Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Federico sta fuori
Federico sta fuori
Federico sta fuori
E-book271 pagine3 ore

Federico sta fuori

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Questa storia inizia un attimo prima dell'avvento dei social network e forse oggi non sarebbe potuta neanche cominciare. È l'8 marzo 2004 e, nell'immortale traffico romano, c'è un ragazzo che non sa che ore sono. Da qui parte "Federico sta fuori", un viaggio indietro nel tempo, in un mondo dove si poteva non essere sempre connessi. I vari personaggi - Alex, Pietro, Mirco, Caterina, Guido, Ludovica e l'introvabile Federico - sono ragazzi che si presentano nella loro più semplice quotidianità, coi loro momenti di gioia e di tristezza: incontri, matrimoni, fidanzamenti, abbandoni e incidenti di percorso che diventano veri e propri colpi di scena in un vortice di strane coincidenze, improvvise rivelazioni e scherzi del destino.
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2022
ISBN9788832815436
Federico sta fuori

Correlato a Federico sta fuori

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Federico sta fuori

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Federico sta fuori - Bonito Savino

    Prefazione

    Io e Savino Bonito facciamo lo stesso mestiere, un lavoro strano di quelli che poi la gente quando ti incontra ti chiede: Ma, insomma, esattamente che cosa fai?.

    Il nostro mestiere è fare il regista alla radio, un lavoro strano di quelli che poi la gente quando ti incontra ti chiede: Ma, insomma, che cosa fa esattamente un regista alla radio?.

    Io non ci provo nemmeno a spiegarglielo e anche scriverlo adesso sarebbe troppo lungo e pure inutile, perché invece devo parlarvi del vizio comune che abbiamo entrambi. La scrittura. Lo definisco un vizio perché in genere si fa da soli o tra pochi intimi e non se ne parla apertamente, esattamente come succede con tutti gli altri vizi.

    Però oggi ne parliamo. Parliamo di questo libro che avete in mano, il romanzo di Savino Bonito, Federico sta fuori, che non è un libro che ha a che fare con la radio, se non per qualche accenno, o con il nostro lavoro, ma è il libro di uno scrittore che probabilmente scrive da sempre, forse senza trovare il coraggio necessario di far vedere in giro ciò che scrive. Oppure, come è successo stavolta, trovandolo all’improvviso, questo coraggio.

    Quindi un giorno Savino mi si avvicina e si vede che ha capito che abbiamo lo stesso vizio. Infatti mi dice: «Ti posso far leggere una storia?». E io dico: «Benissimo» perché – anche se noi sembriamo a prima vista molto differenti, a guardarci io potrei essere suo nonno e se lui fosse mio nipote invece di chiedermi la paghetta mi passerebbe buona musica da ascoltare, perché Savino è anche un musicista – comunque condividiamo lo stesso vizio, la scrittura appunto, che poi in effetti è una passione molto bella, trascinante direi, soprattutto quando oltre a scrivere si legge pure con piacere, allora io gli ho detto: «Va bene, dammi la tua storia da leggere». Quindi l’ho letta e mi è piaciuta e a quel punto gli ho detto: «Savino, dai retta a me, continua a scrivere perché scrivere è bello, anzi scrivere è una delle cose più belle che si possano fare, soprattutto quando uno fa un mestiere strano come il nostro, per cui quando ti incontrerà la gente e ti chiederà: Ma tu esattamente che cosa fai?. A quel punto potrai rispondere: Io scrivo. Be’, attento alla domanda successiva, che in genere è: Ma ci guadagni abbastanza per vivere?.

    Ecco, questo è un altro discorso, noi non scriviamo per viverci ma è come se vivessimo per scriverci, ed è questo quello che ha fatto Savino Bonito, ha scritto una storia di vite che si incrociano, una storia di personaggi veri, efficaci, divertenti, che somigliano un po’ probabilmente a Savino Bonito e ai suoi amici, almeno come me li immagino io, ma forse, sotto sotto, potrebbero somigliare anche a me.

    E se a questo punto qualcuno quando vi incontra vi chiede: Ma che ci fai con questo libro in mano?. La risposta ce l’avete: Lo leggo. Ecco, insomma, leggetelo, ne vale la pena.

    Paolo Restuccia

    A chi vede l’invisibile e a chi mi ha insegnato a vederlo.

    Penso che ancora non siate pronti per questa musica, ma ai vostri figli piacerà.

    (Ritorno al futuro, 1985)

    Prima parte

    Coincidenze ovvero l’invisibile

    1.

    Federico sta fuori

    Roma, 8 marzo 2004

    Il vero problema è che non sistemo mai gli orologi con l’ora legale. Certe volte sì, ma è peggio perché poi non ho mai la certezza di sapere se l’orologio è in orario o no.

