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Mood - Numero 3
Mood - Numero 3
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E-book405 pagine4 ore

Mood - Numero 3

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Info su questo ebook

“Mood” è un magazine in ebook, nato dalla collaborazione tra l’agenzia letteraria Thèsis Contents e l’editore digitale goWare. Il suo scopo è quello di offrire ai lettori digitali narrazioni dal, e del, mondo contemporaneo, approfondimenti critico-letterari con un occhio attento all’attualità, al costume, alla politica e all’economia al tempo dell’andata al digitale.

In questo numero 3:

“St Aubyn alla Basilica di Massenzio” racconto di Francesco Formaggi;

“Ma dove sono andati a finire i posti di lavoro?” estratto dall’ebook di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee;

“Lo faccio per Martina” racconto di Francesco Costa; “Spotify odi et amo” articolo di Francesco Guerri; “La donna in nero” articolo di Rosario Casalone;

“Ieri, oggi, domani: i beni comuni tra passato e futuro” estratto dall’ebook di Lorenzo Coccoli;

“Chi è Jo Spatacchia?” opera multimediale interattiva di Vieri Tommasi Candidi;

“Quando tutto è ancora possibile” saggio breve di Edoardo Pisani;

“Vecchia Roma” racconto di Laura Costantini e Loredana Falcone;

“Partecipazione politica e democrazia diretta” estratto dall’ebook di Ubaldo Villani-Lubelli;

“Cuore di ragazza” recensione di Donatella Valente;

“L’importante è rientrare nel bagget” racconto di Maria Rosaria Pugliese;

“Casa di foglie” cronaca di Elisa Baglioni;

“Cartoline turkmene” progetto fotografico di Roberta Melchiorre e Fabio Bertino;

“Esami” racconto di Sandro Campani;

“Residenze d’artista” installazione di Sabrina Muzi;

“L’occhio discreto di Melonhead” recensione di Jacopo Caneva;

“Il viaggio II” documentario a puntate di Jacopo Caneva;

“Mio eroe” racconto di Davide Lisino;

“Dissolvenza al bianco” recensione di Stefano Cipriani;

“A pranzo con la zia” racconto di Giovanna Mozzillo;

“Il grande obeso” approfondimento con lettura di Enrico Roccato;

“Limitazioni nella circolazione del denaro contante” racconto di Alberto Ferrari;

“Di ferro e di granito” poesie di Vincenzo Cariello;

“Epifanie” racconto di Ángel Olgoso;

“MoodCookies” ricetta di Sara Del Moro;

gli autori di Thèsis in libreria.
LinguaItaliano
EditoregoWare
Data di uscita26 lug 2013
ISBN9788867970933
Mood - Numero 3

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    Anteprima del libro

    Mood - Numero 3 - a cura di Thèsis Contents e goWare ebook team

    © goWare 2013

    ISBN 978-88-6797-093-3

    Copertina: Lorenzo Puliti e Francesco Guerri

    Sviluppo ePub: Elisa Baglioni

    Redazione: Serena Di Battista e Mariarosa Brizzi

    mood è un progetto condiviso da goWare, startup fiorentina specializzata in ebook e applicazioni per mobile e l’agenzia letteraria Thèsis Contents

    Fateci avere i vostri commenti ed eventualmente i vostri manoscritti a: info@goware-apps.it oppure a thesis@thesis.it

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    In questo numero

    Francesco Formaggi - Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee - Francesco Costa - Francesco Guerri - Rosario Casalone - Lorenzo Coccoli - Vieri Tommasi Candidi - Edoardo Pisani - Laura Costantini e Loredana Falcone - Ubaldo Villani-Lubelli - Donatella Valente - Maria Rosaria Pugliese - Elisa Baglioni - Roberta Melchiorre e Fabio Bertino - Sandro Campani - Sabrina Muzi - Jacopo Caneva - Davide Lisino - Stefano Cipriani - Giovanna Mozzillo - Enrico Roccato - Alberto Ferrari - Vincenzo Cariello - Ángel Olgoso - Sara Del Moro -

    St Aubyn alla Basilica di Massenzio

    di Francesco Formaggi

    Racconto

    [tempo di lettura: 16 minuti]

