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Storia di un ristorante italiano in Cina
Storia di un ristorante italiano in Cina
Storia di un ristorante italiano in Cina
E-book209 pagine2 ore

Storia di un ristorante italiano in Cina

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Le tragicomiche avventure di un imprenditore italiano in Cina alle prese con l'apertura di un ristorante.

Dal disbrigo di tutte le formalità necessarie all'avvio dell'attività al ristorante in funzione, con il protagonista di volta in volta alle prese con burocrazia, corruzione, uffici di cui non si capiscono le mansioni, ditte e fornitori tutt'altro che irreprensibili e costumi spesso difficili da decifrare.

Un susseguirsi di situazioni surreali e una galleria di personaggi esilaranti nella Cina del grande cambiamento.

Indice

Prologo

Parte prima: I preparativi

Investire in Cina?; L’argent; La ditta fantasma… e le altre; Il diavolo cinese; La Cina che corre; Confuciani e taoisti; Lumanesimo! ; Gli ingegneri; Gli avvocati;

Notai e altri professionisti; Misteri del proletariato cinese; La festa nazionale; Moon Cake; Le peripezie del forno; Il cliente pollo; L’insegna; Secondo le leggi della Cina…; Il libero arbitrio dell’operaio cinese; Il made in China.

Parte seconda: L’attività

Il colore della rivoluzione; Lo Schumacher della pizza; Coscienza di classe; La triste parabola delle lasagne; JF; Dream team; L’inaugurazione; Amatriciana e musulmani; Lotta politica nel ristorante; I parvenu cinesi; La sindrome cinese;

La lista dei partenti; La marmitta mongola; Pollo-Chaplin; Cu di sceccu ò fa mulu…; Il direttore del ristorante; L’aventure c’est l’aventure; La vita privata di Gérard; La flessibilità della manodopera cinese; Il giro del mondo dentro al ristorante; Slow food; I lavori non finiscono mai; I turisti cinesi; Il Natale in Cina.

Epilogo
LinguaItaliano
Data di uscita13 giu 2013
ISBN9788890826900
Storia di un ristorante italiano in Cina

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    Anteprima del libro

    Storia di un ristorante italiano in Cina - Giovanni Messina

    dell’autore)

    Prologo

    Da dove mi sia venuta l’idea di aprire un ristorante non saprei dire. Mi diletto di cucina, è vero, ma non tutti quelli che hanno questo hobby aprono un ristorante. Men che mai chi come me per preparare per quattro persone si prende tutto il pomeriggio, e non è detto che si ceni in orario.

    Forse ho subito gli effetti deleteri dei giornali. Leggendo qua e là del nuovo ristorante di De Niro o di Coppola, ci si possono fare strane idee. Non ci si immagina che i titolari stiano dietro il banco ad accogliere i clienti, né che vadano al supermercato a fare la spesa la mattina; si vede l’hobby trasformarsi in operazione finanziaria, come una delle tante magie del mondo moderno, e la cosa non dispiace.

    Oppure sarà stato il desiderio di cambiare che ogni tanto ti prende, quello stesso desiderio che fa dire allo scultore Giacometti mentre viene portato all’ospedale subito dopo essere stato investito da una macchina: finalmente oggi succede qualcosa.

    Il solo dato certo è che io un lavoro l’avevo già e l’intenzione iniziale non era di trovarmene un altro che mi riempisse il resto della giornata e le vacanze, semmai quella di liberarmi del primo. Non appartengo alla categoria di quelli che non si separano mai dall’agenda, come se fosse il passepartout dell’esistenza.

    Quanto alla localizzazione, invece, il discorso è molto più semplice. Il caso ha voluto che mi trovassi a lavorare in questa sperduta città del nord della Cina, che nulla ha a che vedere con l’altra Cina, quella che si è rifatta il trucco per il vernissage olimpico, a lungo celebrata per il pil e i grandi numeri.

    Mi segue nell’impresa, fino a quando interessi superiori non se la porteranno via, un’interprete, una ragazza che conosco da diverso tempo. L’ho aiutata a scrivere la tesi di laurea, e adesso lei mi aiuta a districarmi tra i vari uffici, con la sola differenza che io la pago.

    Dispongo pure di una segretaria. Come tutti i giovani cinesi che entrano in contatto con gli occidentali, mi ha chiesto di darle un nome straniero, e io ho scelto per lei Rosalia. Studia italiano da due anni, anche se non sembra, dato che senza l’interprete non ci capiremmo. In compenso, si presenta bene, se non la si osserva troppo attentamente. È una ragazza meticolosa e ordinata. Anche troppo. La prima volta che è venuta a casa ha cominciato a lavorare ancor prima che glielo chiedessi, ordinando in tanti mucchietti le carte che stavano sparse sulla scrivania, con il risultato che per due giorni non sono più riuscito a trovare niente.