    Gli orologi non mi piacciono, non li ho mai portati. L’ultimo che ricordo l’ho buttato via dopo averlo smontato, rimontato – male – e smontato nuovamente. Avevo tredici anni. Mi piaceva smontare le cose, andare a vedere come funzionavano veramente. Smontavo tutto quello che mi passava a tiro. E quando non lo facevo io, era come se le cose venissero a morire tra le mie mani, da sole. A casa mi chiamavano Alex mani di forbici. Rompevo tutto. Nella mia famiglia si racconta che, il giorno che iniziai a camminare, feci i primi passi dritto dritto verso l’unico oggetto di valore presente in casa, un vaso mezzo Ming che aveva resistito anche al terremoto del Friuli, disintegrandolo all’istante. Da allora fu una strage continua. Nell’ordine: scacchi fatti a mano tramandati da generazioni, sedia d’epoca di nonna Maria, computer paterno appena arrivato dal Giappone, il Vespino di mia sorella che avevo rubato per portare Alessandra Torrisi a vedere Nightmare 3 – che poi neanche ero riuscito a pomiciarmela –, e poi macchine di amici, quadri, statue rare e una volta addirittura un lavandino: ero al liceo, ero andato a dormire dar Caricchia, un mio compagno di classe, e mi stavo lavando i denti spensierato quando urto il piccolo bicchiere degli spazzolini. Risultato: il bicchiere cade restando intatto, e sul lavandino un buco di sette centimetri. Una cosa mai vista e una vergogna che ancora me la ricordo.

    Ma saranno le sei e mezza o le sette e mezza? Magari lo chiedo a quella signora alla fermata. Oppure aspetto un semaforo rosso e chiedo a chi s’affianca. Perché se sono le sette e mezza, sono in ritardo. In mostruoso ritardo. Da che ricordo, sono sempre stato in ritardo, dal primo istante. Sono nato a dieci mesi, in piena estate, solo perché quella santa donna di mia madre si mise a ballare il twist, mentre il resto d’Italia si intrippava con la prog. Fosse stato per me, sarei ancora lì dentro. E poi a scuola, all’università, al lavoro, al cinema, a teatro. Sempre perennemente, disgraziatamente, inesorabilmente in ritardo.

    «Scusami, sai l’ora e… auguri!».

    «Una scusa più idiota non potevi trovarla!».

    …? Ma questa è scema… questa è matta. Se n’è andata, non ci credo! E oggi è pure la festa tua. Pensa come stai di solito.

    Rilassati. Respira. Sei in ritardo, sei solo in ritardo. Non devi agitarti, calmo. Ormai non puoi farci niente. Inutile stressarsi. Al massimo chiedi scusa. Arrivi serio, un po’ sudato, mortificato, testa bassa. E ti scusi. «Traffico» dici. Ti siedi. E amen. Tanto non iniziano senza di te.

    «Scusi buonuomo, mi sa dire l’ora?».

    «Le diciannove e quarantacinque».

    «Grazie». Lo sapevo, lo sapevo. «E muoviti!». Cazzo lo sapevo! Vibra il telefono. «Pronto, chi sei? Chi? Oh, ciao. No, sto ancora in mezzo al traffico. Sono in ritardo. Scusa, ti devo salutare: i carabinieri. Ciao, ciao».

    E ti pareva. Accosto, accosto:

    «Salve».

    «Patente e libretto».

    «Sì».

    «Lei parlava al cellulare».

    «No».

    «Cinque punti».

    «No!».

    «Sì».

    «Ma ne ho tre…».

    «Non più».

    «No!».

    «Sì».

    «E no!».

    «E sì».

    … Che giornata di merda! «Scusi, può fare in fretta? Ho un’importante cena di lavoro».

    «Ci vuole il tempo che ci vuole. Stia tranquillo tranquillo». Bravo, ti piace eh? Sei solo un triste, inutile, squallido frustrato. «Scusi agente, posso usare il cellulare da fermo, oppure mi toglie qualche altro punto?».

    «Giovanotto, non faccia lo spiritoso».

    Giovanotto? È quasi più antico di agente. Ai livelli di simpatica canaglia.

    Allora, com’era il numero: 06… 44… 532… 44… 2… no, 1. Speriamo che non risponda la madre.

    Tuuuuu.

    Speriamo che non risponda la madre.

    Tuuuuu.

    Speriamo che non risponda la madre.

    Tuuuuu. «Prondo?». Ecco appunto.

    «Salve signora, sono Alex, c’è Federico?».

    «No. Federico sta fuori».

    2.