    Francesco Formaggi

    È nato nel 1980 in provincia di Frosinone. Ha studiato Filosofia estetica all’Università di Bologna, dove ha iniziato a scrivere i suoi primi racconti. Collabora con Nuovi Argomenti, la rivista letteraria fondata da Alberto Moravia dalla quale sono usciti i migliori talenti della narrativa italiana contemporanea. Ha partecipato alla sesta edizione di Esor-dire, il torneo letterario della Scuola Holden, vincendo il premio del pubblico con il racconto Modulazioni di presenza. Con il romanzo Birignao (embrione de Il casale), ha vinto il Premio Creatività Scuola Holden. Il suo primo romanzo, Il casale, sarà pubblicato a settembre 2013 da Neri Pozza.

    Da qualche mese faccio un laboratorio di scrittura creativa con i bambini del reparto di neuropsichiatria infantile dell’ospedale della mia città. Quando entro in aula, la prima cosa che chiedo dopo che ci siamo levati le scarpe e ci siamo seduti in cerchio sui materassini, è di raccontarmi che cosa hanno fatto durante la giornata: la cosa più bella che hanno fatto. Quasi sempre i racconti iniziano sottotono: ho giocato alla wii, ho guardato la televisione, sono andato a scuola. Ma basta poco perché vengano fuori le storie più incredibili, gite sulla luna, nonni resuscitati, partecipazioni straordinarie a programmi televisivi mai andati in onda. Alla fine, come accade sempre con i bambini, la fantasia si siede col suo grosso culo grasso al posto della realtà, e non c’è più modo di farla alzare, come non c’è più modo di distinguere tra ciò che è accaduto davvero e ciò che invece hanno inventato.

    Se inizio parlandovi di loro, è perché i bambini, e l’infanzia, in qualche modo, e l’incapacità deliziosa, squisitamente letteraria, di confondere la realtà con l’immaginazione, hanno a che fare con ciò che sto per raccontarvi: la serata inaugurale del Festival internazionale delle letterature di Roma, nella spettacolare cornice della Basilica di Massenzio.

    Sapevo già da qualche settimana che Edward St Aubyn sarebbe stato uno degli ospiti di quella serata, insieme a Vinicio Capossela e Ferdinando Scianna, e avevo subito chiesto alla mia casa editrice, la Neri Pozza, se c’era modo per me di incontrarlo e partecipare con loro all’evento.

    «Certo, chiediamo subito di accreditarti» hanno detto. E io ho detto: «Va bene, grazie mille», poi tra me e me: che significa accreditarsi?

    Mentre scendevo a piedi lungo via dei Fori Imperiali, fermandomi ogni due secondi in coda ai turisti che creavano divertenti ingorghi sul marciapiede per farsi le fotografie, mentre alla mia sinistra si stagliava maestoso il profilo del Colosseo e davanti continuava la meraviglia rovinosa dei fori romani fino al colonnato bianco di palazzo Venezia e alle cupole abbagliate dal sole, cominciavo a vedere una fila ordinata di persone davanti a una transenna.

    Inizialmente ho pensato che stessero in fila per entrare al Colosseo. Solo quando sono arrivato all’ingresso della Basilica mi sono accorto che stavano in fila per il festival. Non sapevo cosa fare. Mi sono avvicinato a una ragazza dello staff, le ho detto che mi stavano aspettando dentro. «Forse, forse, dovrei essere accreditato.»

    «Come si chiama?»

    «Formaggi.»

    La ragazza ha sfogliato l’elenco. «Francesco?»

    «Esatto.»

    «Prego.»

    «Posso entrare?»

    «Prego.»

    «...»

    «Prego.»

    «...»

    «Entri entri!»

    Ecco cosa significa essere accreditato! Superando con la testa bassa il centinaio di persone in fila dietro le transenne che sbuffavano sventolandosi la faccia col programma del festival, sono entrato nella Basilica di Massenzio intorno alle sette e mezza di sera.

