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Il visitatore di case e altre storie
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Il visitatore di case e altre storie
E-book260 pagine3 ore

Il visitatore di case e altre storie

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Info su questo ebook

Raccolta di racconti
LinguaItaliano
Data di uscita15 mag 2015
ISBN9786050379730
Il visitatore di case e altre storie

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    Anteprima del libro

    Il visitatore di case e altre storie - Francesco Caruso

    vita

    Il visitatore di case

    Ecco, ora comincerà a consultarla con aria annoiata. Fingerà per un momento di interessarsi a qualcuna delle voci, poi ricomincerà a sfogliare le pagine, sempre più velocemente, e inizierà a scrollare la testa in segno di disapprovazione. Alla fine, contrita, se ne uscirà con la solita storiella del sì, è interessante, ma è una spesa che in questo periodo non mi sento di affrontare.

    Ed io lì, seduto sul salotto con le dita incrociate aspettando la sentenza e preparando le contromosse,le solite, il vestito buono ormai stropicciato dai troppi divani e una bastarda goccia di sudore ad imperlarmi la fronte: Certo che fa un caldo qua dentro, vero signora?

    A questa cosa le dico? Non ha figli che vanno a scuola e sembra di cultura medio-alta. Ha pure una libreria ben fornita, per quel che ho potuto notare. Che se ne dovrebbe fare di una enciclopedia universale in 18 volumi e 42 rate da 70 euro cadauna? Tra l’altro, passando per il corridoio ho intravisto pure un bel pc di ultima generazione, con tanto di schermo LCD.

    Mi sa tanto che a questa qui non dirò proprio niente per convincerla a cambiare opinione. Sono già le cinque del pomeriggio e questa casa elegante dei quartieri bene è la quindicesima della giornata che visito. Tra poco dovrebbe pure tornare il marito e per noi i mariti sono una iattura da evitare ad ogni costo. Agli uomini non frega niente delle enciclopedie, in genere sono le donne le più sensibili a questo tipo di acquisti. Per i mariti sono solo soldi buttati.

    Va bene signora, vedo dalla faccia che l’articolo non le interessa. Le lascio il mio recapito, casomai dovesse cambiare idea. Buonasera.

    Mi porge il volume con un’espressione di sorpresa sul viso. L’ho privata del piacere di espormi gentilmente, ma con fermezza, le ragioni del suo diniego. Dev’essere un’insegnante. Sono loro quelle fissate con le spiegazioni.

    Neppure si alza per accompagnarmi. Mi saluta con un cenno della testa mentre imbocco nuovamente il corridoio in direzione della porta d’ingresso.

    Fuori è già buio ed ha ripreso a piovere.

    Mi guardo attorno cercando invano una fermata d’autobus.

    E’ un quartiere relativamente nuovo quello dove mi trovo e non è ancora ben servito dai mezzi pubblici.

    Ho l’ombrello e decido di avviarmi a piedi, anche perché la pioggia non è poi così intensa. E’ , però, una fitta pioggerellina di fine ottobre, di quelle che ti penetrano dentro le ossa.

    Questo è il momento peggiore della giornata, quello del ritorno a casa. Quello di Lidia che apre la porta e mi guarda negli occhi con un’aria speranzosa e interrogativa: Com’è andata?

    Il solito.

    Il solito girovagare inutile di case, il solito decantare inutile di un prodotto che non interessa a nessuno, i soliti caffè, le solite facce annoiate dei possibili clienti, i soliti convenevoli, le solite scuse. Il solito fascio di moduli intonsi dentro la borsa accanto al solito volume di campionario: Del-Inn.

    Doveva essere un lavoro per pochi mesi, è diventata la dannazione della mia vita. Della mia e di quella della donna che ho sposato.

    Ho già percorso parecchi metri del grande viale che collega il centro al quartiere dell’ultima cliente. Stasera non mi va di tornare a casa. Non mi va di sentire Lidia sciorinare il suo consueto rosario di lamentele per le bollette non pagate, il ritardo nell’affitto, il latte artificiale da comprare a Roberta. Non mi va di leggerle in viso la certificazione del mio fallimento.

