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Il punto che non conosco
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E-book332 pagine4 ore

Il punto che non conosco

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Info su questo ebook

Tre generi letterari diversi. Due continenti. Una storia privata che si intreccia con la Storia del nostro paese. Un tango lungo trent'anni, struggente e appassionato, sul ring della vita. Tra melò e noir, tra realismo magico e fantapolitica, l'avventura di un uomo che è "facilissimo ferire, quasi impossibile fare arrendere".
LinguaItaliano
Data di uscita3 mag 2016
ISBN9788899796051
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    Anteprima del libro

    Il punto che non conosco - Luigi Sardiello

    sorriderle.

    PARTE PRIMA

    FUGA

    1.

    «Farmi del male è facilissimo. Farmi arrendere è quasi impossibile».

    Non ricordo dove ho sentito questa frase. Non so neanche se l'ho davvero sentita o si sta imprimendo adesso, in un angolo del mio cervello, il testo di un messaggio che un giorno scriverò a qualcuno. Mi sto giusto chiedendo questo quando la vedo.

    1.a) CHI

    Lei ha la testa china sulla scrivania, intenta a sistemare delle carte. È il centro di un mondo costituito da un ufficio monoposto con il pavimento in moquette, stampe iperrealiste americane alle pareti, ficus benjamin nell’angolo, biblioteca e tavolo per il brainstorming: almeno due volte più grande di quanto servirebbe.

    Anche se può sembrare inspiegabile, non mi ha ancora rivolto la parola. Ma io non sono uno che si preoccupa troppo dell’inspiegabile. Così mi schiarisco la gola e dico:

    «Buongiorno».

    Solo adesso alza gli occhi. E quell'alzar d'occhi è tutt'uno con lo spegnersi di tutte le luci e l'affievolirsi di tutti i rumori e l'inchinarsi di tutti i soprammobili dell'ufficio monoposto davanti a quel fascio di colori di fuoco che è il suo viso. Tutto scompare. E io mi ritrovo dentro un anello fatto di sole, afferrato per la gola e sospinto dal vento dei suoi capelli giù per lo scivolo dolce del naso, fino al guscio rosso delle labbra. Emergo dal mare degli occhi come da un risucchio che mi rimanda al punto di partenza, appena un attimo prima di affogare. Chiudo gli occhi per arginare tanta bellezza.

    Lei mi guarda per un attimo, di sfuggita, per nulla imbarazzata.

    Nota subito che ho la barba un po' lunga, la cravatta col nodo allentato e il colore che mal si abbina a quello della camicia. È tutto quello che nota, e per lei è già più che abbastanza. «Può chiudere la porta» mi dice.

    Le tendo la mano: «Sono Valter Ossuni».

    Lei si sporge dalla scrivania quel tanto che basta per ricambiare la stretta. «Piacere» sillaba con distacco. E un attimo dopo: «... la porta».

    Dietro quella porta, lentamente, chiudo un altro mondo, fatto di corridoi con pavimento in linoleum, bacheche per gli ordini di servizio, gabbiotti con le macchinette del caffè. In quel mondo sono compresi anche Vittorio, Marco, Antonella e Luisa, i miei colleghi del team risorse umane che attendono nervosamente il loro turno.

    «Può sedersi» mi dice la voce da questa parte del mondo. Prende tra le dita un evidenziatore e inizia a giocarci. Si passa una mano tra i capelli. Poi inarca il corpo all’indietro e lo fa aderire allo schienale della poltrona reclinabile. Mentre si adagia, accavalla le gambe con una naturalezza che mi graffia la vista.

    «Lei sa chi sono?»

    Resto incollato alla sedia, incapace di pensare ad altro che a quel gesto.

    «Mi chiamo Gezia Young. Sono una consulente del gruppo. Una problem solver» dice giocherellando con l’evidenziatore e dondolandosi sulla poltrona.