    Mi sono sentito in colpa, sì, un pochino, ma mentirei se non dicessi che ho proprio goduto! Uno zampillo di gioia a ogni passo. Non è bello stare in fila, questo è certo, e ne ho fatte così tante, musei, mostre, festival, metro, autobus, e così tante dovrò farne ancora (tra l’altro si conoscono persone incredibili nelle file), che mi sono goduto appieno il privilegio e, dopo essere entrato, sono riuscito per comprare un panino, e sono rientrato e sono riuscito di nuovo, per prendere la giacca in macchina, e di nuovo sono rientrato, di nuovo ho detto il mio nome alla ragazza che scorreva la lista degli accreditati col dito, di nuovo ho sorpassato la coda, che nel frattempo era arrivata fino al Colosseo. Insomma, una goduria. Una voce da inserire nella lista delle cose da fare almeno una volta nella vita: farsi accreditare ai festival letterari.

    Le sedie davanti al palco erano vuote. C’era solo qualcuno che cominciava ad accomodarsi e a occupare posti prima che aprissero le transenne e la platea venisse inondata di gente. La casa editrice aveva due file di sedie riservate, la seconda e la terza, subito dietro quella dei curatori del festival e degli editori. Sul palco, Vinicio Capossela provava il suo intervento. La prima cosa che ho pensato: mai in vita mi ricapiterà di vederlo e sentirlo così da vicino. Così, facendo finta di niente, mi sono avvicinato il più possibile al palco e mi sono fermato a guardarlo con la testa sollevata, mentre cantava: gli vedevo la barba da sotto, se avesse portato la gonna avrei scoperto di che colore aveva le mutande. E dire che Vinicio Capossela non mi è mai andato a genio. Ma pensavo ai miei amici che lo adorano, alcuni, e mentre ero lì sotto pensavo che li avrei fatti morire di invidia quando glielo avessi raccontato.

    Poi mi sono seduto nella fila riservata a Neri Pozza e ho chiacchierato un po’ con Sabine, l’editor di narrativa straniera, e dopo un po’ è arrivata anche Daniela, dell’ufficio stampa, seguita dal traduttore di St Aubyn.

    Aspettando che la serata iniziasse abbiamo parlato di libri e letteratura e festival, mentre tra le persone che prendevano posto nelle file riservate cominciavo a vedere facce conosciute, autori, giornalisti, gente dello spettacolo. Sembravano tutti un po’ più cicciottelli, un po’ più vecchi, ma anche un po’ più vivi. E io pensavo: oh, guarda un po’, quello lì è quello famoso, ha la faccia famosa, come si chiama? Lo so lo so lo so. Va be’, un giornalista o giù di lì, e sta seduto alla decima fila, forse undicesima, mentre io me ne sto qui in terza fila, capito?, terza fila, e la gente mi guarda: chi è quello in terza fila?

    Per fortuna mi ero messo la giacca buona, l’unica che ho, quella del vestito per i matrimoni. Poi ho pensato a quanto sia facile cedere alla vanità, al desiderio di essere apprezzati e amati, e quanto possa essere ammaliante il mondo dei vip, delle prime file, e a quanto mi ci sentissi bene, in realtà, un po’ come essere avvolti in una coperta di velluto; e a quel punto mi sono venuti in mente mille precetti morali, che la vanità non serve a niente, che la cosa importante non è apparire ma essere, che ci si deve impegnare nel lavoro, nella scrittura, ed è l’unica cosa che conta davvero. Ma poi mi sono detto: evvia, goditela un po’ questa serata, fatti un paio di bicchieri e goditela, lasciati guardare, che ti frega? Basta fare il bacchettone, quando ti ricapita sennò? E mi è venuto in mente Francis Scott Fitzgerald. A venticinque anni, dopo il successo del suo primo romanzo, era già una celebrità: soldi, feste, viaggi, fama, baldorie (altro che terza fila nei festival letterari!). Poi tutto è crollato, il sogno è finito, le luci si sono spente, con la stessa velocità del successo sono arrivate la disperazione e l’abbandono. Ma come fa un ragazzo di venticinque anni che tutti credono un genio e che sa di esserlo a non gettarsi nella mischia e godere pienamente della possibilità che gli ha dato il suo talento? Come fai a non sperperare tutto in vestiti e bagordi quando il mondo intorno a te è così dissipato? Come fai a resistere?

    Continuiamo a chiacchierare. A un certo punto è venuto fuori che dietro il palco c’era un buffet e Damiano, il traduttore di St Aubyn, ha detto andiamo, chi vuole qualcosa? Vino bianco, per me, un pizzetta se c’è. Grazie.

