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Poi ti raggiungo (Giulia)
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Poi ti raggiungo (Giulia)
E-book255 pagine3 ore

Poi ti raggiungo (Giulia)

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Info su questo ebook

Giulia parte per Siena solo per frequentare un corso di aggiornamento di contabilità per l’azienda per cui lavora. E mai e poi mai avrebbe pensato che tre giorni sarebbero bastati per sgretolare tutta la sua vita, la routine, la stabilità acquisita negli anni, pur se fatta del controllo ossessivo del marito, facendo emergere una Giulia “nuova” o piuttosto la “vera” Giulia, quella che non aveva mai abbastanza tempo per se stessa ma in abbondanza da dedicare agli altri; al marito, ai figli, alla casa, al lavoro…
Incorniciata nella bellissima città di Siena, la storia affascina il lettore in un intreccio tra amore, passione, avventura, sensi di colpa, voglia di riscatto e di essere finalmente felice.  
“Avevo rinunciato a tutto per colpa della mentalità ottusa e bigotta dei miei genitori. Avevo creduto di potermi guadagnare un po’ di libertà sposandomi, uscendo di casa, e invece niente. Leo si era subito dimostrato geloso, possessivo, egoista.”

Patrizia Ghidinelli nasce a Brescia nel 1970. Si laurea all’Università Statale di Milano in Scienze Politiche e decide di intraprendere la sua carriera lavorativa nella Pubblica Amministrazione. Vive in un piccolo paese in provincia di Brescia con il marito e i due figli. Ha sempre avuto sin da bambina la passione per qualsiasi tipo di lettura, dai fumetti ai tomi impegnati di centinaia di pagine. Ha iniziato a scrivere racconti quando ancora gli unici mezzi per farlo erano carta e penna o la macchina da scrivere ma, solo ora, a cinquant’anni, ha deciso di mettersi in gioco.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2022
ISBN9788830667402
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    Anteprima del libro

    Poi ti raggiungo (Giulia) - Patrizia Ghidinelli

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    1 - Martedì 17 ottobre

    - Lisa

    Lisa, e i suoi occhi blu. Occhi che fissavano la parete di fronte a lei. Erano blu come il mare, blu come il cielo di Lisbona, la sua Lisbona, in una giornata di sole. Lo sarebbero stati ancora per poco. Quella luminosità si stava lentamente spegnendo. Perché Lisa era morta. Uccisa. Spinta con violenza contro una parete in ristrutturazione da dove fuoriusciva un tubicino di acciaio, spesso quanto la punta di un trapano. Da quel tubo sembrava sgorgare un rivolo di sangue rosso acceso che, come una fontanella colorata, in realtà fuoriusciva dalla nuca di Lisa, ormai appoggiata inerte con la schiena contro la parete. Da lì, il sangue proseguiva la sua strada seguendo la forma del corpo della ragazza. Le scendeva sulla spalla destra, una spalla nuda, spogliata di un top luccicante strappato con forza.

    La parete avrebbe dovuto essere bianca, candida e odorante di vernice fresca. Invece era cosparsa di chiazze rosse. Il muro bianco e le macchie rosse avrebbero potuto far pensare ad un’opera di Pollock, ma la presenza del cadavere di Lisa lo rendevano la scena di un crimine.

    La scia rossa continuava la sua strada, colorando contemporaneamente il braccio destro di Lisa e la parete su cui la sua pelle dorata poggiava. Dove il gomito formava una curva, la scia rossa si divideva in due diverse direzioni. Una scia colava sulla parete verso il pavimento in direzione verticale, la seconda seguiva la linea dell’avambraccio nudo fino al polso, da dove poi cominciava a gocciolare sul pavimento. Due pozzanghere di sangue. Una contro la parete, una contro la natica destra della ragazza. Ancora pochi minuti e si sarebbero congiunte formando una sola unica pozzanghera rossa.

    - Io, Giulia, quella solita.

    La pioggia era incessante. Per la terza volta, cazzo. Era la terza volta che andavo a Siena e per la terza volta mi ritrovavo a vedere la città sotto scrosci di acqua. Che palle. Devo dire che, a differenza delle due volte precedenti, dove durante entrambi i soggiorni non avevo mai visto un raggio di sole, quella volta ero ottimista. Mi dovevo fermare fino a sabato, e le previsioni meteorologiche erano favorevoli già a partire dal giovedì successivo.

