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Una buona matrigna
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E-book393 pagine5 ore

Una buona matrigna

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Info su questo ebook

La moglie perfetta. Una famiglia da favola. Non tutto però è come sembra...

Quando Jeanie incontra Matthew, crede che sia davvero l'uomo giusto e nel giro di pochi mesi lo sposa pur consapevole dei problemi che li attendono. Perché entrambi hanno figli da una precedente relazione e unire le due famiglie non sarà affatto semplice. Ma per Jeanie è l'occasione di essere finalmente felice. Così non si arrende quando la figliastra adolescente, Scarlett, la tratta con aperta ostilità. Il suo sogno di una perfetta armonia domestica si incrina definitivamente quando in casa iniziano a verificarsi inspiegabili eventi, che la portano sull'orlo della follia. E allora si rende conto che quella che sembrava una favola si è trasformata in un incubo dove non ci sarà alcun lieto fine.
LinguaItaliano
Data di uscita8 gen 2021
ISBN9788830525955
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    Anteprima del libro

    Una buona matrigna - Claire Seeber

    Vero?

    Marlena

    Ma non è questa la storia, non è vero?

    Non è così che deve andare la storia, per nessuna delle due.

    Il respiro mi esce a singhiozzo mentre scendo di corsa dal treno e percorro il binario, poi salgo in fretta le scale del ponte sopraelevato passando oltre le persone che si dirigono placide verso la loro meta, viaggiatori che distolgono lo sguardo come se fossi una squilibrata.

    E in effetti sono un po’ squilibrata, nella mia disperazione.

    Scendo dall’altra parte e passo la barriera a fatica, catapultata in questa città sconosciuta.

    Dove diavolo sono i taxi?

    M’infilo nel primo taxi giallo che vedo, e mentre esce dalla città prego per tutto il tempo. Procede lentamente. A passo di lumaca, attraverso la campagna.

    È una tortura...

    Da dove viene poi tutto questo verde? Io odio la campagna.

    E il taxi va, attraversando i campi e poi il paesino, e i suoi frutteti, e si arrampica su per la collina. È il viaggio più lungo che io abbia mai fatto in auto. Sono in macchina da un’eternità, o almeno così mi sembra mentre il taxi va... va...

    E io non smetto di pregare che sia solo un sogno.

    Non riesco a respirare in modo fluido; il fiato mi si strozza in gola. Non posso crederci. No, non posso. Non ci credo. Non ci riesco.

    Quando arrivo, loro ancora non sanno darmi una risposta e allora faccio una cosa che non ho mai fatto: rovescio il viso verso l’alto e urlo al cielo, a Dio, al mondo intero. Ho sempre tenuto dentro tutta la paura e la rabbia, ma ora le sfogo con un grido.

    E non sfiora neppure i margini; neanche da lontano, neppure un pochino.

    Più tardi, quando le cose mi saranno più chiare, giuro che dipanerò questa sordida matassa aggrovigliata e scoprirò la verità. Oh, sì che lo farò. Non possono nascondersi da me, no, no.

    Non esiste un posto in cui il male possa andare a nascondersi.

    Jeanie

    28 novembre 2014

    La vecchia casa è come un organismo vivente. È la sensazione che ho avuto la prima volta che vi ho messo piede, come se la costruzione fosse un essere senziente e addirittura esalasse sommessamente il respiro dalle fessure tra i mattoni. E ora, mentre mi trovo davanti al portone con le vecchie serrature robuste di cui ho in mano le chiavi per la prima volta, stento a credere che sia casa mia.

    Di mattoni grigi, tozza e squadrata, con le finestre divise da una colonnina centrale, è stata costruita in epoca elisabettiana, almeno per quanto riguarda il corpo centrale, a cui poi sono state fatte aggiunte nel corso dei secoli: un nuovo vialetto d’accesso curvo, una cancellata in ferro battuto per tenere saldamente lontani gli estranei. Benché modernizzata, la casa trasuda vecchiaia dalle pareti. Rovi rampicanti avvolgono i davanzali e si avviticchiano su per i vecchi muri di mattoni. Il portone di legno massiccio è contornato da rose rosse e bianche. Un’unica torretta a punta, da un lato, si protende disperatamente verso il cielo che si va scurendo, con densi nuvoloni che si rincorrono passando sopra una falce di luna.

