Il lavoro senza virgola che sogno
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Anteprima del libro
Il lavoro senza virgola che sogno - Michele Palazzetti
Europeo
Lettera aperta
a chi progetta il suo futuro professionale
di Andrea Ciucci Giuliani
Ho sempre provato invidia per gli autori di Vademecum
; per quelli, cioè, che riescono a scrivere come essere felici senza soffrire mai, come mantenere a lungo l'amore senza litigare mai, come dimagrire senza dieta... Ma ora che mi trovo con voi a parlare del vostro progetto di orientamento, non me la sento di ridurre tutto ad un semplice manuale d'uso.
L'argomento è molto complesso: i criteri per costruire un progetto umano e professionale, nel momento in cui si sta verificando la più grande crisi economica globale di tutti i tempi.
Proverò a scrivere qualcosa che possa esservi utile.
Per anni si è pensato che per cercare un lavoro bisognasse guardarsi bene intorno, cogliere le occasioni, conoscere le persone giuste, andare a visitare scuole e aziende. Tutto questo è comunque utile, ma oggi è quantomai necessario guardare dentro di sé. Conoscersi al meglio, per sapere cosa vogliamo e cosa non, cosa siamo e cosa non, cosa ci piace e cosa non.
Per prima cosa tutti noi abbiamo dentro sin dalla nascita qualcosa verso cui siamo già predisposti: un'attitudine gentilmente concessaci dai nostri genitori, o, comunque, trasmessaci dalla nostra più ristretta cerchia familiare. Se vi appassionaste alla storia dei vostri amici più cari imparereste che ci sono stati piccoli e precoci cantanti, atleti, musicisti, oratori, più o meno riconosciuti dall'ambiente (famiglia e scuola) che ne ha colto e restituito, o negato e stroncato le attitudini iniziali.
Ricordo uno dei primi incontri fatti con una platea di ragazzi sul tema dell'Orientamento. Si parlava, appunto, di Attitudini, ed un ragazzo spettinato che sembrava essersi appena svegliato mi disse in dialetto romano a dotto’, a me le attitudini non me l'hanno date. Se so’ scordati...
Non è possibile, tutti abbiamo delle cose dentro; è spesso l'ambiente che non le mette in evidenza, che non ce le restituisce e questo è un gran peccato, perché quando questo accade esse si estinguono e noi perdiamo una grande occasione: sapere cosa sappiamo fare meglio e con più facilità. Avere una attitudine non vuol dire non dover fare fatica o non dover studiare mai per perfezionarla, ma vuol dire partire con un vantaggio e tutti potremmo farlo, dobbiamo solo esserne consapevoli ed in questo ci possono essere molto d'aiuto, in primis, genitori ed insegnanti.
Nelle situazioni in cui i papà e le mamme, insieme alle maestre e i professori, si concentrano su quello siamo e che sappiamo fare, rilevando il positivo, spesso noi finiamo per intensificare lo sforzo in quelle direzioni, diventando sempre più bravi e strutturando delle vere e proprie preferenze. Dedico il mio tempo libero a suonare il violino, perché questo mi fa stare bene, mi gratifica e piano piano mi rappresenta.
Un'attitudine ben identificata e sviluppata diventa, dunque una preferenza, una cosa che preferisco e che mi riesce meglio.
Le preferenze sono inizialmente fantastiche; da bambini si vuole spesso diventare Zorro (avete sentito parlare di quello con la mascherina ed i baffetti, grande spadaccino?), Superman; poi, più grandini, ci affascina il guadagno, il riscontro oggettivo...
Avrò avuto dieci anni e, seguendo mio padre nei giretti del Sabato mattina
, mi ritrovai al solito benzinaio per fare rifornimento.
Era bello il rituale dell'incasso da parte sua; lui tirava fuori un portafoglio consumato ed essenziale ed io guardavo attraverso il finestrino quella montagna di banconote, immaginando fosse il suo guadagno. Sognai per un po' di poter fare, da grande, il benzinaio, fino a quando mio padre mi spiegò che solo una piccolissima parte di quel denaro rimaneva in realtà nel portafogli di quell'uomo.
Verso i diciotto, venti anni cominciamo a strutturare un’identità più definita e le nostre scelte, le nostre preferenze, cominciano ad appartenerci e ad assomigliarci di più: si può dire di noi che abbiamo uno Stile (modalità individuale).
Non era nel mio stile, già allora, trent’anni fa, fare il servizio militare; troppo dialettico ed idealista! E così optai per l'obiezione di coscienza, che all'epoca durava ventiquattro mesi e comportava qualche problemino.
Non mi apparteneva neanche la possibilità di un lavoro in banca, che aveva accompagnato mio padre per quaranta anni; non avevo i tratti di personalità per amministrare un lavoro routinario e, soprattutto, fondato sui numeri, con i quali avevo litigato da piccolo. Così optai per la psicologia.
Nella scelta, che oggi a distanza di trent’anni confermo, ha avuto un peso non trascurabile il bisogno di dare un senso alla mia professione. L'idea di utilizzare e spendere alcuni miei tratti e caratteristiche al servizio della promozione del benessere altrui è stato un valore sempre molto motivante per me. Attenzione, non si tratta di missioni umanitarie, né di volontariato filantropico; la psicologia è una scienza e come tale va studiata, approfondita. Ci vogliono tra i dieci ed i dodici anni per poterla esercitare! Ma ha come oggetto di intervento, gli altri. Il valore sotteso è gli altri
.