    Quando arriviamo lì dietro, sul tavolo c’è solo un vassoio con dentro tre pizzette e un paio di cornettini striminziti col prosciutto. Però un po’ di vino era rimasto e riempiamo un paio di bicchieri, prendiamo anche le pizzette, visto che ci siamo: le incarto in un tovagliolo e torniamo fuori. Ma non faccio in tempo a voltarmi che mi compare davanti un ragazzo, riccio, biondo, occhi chiari, un po’ strabico, e penso Nooooo. Non è possibile.

    «Tu sei Simone» gli dico, e lui dice sì. «Sei il fisarmonicista che quattro anni fa ha suonato al pigneto in un gruppo che accompagnava una cantante con la gamba ingessata a una festa di compleanno.» Lui ci pensa su, poi si illumina, dice sì e io mi chiedo, sconvolto: quante probabilità ha uno scrittore di incontrare un personaggio di un suo romanzo?

    Ecco, avevo appena incontrato un personaggio di un mio romanzo.

    Non sto a dirvi adesso come e quando e perché questo musicista è diventato un personaggio di un mio romanzo (tutta la serata di quattro o cinque anni prima, con la cantante con la gamba ingessata e la sbornia di grappa e le vomitate nei cessi dei locali psichedelici, è diventata un capitolo del libro). Posso dirvi invece che più tardi, mentre raccontavo dell’incontro a Sabine e Daniela, non capivo se i miei ricordi fossero di cose realmente accadute, oppure se stessi raccontando loro cose che avevo inventato per il libro.

    Poi hanno aperto la Basilica al pubblico e la serata inaugurale del festival è cominciata. Letture, letture, un signore agronomo del FAI che parlava con una fortissima cadenza siciliana ha letto il racconto di come è riuscito a salvare un antico agrumeto nella Valle dei Templi di Agrigento. Poi è stato il turno di Scianna, il famoso fotografo, e finalmente St Aubyn.

    Sabine mi aveva detto che era un po’ in ansia per la lettura. Ma quando è salito sul palco sembrava molto tranquillo. Ha letto un brano del suo nuovo romanzo, At Last, l’ultimo capitolo della saga de I Melrose. Mentre leggeva con la sua voce inglese e molto pacata, molto melodiosa e un po’ monotona, sullo schermo gigante alle sue spalle scorreva la traduzione in italiano del testo. Non so perché, ma mentre lo ascoltavo e leggevo le parole sullo schermo, avevo la sensazione che piovesse, anche se non pioveva. St Aubyn. Uno degli scrittori contemporanei più importanti al mondo, l’autore di una saga che è un capolavoro di letteratura e io ho amato fin da subito.

    Quando ha finito è venuto a sedersi in platea. Io stavo qualche posto più avanti e non ho potuto vederlo. Speravo di farmi fare un autografo prima che se ne andasse. Ero lì solo per quello: farmi autografare il suo libro. Sono un feticista degli autografi sui libri. Non potevo certo farmi scappare un’occasione così.

    Ma a un certo punto, mentre Vinicio Capossela si esibiva sul palco, vedo St Aubyn e Daniela che si alzano e se ne vanno, poi anche Sabine si alza e se ne va, e la segue anche il direttore della casa editrice. Ero seduto una fila più avanti di loro, e non ho capito cosa stesse accadendo. Ho pensato che dovessero fare chissà che, magari prepararsi per la firma delle copie, e ho pensato che quando fosse finita l’esibizione di Capossela li avrei raggiunti allo stand dei libri. Ma alzavo la testa sul pubblico e non li vedevo. Dopo un po’ mi sono detto: va be’, mi hanno mollato qui! Quando diventerai uno scrittore importante e famoso come St Aubyn, vedrai che la tua casa editrice si preoccuperà di non mollarti da solo come un carciofo nel bel mezzo di un festival letterario. Ma adesso è così, a ciascuno il suo. Vai a casa di corsa, scrivi un capolavoro da un milione di copie e poi potrai lamentarti quanto ti pare; fino ad allora però stai buono e fai finta che la giacca che porti stasera, quella firmata, sia un indumento che porti addosso abitualmente, e anzi, se hai deciso di metterti le scarpe da ginnastica non è perché non ne hai altre, ma perché sei un eccentrico.

