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Il bar a sud est
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E-book136 pagine2 ore

Il bar a sud est

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Info su questo ebook

“Dalla mia casa il mare non si vede benissimo, io però so dove è ed è come se fosse sempre davanti ai miei occhi, sono abituata al silenzio di questo posto durante l’inverno, non è romantico, piuttosto somiglia a quei circhi dell’est che non riescono a staccare più di cinque biglietti al giorno. Ha qualcosa di morto, ma mi piace. Io dall’altra parte del mare, quella proprio di fronte a me, non ci sono mai stata. Mi dicono che sì, forse è vero, ci sono delle somiglianze ma sono somiglianze che potevano esserci molti anni fa, ora la differenza è stridente, io continuo a pensare che deve essere come togliere il trucco a una vecchia puttana sfatta, sotto il maquillage, resta una donna vecchia che ha fatto per tutta la vita la puttana. Stessa faccia di puttana, stessa razza di puttana, di qui e di là dal mare.”

Susi Brescia è nata a Fasano (Br) e vive a Parigi, ha pubblicato Abbandonata dal dottor Divago, Robin, 2005 e Tu mi dai il male, Nutrimenti, 2007.
Ha collaborato con D La Repubblica delle Donne.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2011
ISBN9788863690262
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    Anteprima del libro

    Il bar a sud est - Susi Brescia

    Donne.

    1

    Quando sono pronta a infilarmi con l’auto nel parcheggio sotterraneo dell’ipermercato premo un po’ l’acceleratore, il vuoto d’aria mi rende confusamente euforica e il sobbalzo che segue mi lascia una sensazione di pericolo scampato che mi acquieta. Potrei bere un cognac per avere lo stesso brivido, ma non bevo superalcolici. Non ho mai provato nessun genere di attrazione per qualsiasi sostanza psicotropa. Le canne mi fanno venire voglia di vomitare, il vino mi piace ma non vado mai oltre un paio di bicchieri e così mi sono fatta variamente di paranoie, uomini e anche, in alcuni periodi, di scarpe. Ora il picco massimo di brivido nella giornata lo raggiungo spingendo l’acceleratore e entrando all’iper.

    Nel budello in cui mi trovo mi sento al sicuro. Se piove non mi bagno e se fa caldo trovo l’auto fresca. Sono una persona dalle esigenze banali. Il verde e l’arancio delle pareti che mi accolgono dovrebbe mettermi di buon umore e predispormi all’acquisto, sono un individuo semplice ma non stupido, so decifrare. Il carrello con cui mi avvicino al nastro mobile contiene molto di più di quanto potrebbero mai contenere la mia dispensa e il mio frigo, so anche questo, ma sto al gioco. Non ho alternative e nessuna voglia di cercarne. Sono troppo concentrata a cercare dei punti di riferimento per ricordare dove lascio l’auto. Settore 30. Dovrebbe bastare, ma spesso dimentico i numeri e allora ho preso l’abitudine di guardare se c’è un cestino divelto, un muro sberciato, qualcosa che circoscriva inequivocabilmente il posteggio. Tanto per essere chiari, non sono una femmina organizzata non lo sono mai stata nonostante numerosi tentativi e un discreto impegno profuso, non ho mai con me la lista della spesa, faccio gli acquisti random, ovvero nel modo peggiore in cui si dovrebbero fare. Sono concentrata però su alcuni pratiche da spesa, ad esempio sulle tecniche per evitare le persone che conosco; alzo lo sguardo, lo abbasso, mi giro, guardo attraverso, ovviamente accade solo se incontro qualcuno che non voglio vedere, faccio come se fossero trasparenti, ho affinato una metodo molto preciso, perché ormai riesco a non vedere più in automatico le persone che non mi interessano, è una di quelle abilità che andrebbe brevettata, anche gratis, per il bene dell’umanità.