    Il giro in bicicletta

    Fuori pioveva ancora, ma Caterina aveva deciso lo stesso di uscire in bicicletta. Erano tre settimane che tentava di farlo, ogni volta veniva giù il diluvio e doveva rimandare. Ma questa volta no, questa volta se lo era ripromesso: anche se nevica io farò il mio giretto in bicicletta. Da sola, nella festa più inutile della storia: come se bastasse un giorno per mettere in pari gli uomini. Non era tanto la voglia di andare in bicicletta, anzi la bicicletta e il ciclismo in generale l’avevano sempre annoiata terribilmente. Quando in giro incontrava quei gruppi infiniti di ciclisti per strada, doveva fortemente resistere alla tentazione di buttarne giù qualcuno. Quello che non sopportava era il fatto che le piogge torrenziali si ricordassero di rinfrescare e ripulire il mondo sempre e soltanto nei suoi giorni liberi e, in particolare, quando decideva di farsi un giro con la sua bicicletta vintage. Era gialla, col suo bel cestino davanti in stile Holly Hobbie e il sellino a forma di cuore. Sembrava appena uscita dalla fabbrica per quanto Caterina, malgrado la possedesse da anni, non fosse riuscita a utilizzarla quasi mai. Tutta colpa della pioggia.

    Caterina era convinta che la pioggia ascoltasse le conversazioni delle persone e fosse così dispettosa da andare a trovare proprio chi non la voleva, risparmiando sempre e solo gli assetati. Quando era piccola, e già spaventata dai tuoni, sua madre le raccontava che i temporali erano preziosi e necessari, perché venivano a dissetare tutti i prati, gli alberi e i fiori del mondo, nonché tutti gli uccellini, gli animali e gli insetti, fiaccati dalla sete e dal lavoro. Allora il buon caro signor Tuono veniva in aiuto delle nuvole, con i suoi tanti secchi ricolmi d’acqua. Ma era vecchio come il mondo, poverino; ogni tanto inciampava sulle sue stesse gambe e cadendo faceva scontrare tra loro i contenitori, scatenando quel frastuono assordante che tanto la spaventava. Il tuono era il segnale per tutti i bimbi addormentati che l’attempato signore aveva bisogno del loro aiuto; così, dal mondo dei sogni, correvano da lui per aiutarlo a trasportare i tanti secchi. Il vecchio stanco poteva ora riposare, sotto il suo puntuto cappello giallo a falde larghissime, nella quiete del silenzio, senza più frastuoni.

    Malgrado le amorevoli intenzioni di sua madre, Caterina aveva mantenuto una certa antipatia per quel vecchio guastafeste. Aveva imparato a non farsi sentire dalla pioggia, in modo che il signor Tuono non si svegliasse proprio mentre lei organizzava una gita o qualsiasi altra cosa prevedesse anche un bel sole. Aveva elaborato un metodo per ingannarla: parlava in codice, a bassa voce, ogni volta che doveva organizzare gite o uscite all’aria aperta. Il mare per esempio era quella cosa con le onde, la piscina si chiamava buca di cloro e così via. Se i suoi interlocutori non capivano, lei si metteva a mimare, generando spesso nel suo pubblico ilarità e stupore.

    Questa tecnica le aveva permesso qualche volta di passarla liscia. Ma oggi qualcosa era andato storto: qualcuno aveva di certo parlato ad alta voce. Sua madre. O forse il portiere. Avranno visto la bici fuori, pronta per l’uso, e sarà partito il solito entusiastico commento: «Ah bene, Caterina oggi si fa una passeggiata». Ed ecco lì che tutto si copre, la pioggia comincia a cadere e la mia uscita sfuma.

    A ogni modo, Caterina aveva già indossato il suo impermeabile rosa, dato da mangiare ai pesci rossi e preso le chiavi di casa, quando era arrivata la telefonata:

    «Pronto. Sì, sono io. Sì, certo. Tra un’ora? Bene, ci sarò».

    Mentre si cambiava in fretta e furia, il cielo piano piano chiudeva il rubinetto. Il tramonto già si stava preparando e un raggio di sole beffardo l’accecava proprio mentre si chinava per infilarsi gli stivaletti, strappandole un sorriso amaro. Lei ancora non lo sapeva, ma la sua vita, da qualche minuto a questa parte, era cambiata.

    3.

    La lavatrice

    «Cambiata questa scatolina qui, dovrebbe funzionare, signora».

    «E quanto vuoi, giovanotto? Dice la televisione che voi siete tutti ladri».

    «Non tutti, signora, non tutti». Mentre parlava, Mirco malediceva il giorno in cui sua madre lo aveva fatto onesto. Erano le vecchie come quella che meritavano di essere derubate a ogni istante. «Mi deve solo l’uscita, venticinque, più cinque euro per il ricambio».

    «Te ne do venti in tutto, caro il mio furbacchione».

