato un grande attore. Sento un bel buco, qui dentro il cuore. Ho voglia di andare alla bottega e scavare, così, con le mani e le braccia, ma ho paura.

    Di cosa?

    Sarò da solo.

    Perché ne è così certo? Io credo invece che giungeranno in molti per salvare il salvabile. Lei continua a sostenere che nessuno crederà a questa tragedia. Sembra inoltre convinto di non poter uscire da Firenze, non poter scappare. Non capisco questo suo atteggiamento. Lei è giovane, appoggiato da molte persone, compresi i suoi vicini che spontaneamente si sono preoccupati per lei, eppure sembra convinto che a partire dalla prossima settimana i suoi concittadini si estingueranno.

    Non è forse stato così a Pompei?

    Sì, sì, ma a Pompei non avevano la televisione, la radio, il giornale. Verranno dall’estero, vedrà. Le cose sono cambiate. Siamo nel 1966! Ancora non capisco questa sua storia del buco. La prego, non mi prenda per un’insensibile. Se non ha voglia di parlarmene, finiamola qui.

    Perché vuole capire come mi sento?

    Perché amo i racconti. Vorrei vivere in un mondo dove tutti raccontano, mentre vivono.

    Ma lei è una scrittrice?

    Sì.

    Allora si capisce. Non mi affretti, sono un po’ alticcio, ma potrei accontentarla, se ci provo, e confidarle quello che ho dentro alla mente ed al cuore. Vede quella grande foto laggiù, appesa alla parete? Ecco a guardare quella foto mi viene da pensare: chi me lo fa fare di rimanere a Firenze, ora. Vorrei proprio che si alzasse un’altra onda, o un forte vento, e mi trasportasse là, proprio là!

    Non posso vederla da qua. Me la descriva.

    Si tratta di un paesaggio di un paese molto lontano. Chissà, potrebbe trattarsi del Perù o dell’India.

    Le montagne sono altissime e nebbiose. Le nuvole sembrano dipinte ed inghiottono i sentieri. Non si distinguono ponti a collegare le vette, che si stagliano l’una accanto all’altra, insensibili ai cambiamenti. L’erba è un tappeto uniforme. Forse si tratta di neve, deve trattarsi di neve. Tra le montagne c’è una gola scura, la cui forma mi ricorda una donna. Le ripide scoscese la abbracciano come un vestito, un corpetto vittoriano.

    Buonasera.

    Buonasera. Ma perché mi ha salutato? Vuole andarsene? Sono stato troppo stupido?

    No. La saluto perché è come se lei si fosse appena presentato. Ha detto qualcosa che la raffigura come una persona completamente diversa rispetto a ciò che ha descritto fin’ora.

    Lei è proprio strana, signora. Inoltre si deve annoiare davvero molto, se trova così interessante farmi un’intervista. Nessuno di noi due dovrebbe trovarsi qui, in questa osteria. Lei cosa ci fa qui?

    Oggi dovevo presentare un libro, il mio ultimo libro.

    Mi dispiace. Anche lei è presa dalla sventura dell’alluvione. Di cosa parla questo libro?

    Nella mia vita ho scritto libri per bambini e per ragazzi, di tutti i generi, romanzi d’avventura, illustrati, fantascienza, favole. Quest’ultimo è diverso. Si tratta di una storia sulla Shoah. Ho scelto di raccontare la storia di mio cugino. Stamattina mi sono alzata ed ho ricevuto un telegramma, la notizia di una morte. Si tratta della moglie di mio cugino. Era una donna molto forte ma il suo corpo era così debole. Anche lei è un personaggio, nel mio libro.

    Ho aperto la finestra e sotto il mio albergo la strada era invasa dall’acqua. È passato un uomo a nuoto. Avevo ancora il telegramma tra le mani. Sono tornata dentro e ho chiuso tutto perché avevo timore che il biglietto volasse via.

    Sa, la capisco. Lei doveva essere molto attaccata a suo cugino e a sua moglie per averli posti nel suo libro. È come se questa alluvione fosse stata foriera di questa separazione, tra lei e la sua parente.

    La stessa cosa vale per me: la mia bottega è la creazione di mio padre e di mio nonno. Senza di loro, senza il loro lavoro e la loro ispirazione, io sarei nulla, un niente di fatto. Loro mi hanno fatto. Oggi, quando ho visto la bottega distrutta, mi sono sentito separato da loro. Tutte le nostre cose erano sfatte, mentre io ero ancora lì. Mi sono sentito orfano ed impoverito. Come se loro e la loro protezione se ne fosse andata per sempre, portata via dalla piena, dal fango puzzolente.