    Ero appena rientrata dal corso di aggiornamento sul nuovo software di contabilità. Una vera noia. Il corso era iniziato il giorno precedente, di lunedì, solo di pomeriggio, per dare tempo a tutti i partecipanti di arrivare con calma, anche per chi doveva, come me, venire da province più lontane. Avevo dovuto sopportare l’intera giornata di quel martedì e mi aspettava un’altra intera giornata il giorno dopo. Venivo da Brescia, ero la vice-responsabile del settore contabile dell’azienda dove lavoravo. Avevano mandato me, vabbè, poi spiegherò il come e il perché, ma ne ero felice (a parte la noia del corso). Al rientro avrei dovuto istruire gli altri colleghi sulle nuove procedure da adottare.

    Era la prima volta che andavo fuori sede per lavoro. Fino a quel giorno avevo potuto, (in realtà dovuto) accampare la scusa dei figli piccoli, perciò ero sempre stata graziata dalla responsabile, Anna, anche se in realtà la vera causa era la gelosia morbosa di Leonardo, mio marito, del suo fiato sul collo che mi toglieva l’aria e mi teneva costantemente sotto il suo morboso e ossessivo controllo. Grazie al cielo, fino ad allora, Anna era stata comprensiva, senza doverle spiegare ogni volta la situazione (era intelligente, aveva capito perfettamente come funzionava la mia vita) e per evitarmi problemi mi aveva concesso di non lasciare la sede nemmeno quando sarebbe stato veramente necessario. I miei figli nel frattempo erano diventati due ragazzi grandi, perfettamente autonomi (più o meno) e io non avrei più potuto utilizzare loro come scusa.

    Misi Leonardo davanti al fatto compiuto. Non dovevo andare io, doveva andare Anna, ma l’hanno chiamata in ospedale per un intervento chirurgico. Posso andare solo io al suo posto, neanche la dirigente ci capirebbe qualcosa, non potevo dire di no, cerca di capire... e poi almeno vado a trovare Claudia, non ci vediamo da anni....

    Ovviamente si erano aperte discussioni su tutti i fronti. Non intendevo cedere. Non ne potevo più. Anna sapeva che mi avrebbe messo in una situazione famigliare difficile, ma sono convinta che forse, consapevolmente, voleva mettermi in condizione di prendermi una pausa dalla mia famiglia e farmi capire che così non potevo continuare.

    Se tuo marito ti fa storie dimmelo che ci parlo io.

    Era una bellissima donna, molto femminile, ma con sotto due palle che la facevano tenere testa a chiunque. Tutto il contrario di me, che avevo timore e remissione persino della mia ombra.

    Claudia, invece, era la mia migliore amica dai tempi delle superiori. Si era trasferita a Siena dopo il matrimonio con Luca. Non appena le avevo comunicato che mi sarei recata a Siena per lavoro mi supplicò di fermarmi qualche giorno per ritrovarci dopo anni che non ci vedevamo e, soprattutto, dopo centinaia e centinaia di telefonate e messaggi whatsapp. Avevo accettato la proposta di fermarmi più del necessario (ormai, discussione in più, discussione in meno con Leonardo, l’astio era alle stelle), a condizione di lasciarmi soggiornare in hotel. Non avevo nessuna intenzione di recare disturbo a loro come coppia, e anche io preferivo sentirmi più libera. Inoltre, le prime tre notti erano a carico dell’azienda, le successive due le avrei pagate di tasca mia, prendendomi il venerdì di ferie e rientrando a casa il sabato mattina, in treno, con calma.

    Ci saremmo viste quel martedì sera, visto che la precedente non era stato possibile a causa dei loro impegni.

    Ero rientrata dal corso inzuppata d’acqua fino alle ginocchia. Ero salita velocemente in camera per una doccia calda e un phon veloce. Devo dire che, pur essendo un hotel a quattro stelle il phon lasciava a desiderare. La forma era decisamente originale, ergonomica, quasi avveniristica. Sembrava uscito da un film di fantascienza, da qualche navicella spaziale. Color argento, in tono con tutti gli altri accessori del bagno, ma alla fine con quella odiosa serpentina di plastica che hanno gli altri phon e con un getto d’aria tiepido e leggero che non aiutava certo se volevi farti una piega. Ecco, quello era l’unico neo dell’hotel, per il resto era tutto una coccola, un’attenzione che non credo ricordo aver mai ricevuto altrove. Mi ero portata l’unico abito invernale carino che avevo (tanto non uscivo mai, non ne avevo bisogno di altri), un vestitino in maglina nero, poi un filo di lucidalabbra, ed ero scesa di sotto, ad aspettare Claudia e Luca che sarebbero venuti a prendermi per poi andare a cena insieme.