    Adesso comincio a capirci qualcosa. È quella parola che mi ha messo sulla strada giusta. Problem solver. Sono così, loro. Parlano dondolandosi sulle poltrone con voce fluttuante, che si issa sui toni alti quando scandiscono percentuali di mercato o pronunciano le parole target, share, cazzo, per poi assestarsi su quelli bassi quando devono dire «sì... certo» oppure «dopo»; sono gli stessi che esaltano la creatività del proprio ruolo e sostengono che non cambierebbero mai il loro lavoro per uno routinario; gli stessi che invitano sconosciuti a pranzo nei migliori ristoranti della zona e quando tornano in azienda cominciano inevitabilmente il resoconto con «che palle». Hanno il centralino mentale intasato giorno e notte, un taccuino zeppo di priorità e zero tempo a disposizione per tutto ciò che sta al di fuori della loro scheda obiettivi. Parlano di team, gioco di squadra, identificazione e utilizzano il noi per introdurre concetti elementari, quasi sempre uguali. Perché lo fanno? Nella maggior parte dei casi per gli stessi motivi degli altri mortali: la famiglia, la casa, la propria autostima...

    Gezia Young è una di loro. E come farebbero loro va subito al punto. «C’è un progetto in corso. Il gruppo ha un progetto in corso. Che naturalmente coinvolge anche la PubbliCity» dice con una voce curiosamente infantile, che stride un po’ con la perentorietà delle parole. «Il progetto è top secret, almeno per qualche giorno ancora. Lei non può immaginare quanto tutto questo sia strategico non solo per il futuro della PubbliCity ma per l’intero gruppo e, mi permetto di dire, per tutta la nazione». Temevo che prima o poi sarebbe arrivata a questa parola. Nel mio quotidiano, strategico è una mina vagante che vuol dire questionari, sondaggi, elaborazioni statistiche, persone su persone tradotte in numeri su numeri. Non dovrei lamentarmi. In fondo mi sono laureato in sociologia. Quello che mi sfugge è il collegamento che questi sondaggi hanno con l’attività dell’azienda. Prendiamo la PubbliCity. È una concessionaria pubblicitaria. La più grande che c’è in Italia. Vende gli spazi sulle emittenti televisive del gruppo che, a parte i canali nazionali, sono le più importanti che ci sono nel nostro paese. Ebbene, noi stiamo qui a fare questionari, sondaggi, elaborazioni statistiche, persone su persone tradotte in numeri su numeri. Nessuno che si ponga il problema dei programmi televisivi all’interno dei quali vendiamo gli spazi. Che cosa vogliono realmente dire, perché si fanno, perché la gente li guarda invece di andare a farsi una passeggiata nel parco.

    Domande semplici. Probabilmente porsi queste domande è considerato controproducente per una buona commercializzazione degli spazi pubblicitari. La prova è che nessuna delle persone che occupano posizioni di responsabilità, nella PubbliCity, si pone domande sui programmi che vende e sulle pubblicità che va a infilarci dentro. Certe volte penso che una persona che fosse in grado di non porsi neanche una domanda rispetto alle cose che sta facendo potrebbe diventare in brevissimo tempo capo del governo.

    1.b) COSA

    «È un progetto che richiede non solo ingenti investimenti economici, ma anche una radicale rivoluzione del nostro modo di pensare e di agire. E soprattutto l’entusiasmo e l’energia vitale di noi tutti. Non so se lo sa, ma fra una settimana arriverà il Leader in persona, a spiegarci personalmente il progetto».

    Sorrido con uno dei miei soliti, disarmati giochi di labbra. Mi stringo nelle spalle da impiegato. Continuo a guardarle i capelli, gli occhi, le mani.

    «Ora veniamo al problema» dice, abbandonando improvvisamente l’evidenziatore. «C’è stata una fuga di notizie. Qualcuno si è lasciato sfuggire qualcosa all’esterno. Informazioni riservate. Tipo che il gruppo ha una posizione debitoria di qualche centinaio di miliardi di lire. O che la Procura è venuta a sequestrare verbali e altri documenti interni. L’informazione è arrivata a un giornale. Il problema, come può capire, è gravissimo. Potrebbe vanificare l’intero progetto. E questo non lo possiamo permettere. Il problema va risolto. Molto rapidamente».