Per quanto l'idea del lavoro stia trasformandosi e stia assumendo sempre di più caratteristiche di dinamicità e cambiamento continuo, per lavorare con soddisfazione e successo è necessaria una grande volizione.
La volizione va oltre la volontà; essere volitivi vuol dire rimanere motivati a lungo, vuol dire saper rileggere gli errori non considerandoli fallimenti, vuol dire rialzarsi dopo una caduta e riprendere il viaggio verso l'obiettivo che ci siamo prefissati. La volizione non è parte del patrimonio genetico; alla volizione si viene educati, è nel bagaglio culturale della famiglia in cui nasciamo o non lo è.
Un’ultima riflessione vi chiedo, su una variabile meno nota e visibile, ma ugualmente importante. Le aspettative. Quanto incidono nelle scelte le aspettative che i nostri genitori hanno nei nostri confronti?
Tutti i genitori hanno delle aspettative più o meno consapevoli nei confronti dei loro figli e, queste, possono incidere molto, sia al rialzo che al ribasso. Mi spiego meglio.
Un inverno di circa quindici anni fa mi trovavo in un paesino della Romagna e stavo restituendo profili di orientamento a ragazzi e ragazze di una terza media alle prese con la scelta della scuola superiore.
Erano davanti a me un ragazzo esile ed insicuro e suo padre, un uomo chiuso ed incupito che stava lì con la testa bassa ed ascoltava in silenzio.
Dissi che i dati emersi dal test parlavano di un ragazzo in gamba, con delle buone attitudini, un buon metodo di studio; tanto da poter affrontare piuttosto tranquillamente un liceo.
Mentre parlavo, il ragazzo assunse un atteggiamento come di chi si guarda intorno sorpreso, come a dire parli di me?
.
Durante il colloquio la sua posizione sulla sedia era cambiata; ora era più dritto e cercava con insistenza lo sguardo del padre che, però, non accennava ad alzare gli occhi. Solo quando io mi fermai aspettandomi un feedback da loro, l'uomo alzò lentamente lo sguardo e direzionandolo su me disse: Senta, io fatico tutti i giorni nella mia azienda e ad oggi un panino con la mortadella posso garantirlo, a mio figlio ed alla mia famiglia. Non so se tra qualche anno potrò fare lo stesso, quindi penso sia meglio che mio figlio faccia ragioneria, in modo da poter lavorare presto nella nostra azienda
.
Durante il suo breve e lapidario intervento non cercò mai lo sguardo del figlio e detto questo, si alzò sollecitando l'uscita del ragazzo, che nel frattempo si era riaggomitolato sulla sedia.
Lungi da me voler giudicare quel padre, di cui non conosco la storia e di cui rispetto la fatica e la cultura del lavoro che si portava dentro, ma voglio soltanto estrapolare da questo episodio la dinamica emotiva che si era instaurata tra lui ed il figlio.
Quel padre, a causa di un pragmatismo forse necessario, ma certamente lapidario e per nulla interlocutorio, non aveva nemmeno per un attimo alzato la testa a cercare il figlio e con questo atteggiamento aveva comunicato che non c'era molto spazio per sognare, o investire sulle potenzialità del ragazzo, dal quale si aspettava che potesse fare il ragioniere nella sua azienda e nulla più.
Quel figlio, abituato a volare basso
e che si era illuminato al sentire questo estraneo parlare in modo insolito di lui, era stato immediatamente riportato a terra dal papà con un'immagine abbastanza cruda, come quella del panino con la mortadella. Le aspettative del padre erano quelle e non consentivano una strada diversa, più aperta e creativa per lui.
Alla stessa maniera possono essere penalizzanti aspettative eccessive da parte dei genitori, come nei casi di padri o madri con professioni prestigiose, che insinuano nei figli l'idea che debbano proseguire ed ulteriormente sviluppare quei lavori essendone all'altezza.
Quando un papà o una mamma sono modelli irraggiungibili, spesso i figli hanno due strade: tentare faticosamente l'inseguimento, o andare a posizionarsi sul versante opposto dell'asse, scegliendo il disimpegno e, a volte, la mediocrità.
Ma detto ciò, vi chiederete: cosa c'entra questo discorso un po' romantico ed idealista con una società che affida ai test d'ingresso la possibilità di entrare nell'importante iter formativo universitario? Rispondo con dolore: niente.
Negli ultimi quindici, venti anni, sono stati distrutti anni di ricerche sulla psicologia dell'orientamento, affidando totalmente l'esito ai quiz. Voi studenti siete tornati a scegliere sulla base del caso, piuttosto che sulla base di quello che siete.
Così assistiamo a incongruenze assolute. Volevo fare medicina, ma poiché i test sono difficili, forse tenterò biotecnologie
. "Avrei scelto logopedia, ma siccome ad Alessandria, in Piemonte, c'è scienze naturali senza il test d'ingresso, andrò a studiare