    La hall si presentava come una grande sala con una reception semicircolare, leggermente spostata a sinistra rispetto alle due grandi porte d’ingresso. Era arredata in stile moderno, colori chiari ma accoglienti, mobili lisci, senza tanti fronzoli o ricami. Pavimento chiaro, pareti bianche, niente quadri, ma stampe in bianco e nero. Alcune piante di fiori accanto alle colonne. L’unico mobile in legno era la reception. Dietro il bancone, in quel momento, c’era Francesco, un giovane di circa venticinque anni. Avevo avuto modo di conoscerlo la mattina precedente, quando ero arrivata in hotel, per il check in. Non mi era sfuggito il fatto che fosse un bellissimo ragazzo, alto almeno un metro e ottanta, robusto, e nonostante mostrasse meno dei suoi anni aveva occhi svegli, ed era chiaramente consapevole della sua bellezza.

    Faceva i turni di mattina e, anche quella stessa mattina mi ero intrattenuta con lui alcuni minuti a chiacchierare. Era piacevole, ogni volta che passavo o incrociavo il suo sguardo mostrava sorrisi smaglianti. Devo dire che non mi dispiacevano le sue carinerie ma, considerando la differenza d’età, lo ricambiavo sempre con un sorriso sì altrettanto dolce, ma affettuoso e materno, tanto per non creare equivoci, non si sa mai cosa pensano i ragazzi di oggi. Mi sorpresi di vederlo al lavoro anche quella sera.

    - Buonasera Francesco. Come mai di turno anche stasera? Non ti basta più lavorare mattina e pomeriggio? - avevo detto consegnandogli le chiavi della stanza.

    - Buonasera a lei, Giulia. E sì, sissignora, fino a mezzanotte sarò qui, una sostituzione dell’ultimo minuto. Sarò qui pronto per augurarle la buona notte se rientra per quell’ora, proprio come Cenerentola. Non cena in hotel stasera?

    - Stasera no, vengono a prelevarmi due carissimi amici e mi portano a cena con loro, non so ancora dove, ma mi si dice sia un locale dove cucinano i migliori pici al ragù di chianina della città. E spero davvero di fare la Cenerentola, non mi va di rientrare tardi, domani devo alzarmi presto per lavoro.

    - Se è il ristorante migliore di Siena, azzardo La collinetta, è il ristorante tipico per i pici al ragù di chianina con le migliori recensioni da due anni a questa parte. Comunque pensavo a Cenerentola, non tanto per l’orario di rientro, ma perché è bella come una principessa, stasera.

    - Ti hanno insegnato bene il tuo mestiere vero? Fai il bravo Francesco, mi raccomando, fai il bravo. Comunque, se non ci vediamo entro mezzanotte, ti farò sapere domattina come ho mangiato. Intanto mi siedo su quella splendida poltrona ad aspettarli. Buon lavoro.

    - Grazie, e a lei buona serata, signora.

    - E smettila di chiamarmi signora. Lo sai come mi chiamo.

    Mi fece un ampio sorriso. Avrà anche avuto pochi più anni dei miei figli ma era divertente sentirsi rivolgere complimenti galanti.

    Mi ero seduta su di una poltrona in un angolo riservato della hall, da dove si poteva osservare contemporaneamente sia ciò che succedeva all’interno, sia ciò che avveniva all’esterno, attraverso la grande vetrata che dava sul vialetto d’ingresso nel giardino.

    La vetrata offriva uno spettacolo da cartolina. L’hotel era ai piedi della collina su cui poggiava Siena. Una vista sulla città illuminata. Guardavo fuori dal vetro incantata, come quei bambini che appoggiando i lati esterni delle mani ci infilano dentro la testa e, appoggiando la fronte al vetro, non si staccano più. Lo sguardo lontano mi rimandava mille immagini velate da luci giallo oro sotto il cielo ancora grigio e nero. Lo sguardo più vicino mi offriva la vista di un giardino curato e un vialetto di ciottoli bianchi bagnati illuminati dal riflesso dei lampioni arancioni. L’oscurità della sera specchiava nel vetro l’interno dell’albergo e le gocce di pioggia che sbattevano di traverso emettevano una musica ritmata, ma rilassante.

    Luca e Claudia sarebbero dovuti venire a prendermi per le diciannove e trenta. Mancavano quindici minuti. Era ancora presto, ma non avevo mai sopportato di arrivare in ritardo e in tutta la mia vita non lo avevo mai fatto. Piuttosto aspettavo mezz’ora, ma anche solo un secondo di ritardo non me lo sarei mai perdonato.