    Ho appena trent’anni, una laurea in scienze politiche che non è servita a niente e il futuro già dietro le spalle. Da studente sognavo di fare il giornalista, mi immaginavo a lavorare nella redazione di un grande quotidiano. Poi...Poi si sa come vanno queste cose: non hai i contatti giusti per intraprendere certe carriere e cominci a cercarti un lavoro purchessia. Poi ti sposi, pensando incoscientemente di commuovere la sorte con un anello al dito e una famiglia da mantenere. Poi arriva puntuale la sera che lei ti si accosta mentre guardi la tv, ti abbraccia teneramente e ti dice: Sai, forse a breve diventerai papà

    Te lo dice sicura di provocarti uno sconquasso di gioia e resta perplessa e delusa quando vede l’angoscia impadronirsi del tuo volto.

    Poi..poi tutto il resto. Quello che prima bastava a stento a mantenere due persone, non basta più. Lentamente, giorno dopo giorno, ti accorgi di non star meglio del mendicante seduto sul marciapiede di fronte casa tua, quello col bastardino pieno di zecche, un barbone bianco da eremita e un buffo colbacco di pelo sulla testa.

    Solo che tu sei un accattone in giacca e cravatta, odorante di dopobarba e con i capelli ben pettinati.

    Il momento peggiore della giornata è quando vado a letto, in quell’interludio infinito tra la veglia e il sonno. E’ un momento persino peggiore del risveglio del mattino. Me ne sto a braccia conserte fissando il soffitto della camera da letto, al buio, in un silenzio assoluto rotto soltanto dal ticchettio monocorde della sveglia sul comodino.

    Lì passo in rassegna tutti gli anni della mia breve vita e mi chiedo dove ho sbagliato. Mi chiedo perché mi ritrovo per le mani, dopo tanti sogni ad occhi aperti, un lavoro che non mi piace e le stesse ansie economiche di mio padre, lo stesso orizzonte senza luce delle sue stagioni di contabile malpagato di una ditta di import-export, finite sopra il ripiano di una scrivania in una giornata di primavera di dieci anni fa.

    Aspettando l’arrivo del primo torpore, mi volto a guardare Roberta che riposa beata nella culla. Fortunatamente non si sveglia quasi mai la notte, tranne per i pasti.

    Chi glielo spiega che qualcuno lassù ha sbagliato l’indirizzo del destinatario?

    Intanto sono già arrivato nel corso, quello del passeggio del sabato sera e dei negozi con le vetrine sfavillanti. Ma oggi è mercoledì, piove, fa un po’ di freddo e c’è poca gente in giro. Meglio così

    Mi fermo a guardare un rivendita di informatica. C’è una commessa carina che sta sistemando i nuovi arrivi in vetrina. Mi guarda e mi sorride, pensando magari che ho la faccia giusta del cliente di un posto del genere: giovane e vestito come un professionista di successo, uno di quelli che cambiano il notebook ogni 6 mesi. Per un attimo sono tentato di entrare e spiegarle che il mio patrimonio informatico si riduce ad un vecchio IMac dell’era glaciale, un dinosauro che ormai va avanti solo con i cazzotti sullo chassis del monitor, ma alla fine ci rinuncio.

    Sono ormai le sette e Lidia sicuramente si starà chiedendo che fine abbia fatto. Difficilmente torno a casa oltre quell’orario e se capita di ritardare l’avviso col telefonino. Stasera, invece, ho il cellulare spento e nessuna intenzione di riaccenderlo.

    Osservo i palazzi attorno e mi rendo conto di conoscerli quasi tutti. In tanti anni di infruttuoso girovagare, oramai sono poche le case che non ho visitato. Se avessero previsto una provvigione per ogni scampanellata, ogni stretta di mano e ogni seduta in soggiorno o in cucina, a quest’ora sarei straricco.

    Ecco cosa sono davvero, mi dico: un visitatore di case. Dovrei buttarmi nel settore immobiliare.

    Un vecchio rappresentante di commercio ormai in pensione anni addietro mi disse che per far bene quel mestiere bisogna essere dei grandi psicologi ed entrare in empatia col potenziale cliente:

    Perdi anche un’ora, due ore della tua giornata se è necessario, chiacchierando dei figli e dei problemi di salute della tua 'preda', ma non dargli mai l’impressione che tu sia venuto a violare il sacrario della sua casa soltanto per vendergli qualcosa.

    Forse una volta era così, ora non più. La gente sta chiusa dentro il carapace delle proprie solitudini e difficilmente si lascia andare a confidenze, anche innocue, sulla vita privata. C’è ormai un muro invisibile tra le persone che nessuna affabilità riesce a scalfire.