    Gezia dice queste cose piena di consapevolezza. Si ravvia i capelli mentre ondeggia sulla poltrona. Parla fissandomi negli occhi. E io non riesco a liberarmi.

    «Bene. Il primo punto è: agire sul giornalista per convincerlo a non pubblicare la notizia. Ma questa è cosa che riguarda solo me».

    Non mi è difficile immaginarla di fronte a questo giornalista mentre scandisce le parole piegando i fianchi con rotazioni morbide e sbilanciandosi quel che basta sulle caviglie sottili. Il giornalista me lo vedo più statico, tutto concentrato ad ascoltarla, con gli occhi che ruotano fino al punto in cui la gonna nera incrocia le calze lavorate. Da questo pensiero vengo fuori con un fastidioso senso di stordimento. Proprio mentre Gezia sta analizzando il punto due.

    «La seconda fase è più complicata. Consiste nell’individuare chi ha parlato. E trovare la soluzione adeguata».

    In momenti delicati come questo di solito mi concentro sui dettagli. Ad esempio sui denti di Gezia, che non riesco a smettere di fissare: bianchi, luminosi. Mi ricordano i denti di mia nonna, che se li strofinava con dei pezzettini d’aglio, per renderli così bianchi. Difficile che Gezia utilizzi l’aglio, per i propri denti.

    «Dicevo che è una fase delicata, ma non complessa. Perché le informazioni in mio possesso mi dicono che la fuga di notizie è partita dalla PubbliCity. E gli unici al corrente di queste notizie, a parte i direttori, sono i cinque componenti del team risorse umane. E lei, dottor Ossuni, è uno dei cinque».

    A questo punto sono costretto a distogliere lo sguardo dai denti, ed è operazione che mi costa fatica. Mi sistemo meglio sulla sedia. Mi schiarisco la gola come per parlare. Ma non parlo. Sorrido. So bene che non è un gran che, come risposta, ma in questa situazione non riesco a fare di meglio.

    «Beninteso, questo non vuol dire nulla. Se non che ho bisogno della vostra collaborazione. Di tutti e cinque. E mi spiego meglio. Per chi contribuisce all’individuazione del colpevole, promozione immediata al livello superiore. Per chi non fornisce elementi, licenziamento in tronco per giusta causa».

    Adesso sorride anche lei. Mi guarda da persona a persona, ma lo fa con uno stile acquisito in qualche corso di management, lo capisco da quel gioco di sopracciglia appena accennato che di solito vuole dire: è il mio lavoro, niente di personale. Quello che dice veramente, però, è un’altra cosa: «Non voglio metterle fretta. Ci pensi bene. Abbiamo una settimana di tempo. Sono sicura che non ci saranno problemi». E subito dopo, per venirmi incontro: «C’è qualcosa che non le è chiaro? Che desidera chiedermi?».

    In questo momento vorrei tanto aver pronta una domanda. Non per tirarmi fuori da questa situazione o mostrarmi collaborativo, solo per prolungare la conversazione e stare ancora un po’ a contatto con lei. Ma l’unica cosa che mi riesce di fare è sorridere, ancora.

    Gezia mi guarda come se fossi un extraterrestre. È più irritata che incuriosita. «Tutto questo la diverte?» dice.

    «Non è per lei. È la mia faccia che non mi obbedisce, alle volte».

    È più o meno in questo momento che squilla il telefono. Gezia indugia a fissarmi per qualche secondo ancora, più irritata che divertita. Poi si decide a sollevare la cornetta. Così comincia a fluttuare nell'ambiente una nuvola di parole sospese, sostenute da toni alti quando si sostanziano in espressioni tipo: «il task è chiarissimo» oppure «non ho dubbi sulla strategia», per poi assestarsi su quelli bassi quando diventano sì... certo oppure dopo.