    L’ipermercato con annesso centro commerciale che frequento di solito è piuttosto distante dal luogo in cui abito, che a sua volta è poco distante dal luogo in cui lavoro, io più di tutto temo di incontrare le persone con cui lavoro. Anche se non è proprio così che si può dire. Perché lavoro per un ente pubblico e in un ente pubblico non si lavora mai con qualcuno e poi io non sono una dipendente pubblica, nel senso che non sono una dipendente, sono un collaboratore a progetto. Nella realtà delle definizioni spogliate dal contorno, rappresento l’area grigia del pubblico. Ora, non per dire, ma io sono molto più colorata di tutti loro messi insieme, mi riferisco alle tutele, quelle cose lì. Quelle che appassionano i dibattiti televisivi dove ci sono i buoni che difendono i parasubordinati, precari, tutti termini offensivi comunque, e i cattivi che sono quelli che dicono che in un mercato globale i parasubordinati sono necessari e che esistono in tutta Europa, che anzi in Germania e in Francia ce ne sono di più. Ma io vorrei fare la spesa e non pensare ai dibattiti sul mercato del lavoro flessibile, anche perché io non mi colloco neppure lì. In quanto parasubordinata di un ente pubblico non sono né sfruttata come una lavoratrice di un call center né garantita ottusamente e graniticamente come un dipendente pubblico. Sono qualcuno che non dovrebbe esistere e infatti si fa come se non ci fossi. Io pure faccio come se loro non esistessero, però.

    Mentre mi allontano dalla fila dei carrelli, una signora mi porge la mano per chiedere l’elemosina, ma ha un modo di fare pudico che mi fa sentire a disagio, come accade solo con chi nel bisogno si comporta con paura. La guardo. Avrà cinquanta anni, è magrissima, piuttosto alta, vestita con abiti semplici e puliti, come i suoi modi. Con la pelle trasparente e gli occhi grigi. La fatica di chiedere i soldi si percepisce. Non c’è alcuna costruzione, abitudine. Mi fa pensare a una persona che lo fa da poco. Sembra che non voglia neppure farsi guardare in faccia. Slava penso, ucraina, russa insomma, sembrano tutte uguali. Ha qualcosa che continua a mettermi in difficoltà. Forse preferisce non fare la prostituta, forse è troppo vecchia anche per quello, questo mi trovo a pensare mentre porgo la mano per mettere nella sua qualche spicciolo. Mi ringrazia con tristezza e senza la minima compiacenza. Fa bene. Ma mi lascia addosso una sensazione di cui proprio non avevo bisogno.

    Dopo il nastro mobile la prima molestatrice in cui mi imbatto è quella dei materassi. Io non sono una brutta persona, non del tutto mi pare, cerco di essere gentile con chi lavora, lo so bene cosa voglia dire avere un lavoro del quale non ti importa nulla e per il quale a nessuno importa di te, quando mi chiamano a casa mentre sto scolando la pasta per chiedermi se voglio 10 bottiglie di vino o 50 litri di olio ligure, (a me, che sono pugliese) che ancora devo capire come fanno a produrre tanto olio in una regione così piccola, cerco sempre di essere gentile, anche quando ti tolgono le mazzate dalle mani. E te le tolgono le operatrici dei call center le mazzate dalle mani. In ogni caso io vorrei essere gentile anche con quella dei materassi ma è che se non sei veloce; sono fatti tuoi, da lì senza la promessa di una visita senza impegno non te ne vai più. E quello che più di tutto mi ipnotizza sono i suoi tacchi e il suo trucco e vorrei tanto sapere come fa a rimanere su quei tacchi dalle 9 di mattina alle 10 di sera. Io di questo vorrei parlare con lei, invece lei non fa che parlare di materassi di lattice. Puoi far finta di non sentirla mentre ti ammannisce, non vederla. Io non vorrei, ma spesso lo faccio. La supero come se non mi accorgessi di lei. Il piano interrato è quello dell’iper, ci sono anche i negozi in quel piano e poi c’è un piano superiore con altri negozi. Ma il punto di forza è l’ipermercato, non i negozi, lo capisci subito. I negozi nascono e muoiono rapidamente mentre l’iper, resta. Niente in contrario, ci mancherebbe. Anche perché i centri commerciali si moltiplicano senza il mio parere preventivo. Sulla spiaggia questa estate chiacchieravo con una tipa di mondo, insomma quella era l’idea che me ne ero fatta, pugliese anche lei ma intellettuale, quel genere di intellettuale che nelle note biografiche racconta di sé che vive tra la luna e il Moma di New York, tra il suo trullo in Puglia e Mumbai, tra Gstaad e la sua casa di Brugel, comunque era presa a intrattenere me e altre due sul suo sgomento di fronte alla presenza dei centri commerciali in Puglia, che doveva rimanere, suppongo, la sua personale cartolina del mondo che fu. Ho taciuto, non mi andava di passare per quella che considera il numero dei centri commerciali direttamente proporzionale allo sviluppo di una terra. E ci mancherebbe pure. Ma era il rischio che correvo parlando. Né più né meno come accadrebbe se mi mettessi a chiacchierare con la signora dei materassi, se dovessi dirle che sono curiosa di sapere come fa a stare tanto tempo sui tacchi penserebbe che sono io la scema. E comunque, potrebbe avere ragione lei.