    Non sono certa che i suoi cari desiderassero che lei si sentisse così. Un uomo è pur sempre un uomo, anche senza la bottega. Senza il suo violino, un musicista è pur sempre un musicista. Eppure, senza un sogno un uomo non è più un sognatore. La cosa più importante non è possedere botteghe, o strumenti: l’importante è avere un sogno.

    Bella filosofia. Lo so anche io che ci sono uomini con grandi orizzonti. Lei è una scrittrice, magari famosa, sicuramente è una di quelle persone. Io sono uno che deve continuare a fare quello che ama.

    Anche io la pensavo così. Credevo che l’anima potesse morire, privata del suo sostentamento, di ciò che facciamo fruire per provare piacere. Ma ho capito che l’unico strumento fondamentale per riuscirci è la vita. E per conservare la vita è necessario credere che i mezzi materiali sono secondari. Il sogno, l’idea sopravvive se pensata. Ed il sogno e l’idea fanno sopravvivere l’uomo. Lei è giovane, non interpreta ciò che vive. Un giorno si troverà a riflettere e si accorgerà di cosa le hanno lasciato i suoi cari.

    Sono giovane, sono giovane. Tutti sembrano non notare altro.

    Lei è un tipico giovane, Mattia, con le tipiche reazioni da giovane. Quando nel ‘49 sono arrivata a Parigi per studiare, tutti non facevano altro che dirmi che ero giovane e sospirare.

    Mi infastidivano enormemente e sospettavo che quei sospiri celassero la loro curiosità perché ero una straniera. Un’ebrea polacca di diciotto anni a Parigi, nel ‘49 aveva dell’incredibile.

    Lei è polacca?

    Sì. Sono nata a Varsavia e dopo la guerra mi sono trasferita a Parigi.

    E come fu possibile per lei giungere fin là?

    Grazie alla donazione di un lontano parente che viveva negli Stati Uniti. Era un uomo di famiglia e d’impresa che per vent’anni non aveva dato notizie alla sua famiglia. Dopo la guerra, fu preso da una sorta di ossessione e tirò fuori un vecchio cimelio, un quadernino contenente alcuni indirizzi. Li aveva fatti scrivere ai suoi parenti prima di partire ma poi lo aveva aperto soltanto in occasione di una ricorrenza, un anniversario, per poi dimenticarsene. Dopo la guerra capì che quel quaderno era l’unica testimonianza rimasta della vita da cui era venuto e ciò lo rese quasi invasato e spedì lettere a destra e a manca, ad ognuno degli indirizzi che vi erano scritti.

    Ricevetti la sua lettera circa un anno dopo la data che era annotata sulla prima riga e gli risposi brevemente, firmandomi Klara Kalovi recte Weingrod - questo è il mio nome. Gli scrissi anche i nomi di mio nonno, mio padre e mio cugino, nel caso lui li ricordasse. Il resto che vi scrissi era vago ed esitante, lasciava sospesa una sorta di diffidente aspettativa nel commiato scritto in quattro parole.

    Il parente americano si ricordava di mio nonno e preso dall’entusiasmo mi scrisse una lettera fitta di domande, che coronò con la richiesta, travestita da proposta, che raggiungessi lui e la sua famiglia in America, ma io rifiutai.

    Allora cercai immaginare quell’uomo, del quale conoscevo soltanto la calligrafia: nella mia fantasia assomigliava a mio padre, come se fosse possibile che le sembianze perdute di lui fossero state trasportate lontano. Lo immaginai mentre piangeva e bagnava di lacrime gli occhiali, la punta del naso, la carta da lettera, il tavolo, i pantaloni, le persone che erano accorse al suono dei suoi singhiozzi.

    Mio padre era così: quando era scosso da un’emozione piangeva copiosamente.

    Malgrado le lacrime, il lontano parente continuò a scrivermi. Concludeva le sue lettere rimarcando – si trattava della prima persona che me lo diceva – che ero davvero giovane. Allora rileggevo quella parola molte volte: in quel termine lo zio aveva concentrato tutta l’enfasi del suo stupore. In una delle lettere seguenti lui chiese che cosa mi sarebbe piaciuto fare, in Europa.

    Risposi che sognavo di studiare canto a Parigi.

    Non riesci ad immaginare il vecchio ebreo, che custodisce ed elargisce ai nipoti d’oltre oceano i dolci ricordi di una sinagoga in cui le donne e gli uomini cantano divinamente, che piange

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