    Sul tavolino di cristallo di fronte a me erano appoggiate disordinatamente alcune riviste, soprattutto guide di Siena, depliants pubblicitari di locali, ristoranti, eventi, sia in italiano che in diverse lingue straniere. Ne presi una a caso, nemmeno la prima disponibile, così, rovistando in mezzo a tutte. Era una rivista in lingua francese. Mi chiesi se fosse stata acquistata direttamente dall’hotel o se l’avesse volutamente lasciata qualche turista dopo essersene andato. O forse l’aveva addirittura dimenticata. Di certo, fosse stata mia, non l’avrei dimenticata, me la sarei portata a casa come ricordo, perché le immagini della città erano autentiche cartoline professionali. Quindi conclusi tra me e me che forse era di proprietà dell’hotel.

    Cominciai a sfogliarla e quindi a leggerla. Mi piaceva, ogni volta che ne avevo l’occasione, mettere alla prova il mio francese, l’inglese o lo spagnolo, e mi compiacqui con me stessa nel vedere che me la stavo cavando egregiamente anche in quell’occasione. Diciamo che tutti gli anni di film e serie tv in lingua originale sottotitolata erano serviti a qualcosa. Sicuramente più di quanto non fossero servite le noiose lezioni scolastiche.

    L’hotel La Farnia, pur essendo a ridosso della città, era immerso in un ampio spazio verde, isolato da altre strutture, per cui le uniche macchine che si vedevano passare erano quelle dei clienti che poi sarebbero arrivati alla struttura.

    Per questo motivo, quando vidi con la coda dell’occhio i fanali di un’auto avvicinarsi lentamente e, in crescendo, avevo sentito il rumore delle ruote rotolare sui ciottoli del vialetto, avevo alzato la testa dalla rivista e, istintivamente, avevo guardato fuori, avvicinando il viso contro il vetro, convinta e fiduciosa fossero la mia migliore amica e suo marito. Era ottobre, e alle sette di sera era già buio come a mezzanotte, anche per colpa di quel maledetto maltempo che non favoriva il chiarore della luna.

    L’auto scura si mimetizzava perfettamente con il buio che avvolgeva l’albergo.

    Con la fronte completamente appoggiata contro il vetro, osservai l’intera scena e, nonostante il mio proverbiale pudore e la mia riservatezza, in quell’occasione non riuscii a girarmi dall’altra parte e fare finta di nulla.

    L’autista dell’auto scura era sceso dalla macchina prima di tutti. Aveva aperto il bagagliaio e ne aveva estratto un grande ombrello nero, con l’intento di proteggere i passeggeri dalla pioggia che non accennava a smettere.

    Ah, a proposito, non erano Claudia e Luca.

    Non aveva ancora richiuso lo sportello del baule che dall’auto erano uscite quattro ragazze che ridevano divertite. Burlandosi dell’autista che cercava di proteggere ora una, ora l’altra dalla pioggia, queste lo sfuggivano, correndo verso l’ingresso e ringraziandolo a voce alta.

    Che stronze!, avevo pensato, vedendo il loro atteggiamento irriverente nei confronti di una persona che si era inzuppata di pioggia nel tentativo fallito di risparmiare loro lo stesso disagio. Indossavano abiti succinti, troppo, considerando la temperatura esterna e il periodo dell’anno. Potevano essere adatti ad una velina, ma non certo per una serata in un hotel a quattro stelle come quello. Mi chiesi come fosse possibile che un hotel di lusso come quello permettesse quel tipo di clientela. Dubitai che fossero ospiti. Magari l’albergo offriva qualche spettacolo serale? Ci poteva stare. Un quartetto di cantanti o ballerine, chissà. Sicuramente erano un siparietto molto colorato già vestite così.

    Però l’automobile era un’auto di lusso, Un’auto blu? pensai immediatamente. Ok ebbi un’illuminazione, sono escort!.

    Ogni mio dubbio venne fugato dopo che le quattro ragazze furono entrate e, una volta avvicinatesi alla reception, mostrando tutto il loro splendore al povero imbarazzato Francesco, gli avevano sussurrato di essere le ospiti che aspettava il signor palesemente nome in codice Rossi.

    Delle quattro ragazze una non avrebbe potuto avere neanche vent’anni. Si chiamava Anita. Altezza media, magra al limite dell’anoressia, un corpo acerbo, con la pelle chiara, di quelle che anziché abbronzarsi, al sole si sarebbero ustionate. Aveva capelli neri e corti, era quella con il viso più simpatico, più ingenuo. Era l’unica delle ragazze ad indossare degli short pants, attillatissimi, che non nascondevano nulla, nemmeno quella leggera impercettibile presenza di cellulite. Non me lo facevo mai sfuggire quel dettaglio. Eh, insomma. Io alla soglia dei cinquanta, in fatto di cellulite, ero messa meglio di tante ragazzine. La cosa mi inorgogliva, ma mi faceva anche preoccupare per mia figlia. Mi ero convinta che l’alimentazione odierna influisse negativamente sulla

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