    Mi guardo intorno per impiegare in maniera educata il tempo che il destino mi concede. Dell’ufficio ho già fotografato tutto. Resta la scrivania: calcolatrice, portapenne, forbici, block notes e moduli per il rimborso spese. Niente di più e niente di meno, probabilmente, di quello che le serve. Attaccata al muro c’è una lavagnetta di sughero piena di post-it colorati. C’è anche una mosca che gira intorno. A differenza dei post-it colorati non ha ancora deciso dove posarsi. Preferisce roteare e ronzare, per il momento. Ma è solo questione di tempo: in un angolo della scrivania c’è una macchia di luce e sono sicuro che, prima o poi, la mosca ci si poserà sopra. Ne so parecchio sulle strategie delle mosche. Solo che, quando la mosca ci arriva, su quella macchia di luce, Gezia ha appena attaccato, e io devo farmi un po' di violenza per assorbire senza contraccolpi la luce dei suoi occhi. Mi dice: «Era Alberto Cenni. Il suo capo, il mio cliente. Vuole parlarle... quando avremo finito».

    Non rispondo. Non è per scortesia, è che non mi sembra che quella sia una domanda. La mosca sta puntando i capelli di Gezia e sono veramente curioso di vedere che cosa succederà adesso. Le mosche sono strane, alle volte hanno reazioni imprevedibili. Sono diverse dalle persone.

    1. c) QUANDO

    Gezia invece controlla l’orologio, poi torna a guardarmi come una pratica chiusa. «Bene» dice. «Io non ho altro da dirle e mi sembra che lei non abbia altro da chiedermi». Solleva il corpo dalla sedia, giusto il tempo perché la tensione cali e il cuore mi si chiuda. La mosca vola via senza che lei si sia accorta della sua esistenza. Gezia mi accompagna alla porta e solo quando ha la mano sulla maniglia si ferma. «Abbiamo una settimana di tempo. So che farà la cosa giusta. Io sono a sua disposizione. Mi cerchi quando vuole». Dice questo e un sorriso, rapido e accecante, le attraversa il volto.

    1.d) DOVE

    Apre la porta. Tutto quello che dovrei fare è imboccarla e uscire, ma mi viene difficile lasciarla così. Indugio a guardarle gli occhi, i capelli, le mani, la gonna nera che si arresta esattamente all’altezza delle ginocchia, né su né giù. Cerco di selezionare una formula di saluto semplice e plausibile ma non la trovo perché è difficile, per me, fare le cose facili.

    Questo attardarmi, fragile, impacciato, consente a una voce di infilarsi nella porta socchiusa: «Chissà che stronzate le sta raccontando. Giusto per rovinare l’immagine di tutto il team».

    La frase striscia sul pavimento e subito si arrampica fino alle orecchie di entrambi. Ma a differenza di me Gezia è orientata solo su chi entrerà adesso, sul suo nome e il suo curriculum, sui punti di debolezza da attaccare. Sul prossimo problema da risolvere.

    Il prossimo problema si chiama Vittorio De Santis. È lui che ha pronunciato quelle parole. Conosco la voce a memoria. Vittorio ha ancora gli occhi e la bocca rivolti verso il corridoio, quando esco. E da come mi guarda appare subito chiaro che sa di essere stato sentito. Mi limito a osservarlo, senza nessuna forma di rancore. Ha una cravatta regimental bene annodata e la barba fatta. Sulla giacca blu una spilletta con su scritto GRAZIE A DIO NON SONO COMUNISTA. Vittorio è il responsabile della formazione della PubbliCity da due anni. Ha facilità di parola e una lista di priorità chiara e dettagliata, ma in questo momento è molto teso. Gezia avrà gioco facile con lui.

    Anche gli altri sono tesi. Li tengo a distanza e trovo la situazione piuttosto curiosa. «Ciao» dico mentre mi allontano. E avviandomi verso l’ufficio mi sento sfilare accanto le facce di altri colleghi e le pareti con i poster dei presentatori delle emittenti televisive del gruppo e le foto della villa del Leader e il quadro con la nostra mission e tutto l’universo dei nostri valori. In mezzo a questo tutto io non sono nessuno. Cammino sul pavimento in linoleum del corridoio come sul filo spinato, senza guardare a destra e a sinistra, sentendo tutto ciò che avviene a destra e sinistra.