    Così io ho rinunziato da tempo a fare l’amabile e mi limito ad essere molto cortese e professionale. Tanto, anche buttarla sul simpatico sarebbe ugualmente inutile. Nell’era di internet e delle enciclopedie su dvd, non c’è prodotto più obsoleto del sapere confezionato in diciotto volumi di 500 pagine ciascuno.

    Piuttosto che di esseri umani, ho preferito così diventare psicologo dell’ambiente in cui vivono, mangiano, dormono e si riproducono.

    Lo so, mi serve a poco tutto questo decifrare i segni delle cose inerti degli altri, ma ormai è diventata un’esegesi spontanea, un esercizio mentale al quale non riesco a sottrarmi.

    Finalmente sono giunto al ponte sul fiume. Dall’altra parte inizia la via che conduce al mio appartamento. Ho sempre evitato di attraversarlo a piedi, per togliermi dalla testa certe paturnie. In genere ci passo con i mezzi pubblici e sempre con la faccia rivolta verso l’interno del veicolo, per non vedere lo scorrere violento di quell’acqua cinerea trenta metri più sotto.

    Ora sono fermo a metà del percorso e guardo il vuoto sotto di me. Chiudo l’ombrello e mi lascio inzuppare dalla pioggia sempre più intensa.

    Mi dico E’ un attimo, che ci vuole?

    All’improvviso vedo passare velocemente qualcosa, trascinato dalla corrente vorticosa. Sembra un oggetto di plastica, forse un bambolotto perso da un bambino o gettato via.

    Lo seguo mentre si allontana sempre più, affiorando e scomparendo continuamente nell’acqua in movimento, come un corpo che annega. Quanto c’è della nostra vita nelle cose che perdiamo o buttiamo? In un paio di scarpe vecchie, in una borsa di pelle consunta dal tempo, in un giocattolo, in una camicia dal colletto liso, in una macchina. Sono oggetti che hanno condiviso con noi giorni e giorni della nostra esistenza: ci hanno nutrito, ci hanno vestito, ci hanno divertito, ci hanno aiutato nel lavoro. Poi un bel giorno decidiamo che non ci servono più, che non meritano più di ricordarci i frammenti di vita custoditi dentro di essi. Liberandoci della loro presenza, ci liberiamo inconsapevolmente anche di una parte di noi stessi.

    Sento improvvisamente una profonda eucaristia con tutto quello di mio che ho perduto lungo i sentieri dell’ esistenza, dal maglione preferito dei diciotto anni al televisore in bianco e nero che troneggiava nel salotto dei miei genitori, e comincio a farne l’ inventario. Ma ogni volta devo ricominciare daccapo, perché riaffiora il ricordo di qualcosa che ho tralasciato e che appartiene ad una fase o a una fascia d’età che pensavo già di aver catalogato.

    Quasi meccanicamente, riapro l’ombrello e ricomincio ad attraversare il ponte.

    Sono ormai arrivato praticamente sotto casa, vedo già le luci accese della cucina e immagino Linda impegnata a dar la pappa a Roberta, un occhio ai fornelli ed uno preoccupato all’orologio.

    Prima del portone, passo accanto al vecchio mendicante e lo saluto. Howard è inglese ed è parte ormai del paesaggio della strada, al pari dei lampioni, dell’edicola all’angolo e delle buche sull’asfalto. Nessuno nel quartiere conosce la sua storia, ma ci siamo abituati a lui e lo rispettiamo. Sappiamo solo che si chiama Howard.

    Spunta qui puntuale alle sette di ogni mattina e puntuale se ne va verso le nove di sera, per andare a dormire chissà dove. Talvolta sembra venuto fuori dal nulla, perché neppure i negozianti più anziani ricordano quando ha deciso di scegliere i nostri marciapiedi per questuare.

    Gli lancio una moneta dentro il colbacco aperto e intanto cerco le chiavi di casa dentro la borsa. Di solito Howard si mette sul lato opposto della strada, ma non disdegna neppure quello che fiancheggia il palazzo dove abito, come stasera.

    All’improvviso, sento che mi tira per la giacca. Mi giro e gli lancio uno sguardo affettuoso ma interrogativo. Non mi aveva mai fermato prima d’ora: sempre good morning , good night e thank you so much quando gli lascio qualche spicciolo. Ha un’età indefinibile, tra i cinquanta e i settanta, e non sorride mai, neppure con gli occhi.

    Stasera, però, noto che mi fissa con una luce di felicità sul viso.