    Che cosa? La contrattazione? No, la contrattazione no! Non c’era cosa che lo facesse incazzare di più. Mirco aveva sempre odiato le persone che pretendevano di dare il loro prezzo a tutto. Il prezzo lo fa chi lavora per una cosa, chi crea una cosa, chi prima la immagina e poi la realizza. Così dovrebbe essere. Così sarebbe giusto. Invece no. C’è sempre chi si crede un agente di borsa, a prescindere se sta comprando un’isola nel Pacifico o un braccialetto di pezza su una spiaggia. La contrattazione! Se un prezzo è troppo alto uno non compra, se è giusto compra. Semplice. Se si contratta a prescindere, ci sarà sempre quello che alza il prezzo in previsione della contrattazione e l’altro che lo abbassa troppo. Si chiama contrattazione preventiva.

    Mirco odiava contrattare, specialmente sul lavoro.

    «Signora, ora le spiego: la sua offerta così generosa non può essere da me presa in considerazione. Il costo del lavoro è pari a trenta euro. Né uno di meno né uno di più. Non sono solito dilungarmi con i clienti in contrattazioni sterili. Sono venuto qui per effettuare una riparazione al suo elettrodomestico difettoso. Ora funziona perfettamente al misero costo di trenta euro. Se il prezzo le sembra eccessivo, non ha che da dirlo. Io smonterò la scatolina che ho sostituito e andrò in un’altra casa, da un’altra signora con la lavatrice rotta. Che ne dice?».

    «Venticinque, te ne do venticinque. Ma è l’ultima offerta».

    «Signora, allora non ci siamo capiti. Le auguro una bella e costruttiva festa della donna». Mirco aveva già iniziato a raccogliere i suoi strumenti da lavoro. «Facciamo così, io me ne vado con tutte le mie cosine e lei chiama un altro idraulico».

    Mentre la signora partiva a descrivere la maleducazione delle nuove generazioni, di come non ci fosse più rispetto per le vecchiette indifese come lei, di come i giovani non avessero nessuna considerazione del denaro, Mirco aveva già smontato la scatoletta nera, rimesso quella originale e, senza dire più una parola, aveva salutato con la mano e chiuso la porta d’ingresso dietro di sé. Mentre scendeva le scale a piedi, riusciva ancora a percepire le imprecazioni di quella signora che, a prima vista, gli aveva ricordato una zia suora morta da anni.

    Il portiere, che all’andata lo aveva seguito con lo sguardo diffidente, adesso aveva anche smesso di spazzare a terra per dedicare tutto se stesso ad annuire con la testa in segno di solidarietà con la vecchia.

    Buttata la scatolina nera nel primo secchio dell’immondizia trovato per strada, Mirco aveva deciso di farsi un caffè in quel bar all’angolo.

    Il lavoro per oggi può aspettare. E forse, pensava, non solo per oggi.

    4.

    Un nome, un destino

    «Oggi hai solo Ludovica tra cinque minuti». Alessandra non era di molte parole. Al lavoro la chiamavano Essentiality. Quando parlava diceva solo, per l’appunto, l’essenziale. Riusciva a riassumere i concetti in otto, massimo nove parole. Efficientissima quanto sgradevole alla vista, considerava il lavoro come unica missione di vita e per questo lo amava, lo riveriva e, specialmente, non ne poteva fare a meno. Guido questo lo sapeva. Lo aveva capito subito, al primo colloquio. Aveva assunto Alessandra a occhi chiusi. Nel giro di due anni, la scuola guida non poteva più fare a meno di lei. E neanche Guido.

    Lui era uno di quei rari casi in cui il nome di una persona rispecchia, in modo così inesorabile, quello che fa nella vita: Guido Insegnobene, titolare della scuola guida Insegnobene a guidare.

    Prima di intraprendere la carriera per cui era nato, aveva provato a ostacolare in tutti i modi il suo destino. Da piccolo era l’unico adolescente che pregava i genitori di non comprargli il motorino. La patente l’aveva presa a ventiquattro anni. Anzi, a dirla tutta, l’aveva ricevuta in regalo dai suoi. Si era iscritto a Giurisprudenza, deviando in corsa su Lettere prima e Scienze politiche poi. A ventisette anni la svolta: incontra e s’innamora di un’antropologa-psicologa americana, Susy, che lo instrada alla psicanalisi moderna. Lui lascia Scienze politiche e si iscrive a Medicina per specializzarsi in psichiatria; lei lascia lui e va in Francia a proseguire il suo esperimento: la matta, patita di Freud, girava il mondo a sedurre giovani di tutte le età e nazionalità, per poi studiarne i comportamenti e la sessualità.

    Quando Guido scoprì di essere un esperimento, voleva abbandonare gli studi. Fu

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1