    Anno del Signore 2006. Si celebra l’amicizia tra Italia e Cina, un David sorride a un guerriero di terracotta, e ciò sembra agire positivamente sul mio umore, un po’ come il Poeta che s’accinge al suo viaggio col favore delle stelle.

    Parte prima: I preparativi

    Investire in Cina?

    Quanto possa rivelarsi felice l’idea di lavorare in Cina e, più nello specifico, quanto si sia rivelata tale per me, si capirà strada facendo. Riguardo all’aspetto più strettamente pratico, intanto, per l’apertura di un’attività commerciale nel paese non ci sono limitazioni di alcun tipo. Se ne possono aprire anche venti insieme e metterle una sopra l’altra. Nessuno fa una piega. Non c’è più bisogno di cercare partner locali, com’era necessario fino a un paio di anni fa, partner che non di rado si dileguavano dopo aver svuotato il conto corrente della società. Oggi l’aspirante investitore può agire in proprio. È vero che gli uffici interessati sono pur sempre una quindicina, ma per fortuna sono quasi tutti raggruppati nello stesso stabile, dove impazza una folla di cinesi forsennati alla ricerca dello sportello giusto in cui allocarsi e della strada che più veloce conduce alla ricchezza.

    Una volta costituita la società, ottenere la licenza sarà una pura formalità. Che si tratti di un ristorante, di un’industria farmaceutica o di qualsiasi altra cosa, l’unico requisito indispensabile è il capitale. Proprio quello di cui parlava Marx.

    Uno di questi uffici serve per la registrazione del nome della ditta. Fase piuttosto delicata. Sembra infatti che ci sia chi si apposta in questi uffici per carpire il nome dell’attività che si è in procinto di realizzare e registrarlo subito a proprio nome. In alcuni casi è proprio l’impiegato allo sportello a svolgere il lavoretto. Cosicché quando il malcapitato ritorna, anche se ha pensato di chiamare il suo locale La taverna della zia Rosa, trova che esiste già proprio in quella città un locale che si chiama La taverna della zia Rosa. Ma niente paura, il titolare è pronto a rivenderlo. Gli stranieri, manco a dirlo, sono il bersaglio preferito di questi liberi professionisti.

    All’ufficio n. 1, tornando al percorso intrapreso, in verità, oltre a darci la lista degli altri uffici, la dama assisa su uno sgabello ci consiglia di affidarci a una ditta privata.

    - Sta lì - aggiunge, indicando un banco poco lontano, l’unico intorno al quale non si vede nessuno, con due impiegati che beatamente sonnecchiano.

    - Il fatto è che ogni ufficio richiede il suo tempo - ci spiega. - Due, tre, quattro giorni, differenze non irrilevanti se moltiplicate per quindici. Loro invece sanno come muoversi e conoscono le persone giuste cui rivolgersi.

    Mi volto nuovamente a guardare i due addormentati.

    - Ma se vogliamo fare da soli qual è orientativamente il tempo previsto?

    - Non meno di quaranta giorni.

    Proviamo con la ditta.

    I due si destano e parlano all’unisono. Non solo mi dicono quello che faranno, e cioè occuparsi di tutti i dettagli della pratica, ma mi dicono pure ciò che dovrei fare io nel frattempo: starmene tranquillo a casa a riposare. Dev’essere da un po’ che non vedono clienti. Il motivo lo capisco quando chiedo quale sia la spesa per cotanto disturbo.

    - E per quanto tempo dovrei riposarmi?

    - Trenta giorni. Minimo.

    I cinesi dicono sempre minimo. Per onestà intellettuale, sicuramente. Dato che la durata massima delle cose in Cina rimane vaga, e in certi casi può anche essere mai.

    Da parte mia c’è l’entusiasmo, ma non c’è tutta questa fretta. E anche se fretta ci fosse, non sembrano questi i soggetti che se ne possano fare interpreti.

    Ci spostiamo quindi allo sportello n. 2 per dare inizio alla trafila. Qui però l’impiegata ci informa che per gli stranieri esiste una sorta di corsia preferenziale, un apposito ufficio investimenti al quale ci si può rivolgere. Lo sportello n. 2 è proprio accanto al n. 1, ma evidentemente diverse sono le mansioni.  