    Così, quando il festival è finito, mi sono incamminato verso l’uscita, riassaporando con un certo piacere che definirei romanzesco l’aria di anonimato e normalità che in realtà mi piace così tanto: stare in mezzo alla gente, alle persone che amano così tanto la letteratura da stare un’ora in fila per ascoltare un autore di cui hanno adorato i libri. Ecco. Avevo ritrovato il senso vero del mio stare lì, nonostante i privilegi, il vero motivo per cui ero andato a Roma, al festival: ascoltare e vedere un autore di cui adoravo i libri.

    Ma non ero ancora uscito dalla Basilica che mi arriva un messaggio di Sabine: «Francesco scusaci, siamo dovuti scappare. Quando siamo andati via pensavamo che ci stessi seguendo. Vuoi raggiungerci per cena? Siamo a Piazza del Popolo.»

    Wow. Riprendo fiducia in me, mi pento di aver pensato che mi avessero mollato, mea culpa mea culpa; se solo fossi stato più reattivo e non fossi rimasto col culo incollato alla sedia, per paura di fraintendimenti, magari sarei anche andato con loro in taxi! La mia casa editrice è super, penso, e io ho avuto una fortuna della madonna. Ma era mezzanotte, avevo parcheggiato la macchina dietro il Colosseo e non avevo idea di come arrivare a Piazza del Popolo. E dovevo comunque tornare a casa a Frosinone, (un’ora e mezza di autostrada). Che fare?

    Rispondo: «Ciao Sabine. Non mi sono accorto che ve ne siete andati. È un po’ tardi, ma non posso dire di no. Non posso tornare a casa senza l’autografo di St Aubyn. Ma non so quando arrivo, quindi non mi aspettate.»

    Lei mi risponde: «Non preoccuparti, arriva quando vuoi. Vuoi che ti ordiniamo qualcosa?»

    Allora penso che la mia casa editrice è davvero super. Poi penso un ristorante a Piazza del Popolo: quanto può costare una cena in un ristorante del genere?

    Rispondo: «No, grazie, è troppo tardi per me per mangiare. Ma puoi dire a St Aubyn di prepararmi una bella dedica per il libro!»

    Non so perché ho rifiutato la cena. In realtà stavo morendo di fame. Me lo chiedo ancora adesso: perché l’hai rifiutato?

    Salgo in macchina, imposto il navigatore. Mi dice che ci vogliono dieci minuti per arrivare a Piazza del Popolo. Bene. Via.

    Sono arrivato dopo un’ora. Avrò incontrato tutti i camion dell’immondizia di Roma! Avete presenti quelle stradine strettissime dove passa una macchina sola? Ecco. Immaginate che sia lunga due o trecento metri, che ogni dieci metri ci siano dei bidoni dell’immondizia, e che ogni mezzo minuto il camion si debba fermare, che debba scendere il ragazzo con i guanti e la pettorina fosforescente, che debba caricare i sacchi e poi risalire e poi caricare e poi risalire. E tu stai lì dietro, chiuso dentro la macchina, mentre il tuo editore ti aspetta in un ristorante di lusso a Piazza del Popolo con l’autore di lingua inglese più importante del momento. Ti rode un po’ il culo.

    Però ce l’ho fatta. Quando sono arrivato avevano da poco finito il secondo e c’erano già un paio di bottiglie di vino vuote sul tavolo.

    Parlavano tutti inglese. Daniela e Sabine inizialmente hanno cercato di aiutarmi traducendo i discorsi, ma diventava troppo complicato e ho capito forse la metà delle cose che si dicevano. Mi sentivo imbranato come uno studente delle superiori all’università. Tuttavia l’incontro con St Aubyn è stato entusiasmante.

    Lui è proprio inglese, sembra più un medico che uno scrittore, e sembra strano a dirsi (anche un po’ incomprensibile) ma la prima cosa che ho pensato guardandolo e stringendogli la mano è stata che avesse le stesse mani del mio medico di famiglia, mani meticolose, con le stesse unghie tonde e corte. E siccome il mio medico di famiglia è l’uomo più preciso che conosca, ed è un grande appassionato di modellismo e falegnameria e fa cose strabilianti con il legno, ho pensato che St Aubyn scrivesse i suoi romanzi con la stessa precisione con la quale il mio medico costruiva i suoi modellini in legno.