    Non dimenticherò mai la prima volta in cui vi ho posato lo sguardo, e ricordo molto bene il primo passo con cui ho nervosamente varcato la soglia, seguendo Matthew. Com’ero intimidita, con il cuore in gola.

    Ora invece, a quanto sembra, sono a casa.

    Ieri pomeriggio, all’agenzia immobiliare stretta tra la vecchia sala giochi e il chiosco di fish and chips all’angolo del lungomare, ho staccato il logoro portachiavi del segno della Vergine – che mi aveva regalato a Natale Frank, tutto fiero, quando aveva dieci anni – e restituito le chiavi della mia casa di Marine Buildings numero 9, quasi con un nodo in gola. Quasi, ma non proprio.

    Malgrado l’agitazione per quello che mi attendeva, non posso sostenere di essere stata del tutto dispiaciuta di dover dire addio per sempre allo squallido corridoio che puzzava di pipì di gatto, benché facessi del mio meglio per coprirlo con i profumatori d’ambiente e i potpourri. (L’anno scorso, nel disperato tentativo di mascherare l’odore della sua nuova ragazza, per poco Frank non aveva dato fuoco alla casa intera con i bastoncini d’incenso.)

    Di sicuro non avrei sentito la mancanza della chiazza di muffa a forma di orso polare sopra la finestra della camera, né della doccia con l’acqua che diventava invariabilmente gelata mentre mi lavavo i capelli. Però, malgrado tutti i difetti, da tanto tempo la consideravo casa mia. Ci eravamo abituati, io e Frankie.

    Sì, il secondo bagno era grande come una scatola di fiammiferi. Il balconcino non era certo chic, malgrado i valorosi forzi di abbellirlo con un po’ di verde e due sdraio a righe, ma la sua presenza mi permetteva di sedermi a contemplare il mare, a volte anche per ore, che passavano senza che me ne accorgessi – il mare che temevo e amavo in pari misura.

    Ma nel profondo del mio cuore ero già altrove. Chiusi la porta dell’appartamento con più fermezza di quanta ne provassi, e andai a bussare da Elsie. Non rispose però, e allora lasciai il mio tronchetto della felicità e lo spatifillo sul pianerottolo; non sapevo se era andata dalla nipote, o se per lei l’idea di dirci addio era dolorosa quanto per me.

    Ficcai in borsa il resto della posta che rimaneva – d’ora in avanti sarebbe stata inoltrata al nuovo indirizzo – e per l’ultima volta chiusi il portone alle mie spalle.

    La velocità con cui la mia vita stava cambiando mi sembrava surreale e sorprendente, ma stavolta in senso positivo. Stentavo a credere che fosse tutto vero.

    Dopo avere lasciato le chiavi all’agenzia immobiliare, mi diressi in macchina verso Shoreham per l’ultima notte che avrei trascorso sulla costa meridionale. Nel misero appartamentino di Judy al primo piano, brindammo a un nuovo inizio con un Sauvignon Blanc tiepido, sedute sotto una stampa dai bordi arricciati delle ninfee di qualche pittore francese. C’erano volute diverse frecciatine apparentemente scherzose, che in realtà non lo erano affatto, prima che capissi di averla turbata. Appeso nell’angusto ingresso, il mio abito da sposa era come il drappo rosso per un toro, evidentemente. Mi ero pentita di non averlo lasciato in macchina, ma avevo paura che fosse troppo allettante per i ladruncoli del quartiere.

    «Ottimo posto per rimorchiare, un matrimonio.» Judy si versò del vino nel bicchiere mezzo pieno, poi rimboccò il mio con la scolatura. «Se mi avessi invitata avrei potuto conoscere anch’io il mio Principe Azzurro.»

    «Ma non ci sarà nessun Principe Azzurro.» Coprii il bicchiere con la mano e il sedimento mi filtrò tra le dita. Sarebbero venuti solo Frankie e Marlena, naturalmente oltre ai gemelli. «Non c’è una festa o un rinfresco, Jude, davvero. Niente del genere.»

    Era vero. La cerimonia sarebbe stata intima, e molto contenuta. Soltanto i parenti stretti, che erano veramente pochi da entrambi i lati; erano i membri della famiglia allargata che avremmo creato unendoci. La mia immaginazione ci vedeva già come una moderna famiglia Brady, solo in formato molto ridotto.