    Quando entro in bagno mi sembra di osservare dal di fuori un estraneo nei confronti del quale non provo nessuna emozione particolare. Non ho faccia, questa non è la mia faccia. Ho prestato il mio nome a un badge plastificato, le mie dita a un mouse, i miei occhi a un monitor e i miei piedi a corridoi con pavimenti in linoleum che portano a stanze di colore metallizzato, che si susseguono come vagoni di uno scompartimento. Sorrido ancora immaginando quello che avrà pensato di me una come la dottoressa Gezia Young, di professione problem solver.

    Impiego la distanza dal bagno al mio ufficio biposto scarmigliandomi i capelli. Per prima cosa mi dirigo verso la finestra, aziono la manovella che comanda le tapparelle e apro alla vita di fuori. Guardo giù: le macchine che si inanellano, i taxi che attendono, la gente che fa la fila fuori dalla banca, i cani che depositano frettolosi souvenir sui marciapiedi. Non ci sono uccelli. Ci sono alberi ma la gente non li vede. Milano Bis è stata progettata per essere la città ideale, ho letto da qualche parte, qui in azienda.

    Quando mi siedo, improvvisamente, come uno schiocco, mi tornano in mente le parole di Gezia: «Il problema va risolto». E il bello è che stavolta riguarda proprio me: dentro o fuori, promozione o licenziamento. Non ho molto tempo per venirne a capo. So che richiede lucidità e massima attenzione. Lo risolvo come sempre faccio nei momenti difficili: aprendo il cassetto della scrivania e tirandone fuori il libro.

    1. e) PERCHÉ

    Nunzio entra qualche minuto dopo. È un uomo minuscolo, lievemente ingobbito, che si muove abbarbicato al suo aspirapolvere come se insieme fossero un tutto unico, una figura mitologica di fine millennio. Ha gli occhi intrappolati dentro una faccia rugosa e segnata dagli eventi della vita, ma non sembra infelice. I miei colleghi sostengono che sia l’uomo delle pulizie della PubbliCity da quando la PubbliCity è stata creata e che sia stato il Leader in persona ad assumerlo come atto di umanità. Non so se questo sia vero. In realtà non lo sa nessuno, perché Nunzio è sordomuto. Personalmente so solo che non mi sembra infelice.

    Da un po’ di tempo, quando a fine giornata entra a fare le pulizie nel mio ufficio biposto, ho preso a leggere le pagine del libro ad alta voce. Nunzio ha capito benissimo che lo faccio più per lui che per me, e mi lascia fare.

    Oggi, appena è entrato, ho reclinato il capo all’indietro e ho ripreso a leggere dal punto in cui mi ero fermato la volta prima. Nunzio ha appena svuotato i cestini e attaccato l’aspirapolvere. Io lascio che le pagine vengano imbrigliate nel fruscio delle dita. Leggo ad alta voce, cercando di entrare nel guscio di ogni singola parola, fino a che le righe cominciano a ondeggiare come fronde agitate da mani impazienti e gli spazi bianchi vengono sporcati da zoccoli di cavallo, che si imprimono nitidi sulla superficie porosa. Sopra gli spazi, dentro le parole, c’è il rumore lieve delle spade che penzolano e quello violento e ritmato delle armature che sobbalzano. Mi siedo nel mezzo della radura, in attesa che l’occhio si abitui al buio della notte. Di fronte a me, una corazza raccoglie il bianco della luna e lo porta a spasso, solitaria. Non è un semplice cavaliere, è il cavaliere dei cavalieri, l’eroe dalla trista figura. Intorno a lui, nel volgere di pochi secondi, incombe un esercito vero, fatto di guerrieri dal mantello lungo, la figura regolare e la cadenza inesorabile. Sono tanti, tutti intorno al cavaliere. Nessuno può aiutare Don Chisciotte in questa battaglia, perché è lui l’autore della sua sfortuna. I guerrieri gli si avvicinano. Il cerchio si stringe. L’azione è inevitabile.