    Non ho deciso se andare subito a fare la spesa o fare un giretto per negozi, non c’è molta gente per fortuna. Ma punto al negozio di biancheria, per un’occhiata alle mutande, che non sono mai abbastanza. Se ne prendo cinque ho diritto a un paio di mutande in omaggio. Va bene, non sono mai abbastanza le mutande e io di fronte a queste offerte di solito non resisto, ma ho l’impulso di ribellarmi e dico di no. Voglio due paia di mutande, non cinque. Per la miseria. E poi ho visto un documentario su come si induce al bisogno del consumo superiore al fabbisogno che crea dipendenza con le offerte. Ma ora che ci penso era sul cibo. Però chissà come fanno a tenere sempre le vetrate così pulite. Ci sarebbe una profumeria famosa per avere le commesse più annoiate della categoria merceologica di riferimento. Annoiate e incapaci. Ma è un segno distintivo della catena, e sicuramente la spia dei loro contratti, in ogni caso è il genere di posto in cui devi avere le idee chiare e comperare la matita che hai già collaudato o il rossetto che è finito, meglio non provare a chieder aiuto, non sono capaci e soprattutto ti fanno intendere dopo trenta secondi che disturbi. Ritorno al piano seminterrato, devo fare la spesa. La guardo, la sto guardando mentre un ragazzino sbuca correndo da un angolo travolgendola come se fosse una sagoma di cartone. E’ la signora dell’elemosina al parcheggio. Il ragazzo la aiuta a ricomporsi, si scusa frettolosamente e ricomincia a correre. Mi avvicino, ho paura di importunarla perché ho notato che avrebbe fatto a meno anche delle scuse del ragazzo, che era più imbarazzata di lui, ma le chiedo se si è fatta male. Fa cenno di no con la testa. Ma cade e a stento riesco a trattenerla. Cerco di darle dei colpetti sul viso per farla rinvenire, ma non è svenuta e si rialza proprio quando ero certa che stramazzasse a terra.

    Sto bene, sto bene, mi dice, ma devo aiutarla a reggersi in piedi. L’accompagno fuori, c’è una panca di legno, poco prima dell’entrata nell’ipermercato, ed è stranamente libera.

    Si sieda, vado a prenderle un po’ d’acqua.

    No, sto bene, insiste e si accascia di nuovo.

    Credo debba farsi vedere da un medico.

    No, sto bene.

    Signora non sta bene, è molto pallida e non riesce a reggersi, posso accompagnarla io se vuole.

    Ora starò meglio, mi passa, mi è quasi passato.

    Ma potrebbe essere stata la caduta!.

    No, non credo.

    Non so cosa dire, mi siedo vicino a lei. Siamo poco distanti dall’agenzia di viaggi, Sharm el Sheik va come il pane.

    Come ti chiami?. Passo dal lei al tu, senza accorgermene, come si fa con i subalterni.

    Aferdita.

    Vado a prenderti un po’ d’acqua, mi allontano pensando al suono del suo nome, fa pensare a divinità greche e a ferite.

    A quest’ora l’ipermercato si popola, c’è da fare la fila alla cassa del bar e soprattutto c’è da stare attenti visto che nessuno ha l’abitudine di aspettare il proprio turno, per cui, senza una minima dose di aggressività si corre il rischio di essere ignorati fino alla fine della fila o della giornata. Torno verso la panca, devo attraversare un corridoio in cui a destra ci sono alcuni dei negozi del centro commerciale, a sinistra l’ipermercato, sono almeno duecento metri. Mi sono sempre chiesta come deve essere lavorare in un posto con la luce artificiale tutto il giorno, se come per gli animali

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