    «Invece tu l’hai trovato, il tuo principe, eh? Speriamo che sia meglio dell’ultimo» biascicò Judy, tracannando il vino troppo in fretta. «Speriamo che almeno lui non venda una storia alla stampa, o che non abbia una moglie pazza chiusa in soffitta. Dio, te lo immagini?»

    «Non credo che sia il nostro caso.» Sentivo che il mio sorriso diventava sempre più tirato. In effetti Matthew aveva un’ex moglie, questo era vero. Ma non era né pazza né chiusa in soffitta, almeno per quello che ne sapevo.

    Quel quadrimestre avevo di nuovo Jane Eyre in programma per l’ultimo anno; ero la supplente di un’insegnante in maternità in una scuola superiore statale vicino a Stenning. Ce l’avevo fatta per un pelo perché il mio vecchio capo dipartimento ora era lì e, non sapendo come occupare il posto vacante all’ultimo minuto, si era impietosito e mi aveva assunto.

    No, non c’erano somiglianze tra la mia vita e la piccola ma impetuosa istitutrice. Nessun parallelo.

    Era decisamente ora di buttarmi sul divano letto sfondato prima che Judy cominciasse la sua tirata contro gli uomini che erano tutti bastardi e si attaccasse alla bottiglia di vino da dessert mezzo ammuffito che aveva tirato fuori da chissà dove. Era meglio non farle notare la mia fortuna, né ricordarle tutti i miei traumi passati che rendevano ancora più speciale e straordinaria quella nuova avventura.

    E decisamente era meglio evitare di pensare a quello che non avevo ancora detto a Matthew. Avrei potuto occuparmene dopo.

    Potevo farlo, no?

    Mi svegliai presto, tutta rigida e indolenzita per il divano letto malandato, e me la svignai da casa di Judy con fretta indecente, lasciandole un biglietto di ringraziamento, con un saporaccio amaro in bocca riguardo alla nostra amicizia.

    Non sono sicura che possa resistere allo spostamento. Già è in difficoltà dopo il mio improvviso allontanamento forzato dalla Seaborne dello scorso anno. Probabilmente ero soltanto grata a Judy perché non mi aveva voltato le spalle come molti altri colleghi. Diciamo solo che nessuno aveva fatto una colletta quando ero andata via.

    Francamente in quei mesi terribili accettavo le amicizie che mi capitavano. Judy mi si era aggrappata qualche anno prima alla Seaborne, dopo che mi aveva fatto impietosire il suo isolamento perché il personale non vedeva di buon occhio le sue opinioni politiche conservatrici. Dopo che ero andata via ci vedevamo ogni tanto per bere un sidro, ma sospettavo che fosse solo perché rivalutava la sua vita rispetto a me che ero caduta tanto in basso.

    Chiusi la porta alle mie spalle senza fare rumore.

    Fuori fui investita dall’aria umida e salmastra. Mi fermai per un istante ad assaporarla sul viso, ascoltando i gabbiani che emettevano versi acuti, come gattini. Il mare era alla fine della strada, e fui tentata di scendere in spiaggia per un ultimo colpo d’occhio; ma era nuvoloso e, guardando l’orologio, pensai: C’è un posto nuovo che mi attende. Il treno di Frankie sarebbe arrivato alle undici.

    Voltai le spalle al mare e salii in macchina; malgrado fossi decisa, mi parve un gesto definitivo.

    Imboccai la M23 con la colonna sonora di Janis Joplin e Joni Mitchell, e lo stomaco in subbuglio per l’agitazione. Però l’emozione era venata di tristezza, nonostante quello che era successo lì diciotto mesi prima. Brighton era stato il nostro rifugio per dodici anni, da quando Simon aveva inflitto la sua punizione. Mi sarebbe mancata tanto.

    Però era ora di mettere da parte quei pensieri; era ora di ricominciare da capo. Mi rammentai con fermezza che non a tutti è concessa una seconda occasione di essere felici, e alzai il volume sugli acuti di Janis.

    A Berkhamsted il treno di Frank era in ritardo, perciò mi sedetti fuori dalla stazione sorseggiando un caffè e contemplando quel posto nuovo in cui eravamo arrivati. Una cittadina tranquilla e ordinata rispetto alla distesa briosa della città della costa meridionale che scoppiava di bar gay e addii al nubilato, i vicoli vivaci del centro e i neon del luna park sul molo. Invece Berkhamsted non è in alcun modo moderna, anticonformista o sguaiata; è un piccolo centro di provincia per gente seria e rispettabile.