    Nunzio spegne l’aspirapolvere. Mi guarda. Quanto a me, sento solo il cuore che ha ricominciato a battere.

    2.

    Nell'ufficio, dietro la scrivania, c'è La clau dels camps di Magritte. È una finestra che dà su una verde collina, un orizzonte lambito da alberi. Potrebbero essere querce, ma non mi fido gran che della mia preparazione botanica. Il vetro della finestra è stato infranto: chi ha compiuto quel gesto ha abbandonato il chiuso della stanza per fuggire nei campi.

    Lo guardo ogni giorno, quel quadro. Quando arrivo e quando vado via. E ogni giorno mi chiedo come. Come e quando è stato possibile compiere quel gesto. Poi qualcuno mi chiama, mi ricorda l’ultimo sondaggio da effettuare e io mi distolgo.

    Stamattina nessuno mi ha ancora chiamato. E così sono ancora lì, a passeggiare per i campi di Magritte. Finora ho incontrato solo alberi e qualche uccello che non conosco. Ma lo so che tra poco, dietro la linea dell’orizzonte, spunterà Paolo.

    2.a) PAOLO

    Paolo è mio fratello, il mio fratello maggiore, che l'America mi ha rapito. Forse sarebbe più giusto dire che è stato il cinema a rapirlo, non l'America. E un giorno non tanto lontano, ne sono sicuro, sarà lui a rapire il cinema. Per ora sceneggia cortometraggi e alterna ruoli tecnici nelle produzioni indipendenti. Nessuno in Italia ha mai visto uno solo di questi film. Colpa della mafia della distribuzione, mi ha spiegato Paolo.

    Sarà forse il vincolo del sangue ad abbagliarmi, ma io lo considero una persona straordinaria. Ne amo i momenti di eleganza mai fuori posto e la capacità, improvvisa, di alzarsi in volo e agitare le sue ali grandi, più grandi degli altri. Il suo non aver paura di parlare con le maiuscole. In questo è molto diverso da me, un abisso ci divide. C'è una sequenza, in particolare, che i miei occhi devono aver fotografato e impressionato in modo indelebile sulla parete interna della retina: una sequenza che è come incastonata in una riflessione, un dialogo sul senso della vita. La libertà sta qui dentro mi dice Paolo puntando il dito al centro della propria fronte spaziosa, libera da capelli e da incertezze.

    Non ho mai ricevuto lettere da mio fratello. Nella mia valigia di attese un angolo è dedicato alle lettere di Paolo. Penso a questo mentre lascio scivolare, come un maldestro croupier, la corrispondenza giornaliera dal raccoglitore sulla scrivania. La lascio scivolare senza farvi attecchire sopra nessuna sensazione. Pubblicità, richieste di assunzione, offerte di consulenza. Nella maggior parte dei casi non ho neanche bisogno di aprirla: in un corso mi hanno insegnato che il ritorno medio di un mailing non mirato è percentualizzabile nell'ordine del due per mille. Si tratta di parole digitate, stampate e inviate da persone che aspettano a persone che hanno smesso di aspettare, per comunicare soltanto la fine di un viaggio. E devo confessare che io non faccio nulla per incrementare quel due per mille, per quanto sia probabilmente peggio riconoscersi fra gli altri novecentonovantotto. È una guerra persa in partenza, giocata da soli sconfitti.