    Mi chiede a gesti di avvicinarmi a lui ed io lo faccio, vincendo l’inevitabile ribrezzo di accostarmi ad una pelle che non conosce il sapone da settimane.

    Mi indica il suo borsone di plastica, da cui non si separa mai. Lo apre e ne tira fuori un paio di volumi della mia enciclopedia: Fire...fire against the cold. Paper extremely good. Thank you, mister

    Mormoro un paio di ok e gli batto una mano aperta sulla spalla. Lui lo sa bene che non gliel’ho date io quelle copie, che probabilmente sono gli scarti del recente trasloco di una famiglia di un altro condominio, ma siccome sa anche che io la sua fonte di riscaldamento invernale la vendo, ha pensato fosse corretto ringraziare pure me.

    Giusto così, mi dico. Perlomeno, ora so di svolgere una funzione sociale.

    Turno di notte

    Eccoci qua, via Marconi. Via Marconi, Viale Palestro, Via Pirandello, Piazza Unità d’Italia, Lungomare Cairoli e Viale 4 Novembre. Oggi si va nei quartieri alti, Salvato’, tra i gran signori. Dovevano darci lo smoking, stasera.

    Salvatore è l’autista. Ha 60 anni, un solo rene, una figlia all’università e un altro su una sedia a rotelle. La moglie due anni fa s’è scocciata di vederselo tutti i giorni dentro al letto e se n’è andata. Nel senso che è morta, poveraccia. Va in pensione tra sei mesi. Salvato’, voglio dire.

    Fermati, Salvato’, fermati. Guarda quanti bei cassonetti ci sono qui. Guarda quanta bella monnezza da signori, monnezza col pedigree. Eh, noblesse oblige... Tutta roba di marca, Salvato’: la migliore pasta, il migliore vino, il burro più costoso. Mancano solo le scatolette di tonno col filino di perle tutt’attorno.

    Non parla mai, Salvato’. Ciao e ciao. All’arrivo e alla partenza. Sono 10 anni che lavoriamo assieme e tutto quello che so di lui me l’hanno raccontato gli altri colleghi. Non parla nemmeno al bar: si piglia il suo caffè senza zucchero, saluta il barista e se ne va. Salvato’, ma tu che ne pensi?. Ogni tanto gli si chiede un parere, che volete. Non sta normale uno che non dice mai niente. Ma lui zitto, fa una smorfia con la faccia, per farci capire che non ha un pensiero sulla cosa, e torna al suo camion.

    Secondo me quello col camion ci parla. Magari a fine turno, prima di posarlo nell’autorimessa.

    E’ un bel lavoro quello del monnezzaro. Non credete a chi vi dice il 

    contrario. Mica è più come una volta. Il carrettino e lo spazzolone di saggina. Acqua passata. Ormai noi siamo super tecnologici : tute fosforescenti, guantoni, stivali, casco e mascherina. Ci danno pure il cellulare di servizio, per tenerci in contatto con la centrale. Per non parlare del veicolo: autocarro gigante Iveco con regolare dispositivo tritura rifiuti e una plancia che sembra quella di un Boeing. Solo il salario è rimasto all’età della pietra...

    Io però non mi lamento. Sono scapolo e a fine mese ci arrivo quasi tranquillo. Dico quasi perché più di metà della mia paga va dritta nelle tasche della padrona di casa. Bivani arredato con angolo cottura, trentacinque metri quadri in tutto. Ci ho pure la finestrella nel bagno. Una sciccheria. Perché non mi sono sposato? Perché tutti i miei colleghi sposati o hanno divorziato o non sanno dove sbattersi la testa per tirare avanti. Pure Salvato’. Metà dei suoi soldi se li piglia l’università della figlia e l’altra metà le medicine del figlio. Con la rimanenza dovrebbero campare tutti e tre per un mese.

    E poi, siamo sinceri, non è facile dover dire a una ragazza faccio il netturbino. Sapete com’è. I pregiudizi. Una volta ero fidanzato con una brunetta che lavorava come segretaria da un avvocato. Quando mi ha chiesto che mestiere facevo, le ho detto impiegato comunale. Il che in parte è vero. Da noi è ancora il sindaco in persona che ci dà il pane. Non per molto, però, perché pare che l’anno prossimo ci trasformiamo in azienda pure noi: AMURR, azienda municipalizzata raccolta rifiuti. Suona fico, no? Sembra qualcosa che abbia a che fare con l’amore. L’amore per la pulizia.