    Seduta in macchina, vedevo delle belle famigliole che scendevano dalle jeep e un gruppetto di facoltose coppie mature in beige che si dirigevano da Waitrose. Dall’altra parte della strada, mammine fighe entravano e uscivano dalle caffetterie con i loro Ugg e le pellicce finte, incollate agli smartphone. Era tutto così gradevole; lì in mezzo, io e mio figlio rischiavamo di essere un pugno in un occhio.

    In verità non volevo più essere al centro dell’attenzione; basta con i bisbigli e le risatine di scherno, le occhiate furtive dal marciapiede di fronte!

    D’altronde, che cosa significava stare bene? Per esperienza, bene di solito era tale solo in superficie, e celava le macerie sottostanti.

    L’arrivo di Frank interruppe le mie riflessioni. Non mi vide mentre usciva dalla stazione con la sua falcata svelta, in jeans aderenti e Converse sciupate, un vecchio parka che gli scendeva dalla spalle strette, mentre io lo guardavo con gioia.

    «Dio, quanto mi sei mancato!» Abbracciai forte mio figlio; mi sconvolgeva notare quanto era alto, ancora più alto di quando era partito per Hull tre mesi prima, spezzandomi il cuore perché lasciava il nido completamente vuoto; rimanevo solo io.

    «Non dirlo, mamma.» Sorrise.

    «Che cosa?»

    «Come sei grande!»

    Perciò rimasi zitta, e gli sorrisi. Però quel giorno mi tornò in mente un pensiero: avrei ceduto a Matthew con tanta prontezza se Frankie non fosse andato al nord con armi e bagagli?

    Si staccò dal mio abbraccio e, quando tirò su meglio lo zaino, notai un nuovo tatuaggio che spuntava dalla manica del parka. «L’inchiostro è ancora fresco?» lo presi in giro, e lui mi scompigliò i capelli.

    «Sì, più o meno.»

    In macchina mi raccontò dei suoi nuovi amici, dell’università, e infine mi rivelò che non era sicuro di avere scelto il corso giusto. «Stavo pensando di passare a produzione musicale» annunciò. «Lo sento più mio.»

    Malgrado il suo chiacchiericcio, avvertii una stretta allo stomaco man mano che ci avvicinavamo a Malum House. Non vedevo l’ora di portare Frankie nella sua nuova casa. Era allettante la prospettiva di dargli qualcosa che non avevamo mai neppure osato sognare, ma improvvisamente ero terrorizzata.

    E se non fossero andati d’accordo?

    Certo, era andato tutto bene durante le poche volte in cui Matthew era venuto a Brighton. Non c’erano problemi tra loro, era vero. Chiacchieravano di calcio e un po’ di musica, anche se avevano gusti molto diversi. Ma se...

    Matthew spalancò la porta ancora prima che suonassi, e subito mi placò i nervi, tutto sorridente, con i capelli scuri ancora umidi e i vecchi jeans stinti. Sapevo che ci aspettava con il caffè appena fatto e le brioche nella grande cucina bianca. Ci fece accomodare; mi salutò con un bacio e diede a Frankie una gioviale pacca sulla spalla. Era evidente che voleva farci sentire a casa.

    «Benvenuti a Malum House» disse puntandomi addosso i suoi occhi nocciola che mi provocarono un tuffo al cuore, e stavolta per l’emozione.

    «Carina.» Frank andò verso la portafinestra con la tazza in mano. «Bella vista. Che cos’è Malum, in parole povere?»

    «Questa è stata costruita dove c’era il vecchio frutteto di Malum Farm, nel diciassettesimo secolo.»

    «Ah, molto antica, allora.» Frankie annuì pensoso.

    Matthew sorrise. «Malum è mela in latino.»

    «Ah, capisco.» Poi Frank sorrise e ammise: «Non ho mai fatto latino a scuola, mi è bastato un anno di spagnolo».

    «Poche persone hanno studiato latino a scuola» osservò Matthew, magnanimo.

    Mentre Frank era in bagno, Matthew mi attirò a sé e mi baciò con ardore. Quando mi staccai per riprendere fiato, ero stranamente invasa dal pudore e affondai il viso contro il collo del suo maglione di cashmere. Matthew mi strinse forte nel suo abbraccio.