    Eccoci nella corsia preferenziale. Al ventesimo piano di un edificio che si può genericamente definire di stile neoeclettico, scuola di gran lunga imperante nel nebbioso panorama urbanistico cinese, e che consiste nel mettere insieme a come capita capita quanto l’architettura ha prodotto negli ultimi due millenni sulla faccia del pianeta.

    Ci accoglie una giovane con pantaloni attillati, in precario equilibrio su tacchi alti un palmo. Ci dice - Welcome! - e ci invita a prendere posto.

    I pubblici impiegati cinesi che parlano inglese conoscono le stesse parole che lo straniero appena arrivato conosce in cinese. Goodmorning, have a seat, please. Appena ci si accinge a intavolare la conversazione, ti lanciano lo stesso sguardo di chi si è sporto eccessivamente sull’orlo dell’abisso, e poi attaccano in cinese rivolgendosi all’interprete.

    La giovane ci informa che si occuperà lei della nostra pratica. Tutto ciò che dobbiamo fare è portarle una fotocopia del passaporto e firmare un modulo.

    - Thankyou for investingyourmoney in China - mi dice salutandomi.

    - Xiexie - dico io, grazie. Questa volta non vado oltre.

    Nella mezzoretta trascorsa nell’attesa dell’ascensore, poiché in questi smisurati palazzi, di ascensori non ce ne sono mai più di due, sono già con la mente alla fase successiva.

    Quando ritorniamo, dopo qualche giorno, della ragazza non c’è più traccia. Al suo posto troviamo un uomo di circa trent’anni, corpulento e molto rilassato, che ci invita ad accomodarci. Tiro fuori la fotocopia del passaporto e mi preparo a firmare. Ma il tipo non ha alcuna fretta di entrare in argomento. È più interessato a conoscere le ultime novità dall’Italia, soprattutto sul versante calcistico. È un grande tifoso di Totti, di Del Piero, del Milan... insomma, del calcio italiano.

    Dopo aver soddisfatto tutte le sue curiosità, veniamo al motivo della nostra visita. L’uomo ascolta, ora più distaccato. A questo punto io, Rosalia e l’interprete sobbalziamo alle improvvise grida di un bambino invisibile. Impieghiamo qualche secondo per raccapezzarci: è il cellulare del tizio che suona con la voce del figlio. Suppongo. E se non il figlio, sarà il cane.

    - Ci vuole anche la dichiarazione della banca straniera da dove arriveranno i soldi - dichiara l’uomo con una certa solennità dopo la lunga chiacchierata al telefono -, dichiarazione dalla quale risulti che la persona dispone della somma che ha deciso di investire.

    Avrebbero potuto dircelo l’altro ieri, penso. Chiedo se intanto possiamo lasciare i due fogli che tengo in mano in modo da dare avvio alla pratica, nell’attesa che da Hong Kong arrivi la certificazione della banca. Non si può. La documentazione dev’essere completa.

    Alla visita successiva si cambia ancora. A occuparsi di noi è ora una donna più avanti negli anni. Evidentemente hanno deciso di farmi conoscere l’organico al completo. Anche lei ha qualche curiosità da soddisfare circa il nostro paese. Sulla moda. In prima battuta mi chiede se hanno ammazzato Versace o Armani. Dove abiti Valentino però non sono in grado di dirlo.

    Finalmente viene al dunque. Non prima però di aver gettato un’occhiata di disprezzo ai fogli che ho posato sul tavolo. Si alza, apre un cassetto e ci mette davanti un fascicolo grosso come un volume della Treccani. Bisogna compilare tutto.

    La mia perplessità è comprensibile.

    - Non sono cose difficili - mi rassicura l’interprete.

    - È proprio tutto?

    - Va bene così, non c’è altro - risponde la donna, prima di tornare a porre qualche altra domanda sull’Italia.

    Quarto incontro.

    Dopo aver presentato tutti i documenti, la donna rimane un attimo pensosa. Contempla la copia del passaporto.

    - Manca la traduzione in cinese.

    - Certo che manca, nessuno ci ha detto di fare una traduzione in cinese.

    - Sì, ma ci vuole.

    Comincio ad avvertire un certo nervosismo. La tipa noncurante continua:

    - Manca anche la traduzione in cinese della dichiarazione della banca.

    - Per caso pensa che ci divertiamo a venire qui tutti i pomeriggi?!

    Mi avevano avvertito, ma adesso me ne rendo conto di persona. Arrabbiarsi in Cina è la cosa più inutile che si possa fare. Davanti al nervosismo dell’interlocutore, il cinese medio si irrigidisce e con faccia inespressiva guarda davanti a sé, come se cercasse di mimetizzarsi con il nulla.