    Salvato’ non è d’accordo, forse è per questo vuole andarsene in pensione. Come lo so, visto che non parla mai? Dalla faccia che ha fatto quando gliel’hanno detto.

    Io, invece, sono sicuro che non cambierà niente, a parte gli stipendi dei capi. Monnezza raccoglievamo prima, monnezza raccoglieremo dopo.

    Anche i soldi saranno sempre gli stessi. Si spera. E poi, male che vada comincio a cercarmi un altro lavoro. Sono ancora giovane e ci ho pure un diploma di geometra.

    Però a me in fondo questo mestiere piace. Giuro. Nella monnezza c’è la vita delle persone e la storia delle città. Dalla monnezza che lascia la gente capisci con chi hai a che fare. Conosci meglio il tuo prossimo. Come disse una volta il mio vicino di casa, il professor Orlandi, un vecchio professore di latino in pensione :" immunditia est perfumus mundi" La spazzatura è il deodorante del mondo, mi ha spiegato. Cosa volesse intendere, lo sa lui. Per come l’interpreto io, significa che il mondo puzza molto più della sua spazzatura, che al confronto di chi la produce è un profumo inebriante.

    Sarà, professo’, ma se venisse qui dove mi trovo adesso, incrocio Via Pirandello-Piazza Unità d’Italia, altezza civico 42, mi sa che sentirebbe solo puzza. E’ vero, Salvato’?

    Sì, buonanotte.

    Però, ne buttano di cose i benestanti. Guarda qui, ci sono pure un televisore e una lavatrice nuovi nuovi. Nei cassonetti dei quartieri popolari al massimo trovi qualche vecchio materasso tutto sbrindellato e le sedie di legno con le gambe rotte.

    In compenso, nell’immondizia dei signori non ci sono tutte le siringhe che si trovano in quella dei poveracci. All’inizio pensavo che nei rioni popolari si consumassero tutte quelle siringhe perché i morti di fame s’ammalano più dei ricchi. Poi mi hanno spiegato.

    I preservativi usati, però, sono gli stessi: una infinità, sia qui che là. Le prostitute rumene e albanesi, infatti, sono ragazze democratiche, non fanno differenze di censo: tante ne trovi nei quartieri alti e tante nei viali della periferia.

    Qualcuna ormai la conosciamo pure, ci saluta con la mano quando passiamo. Sono giovanissime, alcune davvero molto carine.

    Sono già le quattro e mezza, Salvato’, sbrighiamoci sennò non ce la facciamo a completare il giro.

    Guarda, c’è un bar aperto. Che fa, ci fermiamo un attimo? Magari stanno sfornando i primi cornetti caldi.

    No, Salvato’ non è d’accordo: gira il testone verso di me tenendo le mani sul volante e mi lancia una delle sue solite occhiate di disapprovazione. Questa di stanotte vuol dire più avanti, ci fermiamo più avanti.

    Io lo so perché non si vuole fermare qui, Salvato’. Perché si vergogna. Questo è un bar chic, un bar dei quartieri-bene, con clientela adeguata al posto. Lì dentro si sentirebbe a disagio. Quando facciamo il turno di notte, il nostro bar di solito è quello vicino alle acciaierie, sulla strada del rientro. Mangiamo il cornetto insieme agli operai. Tute sporche loro e tute sporche noi. Tutti fratelli.

    Fermati, Salvatore, capolinea. Ci facciamo ‘sto vialone e per stanotte abbiamo chiuso.

    Non so perché ogni volta gli dico di fermarsi. Lo farebbe lo stesso. Ci ha tutte le tappe in testa, ormai. Il fatto è che sta sempre assorto nelle cose sue e io ho paura che salti qualche punto di raccolta.

    Uh, cinque cassonetti. Stracolmi. C’è di tutto anche qua. Uno ha anche lo sportello aperto e un gatto nero che ci fruga dentro. Pussa via, brutta bestiaccia. Puzza pure più del solito. Bisognerà dirlo a quelli della squadra-lavaggi. Lo sposto e lo metto sull’elevatore. Ecco che si solleva e comincia a rovesciare il suo carico puzzolente sul camion.

    E ora questo cos’è? Oh, Madonna ...

    Fermati, Salvato’, ferma subito la sminuzzatrice e scendi, per l’amor di Dio!!

    Un fagotto. E dentro un fantolino infreddolito. E’ appena nato, ci ha ancora attaccato il cordone ombelicale. Mi tornano in mente le parole del professore: immunditia perfumus mundi.

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