    «Sono qui davvero! Non posso crederci» bisbigliai. «Mi sembra un sogno.»

    «Io invece ci credo» mormorò lui con le labbra tra i miei capelli, «e grazie a Dio di qui non ti muovi.»

    «Davvero?» Dovetti quasi darmi un pizzicotto. Nessuno uomo mi aveva mai fatto sentire così, nemmeno...

    Nemmeno il demone che ancora mi ossessionava.

    «Davvero, gioia mia.» Matthew mi baciò la sommità del capo. «Sei così buona, Jeanie. Sarai la mia salvezza, lo so.»

    Per il momento mi crogiolavo in quella beatitudine, mi concedevo di assaporare quell’insolita sensazione di benessere. Avrei potuto abituarmici ma sapevo che, per quanto fossi ottimista, forse non avrei potuto mantenerla. Ma perché pensarci proprio allora?

    Quando Frankie tornò nella stanza, tutto dinoccolato, e inghiottì una brioche praticamente intera, Matthew si staccò da me e propose di fare il giro della villa. «Dovremmo far vedere a Frank la sua nuova casa, eh, Jeanie?»

    «Okay.» Frankie guardò un’altra brioche con gli occhi della tentazione, ma io lo spinsi delicatamente verso lo zaino.

    «Vuoi vedere la tua stanza?» gli chiesi.

    «Ti ho assegnato la camera in fondo al primo piano. Si affaccia su questo...» Matthew indicò con un gesto il prato che si estendeva fino al bosco dall’altro lato del muro di cinta. Impossibile da scavalcare.

    Una fitta acuta mi colse di sorpresa. Era come se avessi un peso sul petto. Su, Jeanie! Erano passate meno di due ore; non potevo già smaniare per rivedere la vastità sconfinata del mare! O sì?

    Cristo santo, non mandare tutto all’aria stavolta!, mi ammoniva la voce di Marlena all’orecchio. È la tua grande occasione.

    «Ci sto.» Frank si tirò meglio su i jeans mentre guardavamo Matthew che apriva la porta segreta della cucina con un gesto teatrale, come per sfoderare la scala a chiocciola che vi era celata.

    «Durante la guerra civile i Cavalieri nascondevano qui i loro alleati» spiegò precedendoci. «L’ho salvata dal tremendo architetto di Kaye quando abbiamo fatto le aggiunte alla casa. Dietro c’è un rifugio segreto per i preti, che risale al regno di Elisabetta I, quando i cattolici erano perseguitati. L’avrebbero smantellato se fosse stato per lei.» Mi voltava le spalle, ma mi sembrava di vederlo alzare gli occhi al cielo. «Ora è messo a norma, perciò è sicuro.»

    «Che figata.» Frankie seguiva il futuro patrigno a grandi passi. «Si può entrare nel nascondiglio?»

    «No, il passaggio è stato murato, ma è dietro quella parete» gli spiegò Matthew mentre salivano e scomparivano in cima alla scala.

    Rimasta sola, mi soffermai nella penombra e feci scorrere la mano sul muro freddo e scabro, tratto in salvo dalle grinfie dell’esigente ex moglie che veniva nominata così di rado. Mi chiesi chi si fosse nascosto esattamente dietro quel muro di mattoni. A temere per la propria vita, ascoltando con terrore chi aveva invaso la casa. Ma erano i soldati di Elisabetta oppure le Teste Rotonde di Cromwell, che stavano per abbattere il nascondiglio?

    Il muro era gelido sotto le mie dita, e mi resi conto che stavo trattenendo il fiato, e tendevo l’orecchio per sentire qualcosa.

    Sarà anche sciocco, ma un paio di volte ma è parso di sentire delle voci a notte fonda. Sussurravano nei corridoi e sui pianerottoli, anche se ci siamo solo io e Matthew.

    Mi ha turbata, ed è strano, perché non percepisco la casa come ostile.

    Matthew mi tranquillizza sempre dicendo che qualche rumorino è perfettamente normale; sono gli scricchiolii e i cigolii del legno antico. Però non ne sono poi così sicura, e questo mi fa sentire terribilmente a disagio.

    Mi capita di avere come l’impressione che qui dentro ci sia qualcun altro. Ma è veramente troppo presto perché sia vero.