    Nel caso concreto la signora non da alcuna risposta, e all’interprete che traduce il mio disappunto chiedendo perché non ce l’abbia detto la volta precedente, lei ripete, come se l’anima l’avesse abbandonata lasciandole una metallica voce di automa:

    - Manca la traduzione del passaporto e la traduzione del documento della banca.

    Più che tradurre, l’interprete mi fa capire che in questi casi a insistere è peggio.

    - È così.

    Davanti ai soprusi e alle angherie, il cinese non chiede perché, dice solo: ‹‹è così››. Un detto popolare, che spero di non verificare di persona, recita: Sopporta, sopporta, sopporta… e sopporta ancora. Poi ammazza.

    L’interprete suggerisce che possiamo andare adesso a fare la traduzione e tornare nel pomeriggio.

    Quinto e ultimo appuntamento.

    L’interprete è impegnata, quindi torno con Rosalia. Troviamo la porta chiusa.

    - È uscita un attimo - ci dicono i colleghi - potete lasciare i documenti dietro la porta.

    - Lasciare qui? - mi domanda intelligentemente Rosalia.

    - No, aspettiamo, perché se c’è qualcosa che non va, se ne parla tra un anno.

    L’attimo dura buona parte del pomeriggio. Finalmente la signora arriva. Ci fa accomodare. Guarda i fogli con la calma che si addice all’ufficio. Ha ancora qualcosa da notare. Sulla traduzione ci vuole il numero della carta d’identità del traduttore e il suo numero di cellulare.

    Aspetto con sangue freddo che la mia segretaria telefoni all’interprete e pazientemente trascriva i numeri.

    La pratica è infine istruita. Un bel malloppo di fogli. Altro che un modulo e una fotocopia.

    L’argent

    E ora i soldi. L’argent. Perché come recita un vecchio detto siculo, senza stola nun si cunfissa e senza soldi nun si canta missa.

    Per prima cosa bisogna fare arrivare i soldi nella città in cui si è scelto di mettere le tende. Requisito imprescindibile è che devono arrivare dall’estero. Trattandosi di un investitore straniero ciò si può anche comprendere, ma in Cina è fondamentale il come. Se per esempio il soggetto, previdente com’è, ha già provveduto a far arrivare il denaro sul conto appena aperto in loco, ha commesso un primo errore che potrebbe rivelarsi fatale per il prosieguo dell’impresa: i soldi devono arrivare nel modo e nei termini stabiliti. Uno potrebbe dire: pazienza, rispediamoli a Hong Kong e facciamoli tornare secondo le istruzioni ricevute. Nossignore, perché una volta entrati i soldi non possono uscire più dal paese, salvo perdersi in una giungla di uffici alla ricerca di un fantomatico permesso della cui esistenza molti nutrono ragionevoli dubbi.

       Scongiurato casualmente il primo errore bisogna evitarne un altro, meno grave, ma che comunque qualche fastidio può recare. I soldi devono corrispondere alla cifra che compare nella richiesta precedentemente presentata all’ufficio per gli investimenti stranieri. Corrispondere al centesimo, intendo. Se una volta deciso di investire, per esempio, 100 mila dollari, ne arrivano 99.998, si bloccherà tutto nell’attesa che arrivino gli altri due. Dall’estero, chiaramente.

    Nel mio caso, avendo fatto un cambio approssimativo dal conto in euro, sono arrivati 1600 dollari in più, che quindi hanno dovuto rifare la strada al contrario, decurtati di 15 dollari di spese. Meno male che l’eccedenza non era di 13 o 14 dollari, altrimenti chissà a quale astruso e irrisolvibile paradosso saremmo andati incontro.

    Una volta nel conto, i soldi vengono presi in custodia da un ufficio che ha il solo compito di tenerli in giacenza per una settimana. Tali, fortunatamente, sono i termini di legge fissati perché ci sia il via libera. Che infatti è arrivato puntualmente una settimana dopo. Oltre a non avere una funzione precisa, questo è anche l’ufficio, tra quelli che ho visto in vita mia, nel quale si organizzano con più frequenza corsi di aggiornamento. Una caratteristica di questi corsi è che vi partecipa tutto il personale. Un’altra è che si organizzano da un momento all’altro, come in un raptus di furia burocratica. Consapevole delle scarse probabilità di trovare qualcuno, l’investitore telefona un’ora prima di andare.

    - Può venire - gli viene risposto. Arriva. Si mette in fila. A un certo punto la fila si blocca.

    - Cos’è successo?

    - Niente, hanno chiuso, sono andati a fare un corso di aggiornamento.

    Il

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