    2.b) IL GRANDE CENNI

    La sala riunioni è a pochi passi dall’ufficio. Ci sono voci che vanno e vengono, umori che si incrociano, un senso impalpabile di eccitazione che arriva fino al corridoio. Qualcosa, una delle mie piccole premonizioni, mi spinge ad alzarmi e a raggiungerla. Dalla porta si intravedono Vittorio, Luisa e Antonella. Parlano tutti insieme, in modo concitato. Poco distante, illuminato da una striscia di luce che filtra dalla finestra, c’è anche il grande Alberto Cenni, direttore risorse umane. A differenza degli altri non dice una parola, trincerato dietro i suoi occhiali scuri e concentrato, in apparenza, solo sul suo mezzo toscano spento. Busso mentre apro già la porta. Tutti alzano lo sguardo, con uno scatto un po’ troppo rapido, un po’ troppo violento. Cenni solleva la testa un attimo dopo gli altri, più lentamente degli altri. Si toglie gli occhiali. Tutte le volte che lo guardo, la prima cosa che mi viene in mente è che pare sia stato progettato per essere l’opposto di me. Anche fisicamente. Molto elegante, molto abbronzato, molto quarantenne. Mi fa pensare più a un avvocato di un romanzo di John Grisham che a un manager di una concessionaria pubblicitaria. Indossa un completo fresco di lana grigio scuro, una cravatta gialla con un nodo enorme come va di moda adesso e oscilla il capo e orienta gli occhi, prima di parlare. Non si smentisce quando apre bocca: «Un bell’applauso al dottor Ossuni. La dimostrazione vivente che il tempo è una percezione soggettiva".

    Non sono uno che ha la risposta pronta. Getto un’occhiata a tutta la sala. C’è anche Marco Magistri, accucciato in un angolo. Guarda altrove mentre si strappa via con dei morsetti frenetici, una dopo l’altra, le pellicine dalle dita. Gli altri sono tutti intorno al tavolo lungo, armati di penne e fogli A4. Il team risorse umane al completo. Si direbbe che sia in corso una riunione, e non è difficile immaginare su quale argomento.

    «Non sapevo che ci fosse una riunione» dico a tutto il gruppo.

    «Basta leggere l’e-mail» precisa Cenni: ironico, paziente, professionale.

    «Ma siamo tutti raccolti nel giro di pochi metri quadrati. Perché parlarsi attraverso il computer?».

    Cenni mi guarda con stanchezza. Lo delude il banale buon senso delle mie osservazioni. Allargo le braccia e mi siedo accanto a lui. Indugio a fissarlo: è la mia tattica preferita per far parlare le persone. Trascorriamo qualche secondo fermi nelle nostre posizioni. Poi, finalmente, Cenni fa uno sbuffo e dice:

    «Visto che adesso ci sei anche tu, e siamo tutti nel giro di pochi centimetri quadrati, forse posso approfittare per avere in tempo reale il tuo parere su questa sgradevolissima vicenda in cui si trova coinvolto il servizio risorse umane».

    «Cioè?» gli chiedo. E intanto continuo a inquadrarlo da mille angolazioni, per aiutarlo a tirare fuori tutto quello che ha dentro.

    «Cioè vorrei sapere da te che cazzo ne sai e che cazzo ne pensi di una certa informazione che non sarebbe mai dovuta uscire da queste mura».

    Cenni mi conosce da quattro anni, e questo per lui è un buon motivo per partire aggressivo. Sa che con me può permetterselo, altrimenti non lo farebbe. Con una come Gezia, ad esempio, dubito che ne avrebbe la personalità. Una così se lo rivolterebbe come una lumaca e lo lascerebbe nudo, fuori dal guscio, a prendersi il freddo e le responsabilità di quello che dice. Ma a uno come me, cosa può interessare entrare in conflitto con il grande Cenni?

    Così cerco di spiegargli la mia posizione, che come al solito mi sembra piuttosto semplice. Potrebbe esserci stato un errore, da parte di qualcuno di noi. Non necessariamente una slealtà, magari solo un errore. Si sa come vanno queste cose. Uno racconta la notizia a qualcuno dell’ambiente esterno che non c’entra assolutamente niente con il mondo della PubbliCity e del gruppo, che so, un amico stretto o un familiare. E invece questo va a riferire la cosa, sempre senza cattiveria, a un altro che non c’entra niente e questo lo racconta a un altro ancora

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