    O no?

    Circa un mese e mezzo fa dormivo sonoramente quando fui svegliata a notte fonda da un rumore indistinguibile. Quella notte i gemelli non si erano fermati a dormire. Erano venuti prima, durante la giornata, ed eravamo andati al cinema a vedere Il labirinto e li avevo riaccompagnati dalla madre dopocena.

    E poi, mentre ero sveglia, distesa sul letto al buio con il cuore in gola, sentii qualcosa che si moveva vicino a me. Era come un fruscio di stoffa contro il legno, una gonna, una sottoveste, una tenda, forse, abbastanza forte da farmi alzare a sedere di scatto sul letto.

    «Senti?» Strinsi il braccio di Matthew. «C’è qualcuno...»

    «È solo il vento» bofonchiò lui senza aprire gli occhi. «Mettiti giù, gioia, dormi.» Stese un braccio su di me con fare protettivo e si riaddormentò all’istante.

    Quella notte rimasi sveglia per almeno un’ora.

    E ora mi chiedo se non sentissi delle voci sulle scale, dietro quei freddi muri... Anche adesso?

    «Jeanie? Vieni?»

    Mio malgrado sussultai lievemente, poi salii per stupirmi insieme a Frank della sua nuova camera, corredata da un impianto stereo che andava al di là delle sue più fervide fantasie, con le casse attaccate al muro.

    «Ma è un Sonos!» esclamò compiaciuto. «Collegato all’impianto della casa? Dio, è fantastico!»

    Durante il tour ci fu solo un piccolissimo inconveniente, e forse era di nuovo solo la mia immaginazione, quello che Marlena definirebbe rimuginare e che io potrei etichettare come uno stato di ansia lieve. Frankie mi aveva preso per mano mentre salivamo gli scalini della torretta. Mentre Matthew girava in cima, con le sopracciglia appena aggrottate, scoccò un’occhiata verso la stretta di mio Frankie che mi arrivò come una freccia.

    Aveva diciotto anni, questo bisogna dirlo. Il fatto è che eravamo abituati a tenerci per mano, io e Frankie; però ora, forse, quell’abitudine doveva cambiare, e non era un male, considerato quello che avevamo passato negli ultimi anni. Frankie cresceva e si stava allontanando da me, ed era ora di aria nuova.

    Staccai la mano dalla sua e salii a passo svelto gli ultimi scalini per raggiungere Matthew nell’ambiente circolare.

    Era la camera da letto della figlia; una stanza molto femminile, tutta rosa e vezzosa. L’aria era permeata dalla fragranza dolciastra di rosa e vaniglia; pensai che proveniva dalle candele da due soldi sui davanzali. Evitai con cura di posare lo sguardo sulle fotografie di famiglia in bella mostra sul ripiano di una finestra, e guardai fuori dall’altra, in direzione della città.

    «Cavoli.» Frank aprì un infisso e si sporse. «È come il castello della Bella Addormentata o giù di lì. Meglio non farsi venire un attacco di vertigini quassù.»

    «Sta’ attento» dissi, senza riuscire a trattenermi.

    «Particolare, eh?» Matthew diede una pacca sulle spalle a Frank, sporgendosi dalla finestra anche lui per guardare il panorama con un pizzico di orgoglio. Ero contenta dell’approvazione che aveva dimostrato Frank ed ero certa che tra loro sarebbe andato tutto bene. Poteva addirittura segnare l’inizio di un legame. «È valsa la pena lavorare fino a tardi in ufficio.»

    I rampicanti strisciavano tutt’intorno alle finestre, ma le rose rosse non arrivavano fin lassù. Ferma alle loro spalle, mentre guardavo fuori dalla finestra, giù in strada, dove una figura correva verso i campi sulle Chiltern Hills, pensai che Matthew e Frank avevano ragione. Era proprio grandioso; il panorama era magnifico, a perdita d’occhio.

    Mentre contemplavo mio figlio e il mio uomo vicini, intenti a guardare fuori, Matthew si girò e mi sorrise – un sorriso pieno di qualcosa che non potevo interpretare altro che come amore e che mi provocò un palpito.

    O forse quel fremito era dovuto alla sagoma che avevo visto allontanarsi rapidamente lungo la strada?

    Mi girai verso Matthew.

    Il mio futuro sposo.