    Poi mi è tornata in mente una cosa e ho avuto una vertigine: da ragazzino con i miei genitori andavamo spesso a cena a casa del mio medico, erano amici. Una volta, ricordo, prima di sederci a tavola, ci portò nel suo laboratorio di falegnameria e lì, al centro della sala, sopra alcuni cavalletti, era riprodotta in miniatura, pezzo per pezzo, con una precisione di dettagli imbarazzante, la casa in cui viveva e ci trovavamo adesso. Il mio medico disse che ci aveva lavorato anni su quel modellino. Era tutto in legno, una riproduzione fedele della casa, c’erano perfino i vasi sui balconi, piccoli come bottoni, con i fiori dentro. Non ho mai controllato se i fiori veri sui balconi fossero gli stessi che il medico aveva riprodotto sul modellino, ma sono convinto di sì.

    Così, mentre stringevo la mano di St Auby, pensavo al mio medico di famiglia, e pensavo che se St Aubyn fosse stato un medico della mutua ciociaro con la passione del modellismo, anziché un nobile inglese e uno degli scrittori più talentuosi e importanti del mondo, magari avrebbe espresso la sua creatività costruendo un modellino in legno dettagliatissimo della propria casa. Poi ho pensato: non è un po’ quello che ha fatto con I Melrose? Non è un po’ quello che hanno fatto tutti i grandi scrittori, da Joyce a Proust? Tentare di ricostruire in letteratura il proprio mondo e farlo diventare un’opera d’arte grandiosa?

    St Aubyn e il suo capolavoro, I Melrose. Erano anni che non leggevo un libro così, così potente, così vivo, così agghiacciante, così profondo, così vero, così pieno di talento narrativo e immaginazione, così affascinante.

    Volevo dirgli queste cose e molte altre, (in realtà volevo abbracciarlo) ma ero intimorito dall’inglese. Per tutta la cena sono stato in silenzio ad ascoltare, cercando di capire cosa si dicessero (il direttore editoriale di Neri pozza, Daniela, Sabine, St Aubyn). Verso la fine tuttavia ho preso coraggio e, facendomi tradurre, gli ho detto tutto quello che pensavo, che per me I Melrose era il libro più bello degli ultimi anni e tutto. Poi gli ho detto che era stato importante per me anche per il libro nuovo che stavo scrivendo, non solo perché il mio protagonista era un bambino degli stessi anni e con le stesse paure che ha il personaggio di Patrick nel primo romanzo della serie, ma perché mi aveva fatto capire quanto fosse importante dare spessore psicologico a tutti i personaggi, non solo ai protagonisti. Ma la cosa più bella, gli ho detto, era il modo straordinario in cui riusciva a portare alla luce l’interiorità dei bambini (Daniela ha tradotto la parola interiorità con soul) e lui a quel punto mi ha guardato quasi commosso, si è alzato in piedi come se volesse abbracciarmi, davvero, e mi ha stretto la mano ringraziandomi, dicendo che quel complimento lo avevano toccato.

    Prima che ce ne andassimo mi ha fatto una bella dedica sul libro, con una grafia chiara e precisa, (la stessa grafia che potrebbe avere il mio medico di famiglia se fosse uno degli scrittori più importanti del mondo, ho pensato) e poi mi ha fatto gli auguri per il mio romanzo, perché il direttore gli aveva detto che ero un nuovo talento della narrativa italiana e a settembre sarebbe uscito il mio primo romanzo, e a quel punto mi sono commosso io.

    Ma la giornata non è finita qui. Ce ne siamo andati dal ristorante intorno all’una a mezza. Sono arrivato a casa alle quattro. È stato un ritorno allucinante, come nel mio solito. Devo avere qualche strano potere di rendere surreale il mondo che mi circonda. È andata così.

    Sto seguendo tranquillo le indicazioni del navigatore, musica antiabbiocco in sottofondo, quando mi ritrovo in un quartiere buio di Roma, periferia, di fronte a un palazzone squallido di quelli in cui tengono gli archivi delle amministrazioni pubbliche. Torno indietro, riprendo la tangenziale, mi concentro, spengo la musica, penso che ho sbagliato a seguire le indicazioni del navigatore, così sto attento alla strada, ma dopo una decina di

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