    A quell’ora, il sabato successivo, sarei stata la signora King.

    E quella la mia casa.

    Se sei mesi addietro, il giorno prima di conoscere Matthew alla tremenda festa in ufficio di Jill, mi avessero detto che sarei finita lì, l’avrei considerato il pronostico di un visionario. Avrei detto la stessa cosa la settimana dopo. Due settimane dopo.

    Ma adesso ero lì.

    In lontananza una motocicletta si mise in moto rombando, poi partì a tutta velocità.

    Marlena

    Volevo andare al matrimonio. Davvero.

    Eddai! Capita a tutti di perdere un’occasione importante per motivi di lavoro, no?

    Come?

    E va bene, non era esattamente per lavoro. Cioè, sì, ma era più... un’intuizione, e speravo che da lì si sarebbe concretizzato qualcosa di grosso, mentre emergevo a fatica dal pantano in cui mi ero trovata quattro anni prima. Dovevo riguadagnare parecchio terreno, e avevo anche tante scuse da fare e molto da dimostrare dal punto di vista giornalistico, ricominciare da capo.

    Le foto del matrimonio erano belle, sul serio. La sposa era uno splendore, era così bella la mia Jeanie! Ed era chiaro il motivo per cui, malgrado tutti i suoi soldi, la villa grandiosa e l’auto di lusso, Matthew si era innamorato proprio di lei.

    Era pura di cuore, la mia cara Jeanie. Non avrebbe fatto del male a una mosca. Veramente, non avrebbe detto di no a nessuno. Sarebbe sempre riuscita a essere gentile anche nei momenti difficili.

    Come aveva imparato a sue enormi spese.

    Ma ormai ha pagato per quello che ha fatto, no? Più di una volta.

    Aveva ricominciato a vivere una favola. Era il lieto fine che desiderava da quando il terribile tradimento di Simon l’aveva straziata. Dai tempi di zio Rog e quei beoni dei suoi amici pedofili allo Star & Garter in una traversa del corso di Peckham. Dai danni inflitti di conseguenza. Cristo santo.

    Ma teniamo questa storia per un’altra volta, eh? Altrimenti rovina tutto.

    Il lieto fine? Per come la vedo io, è solo quello che trovi nel salone massaggi di Old Kent Road. Non certo nella vita reale.

    Fissai la foto di nozze che mi aveva appena inviato per e-mail la mia sorella maggiore.

    Jeanie con l’abito bianco di velluto e il mantello con il cappuccio di pelliccia, e gli occhi sgranati e lucenti, pieni di speranza; Matthew elegante e sicuro di sé con un completo scuro indubbiamente costoso, che la guardava con un’espressione che sembrava decisamente affine all’amore. Non potrei metterlo in discussione, dopotutto non sono un’esperta in materia.

    Però quella foto aveva qualcosa che non mi convinceva, anche se non avrei saputo indicare che cosa fosse.

    Forse l’aria della figlia, un’adolescente che non avevo ancora conosciuto di persona e di cui mi sfuggiva il nome. Una cosetta magra e sinuosa nel suo abito viola lungo e aderente, con troppo eyeliner nero e gli stivali con la zeppa.

    O il paffuto fratello, non bello come la gemella, ma almeno con un sorriso benevolo.

    O l’allampanato Frank, che faceva un sorriso sghembo, con le lentiggini e un ciuffo di capelli arruffati, il completo preso in prestito e le vecchie Converse nere. Probabilmente, conoscendolo, moriva dalla voglia di rollarsene una.

    Guardai i gemelli, i ragazzi che Jeanie conosceva solo da qualche mese e che sembravano stentare ad aprirsi con lei, nonostante tutti i suoi sforzi. La ragazza la stava accettando, a detta di tutti. Il ragazzo invece era più sulle sue. Però non sembravano pronti ad accogliere una matrigna.

    Jeanie, il tesorino, aveva anche comprato un libro quando ci eravamo viste a Londra a settembre per pranzare insieme, anche se eravamo state interrotte quasi subito da una telefonata del mio nuovo direttore. (Di questi tempi non oso evitare di rispondere a una telefonata di lavoro.)

    Dopo avere chiuso la comunicazione avevo accompagnato mia sorella da Waterstones a Piccadilly, direttamente nella sezione dei libri di autoaiuto, e l’avevo vista

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