Sentieri della diversità e dell'uguaglianza: Un percorso di impegno professionale e sociale nella lotta al Covid-19 in Italia e all'AIDS in Africa
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Info su questo ebook
SILVIA BIGNAMINI
Nasce a Monza nel 1975, si laurea in Medicina e Chirurgia nel 2000 e si specializza in Igiene e Medicina Preventiva nel 2004 con l’Università di Milano-Bicocca. Vive e lavora in Africa per 12 anni, prima in Zimbabwe e poi in Mozambico. Si impegna nella lotta all’AIDS e alla malaria che rappresentano le principali cause di mortalità in questi Paesi. Nel 2015 completa un Master con l’Università di Liverpool in gestione internazionale dei sistemi sanitari. Lo sviluppo professionale internazionale spazia dal lavoro di medico sul campo a quello di consulente di direzione ministeriale e infine con l’OMS dove si occupa di pianificazione e monitoraggio dei sistemi sanitari. Rientra stabilmente in Italia e dal 2019 lavora come direttore sanitario presso un ente religioso di Bergamo dove vive l’epidemia da virus Covid-19
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Anteprima del libro
Sentieri della diversità e dell'uguaglianza - Silvia Bignamini
Covid-19
PRESENTAZIONE
di Flavio sangalli
Conosco Silvia Bignamini fin dalla sua infanzia per la pluriennale frequentazione di amicizia con i suoi genitori. Ho potuto così seguire il percorso educativo e professionale che l’ha caratterizzata fino ai giorni attuali e in esso ho visto i tratti distintivi delle testimonianze di vita professionale e personale che sono promosse da questa collana di libri.
Il testo che lei ha scritto corrisponde benissimo a queste caratteristiche, che tra l’altro trovano una grande corrispondenza con i comportamenti organizzativi e personali definiti nel mio ultimo libro di management (ALTRA PRESTAZIONE, Ed. Mursia 2020.)
Il percorso di impegno professionale e sociale di Silvia Bignamini è infatti caratterizzato da forti valori motivanti che hanno dato uno scopo alle sue scelte e azioni. Sono i valori dell’etica, del sevizio agli altri e della qualità professionale. Ad essi si accompagnano una grande disponibilità al cambiamento, allo sperimentare contesti e situazioni sfidanti, alla disponibilità all’apprendimento continuo e alla formazione continua per coltivare sempre la migliore professionalità che si possa mettere in campo.
Particolarmente significativi sono i riconoscimenti dati a tutte quelle persone che le hanno fatto da maestri, essendo per lei positivi esempi nella professione e nella vita.
Silvia Bignamini è una manager con una forte motivazione sociale e professionale per l’importanza che dà ai comportamenti prima descritti e perché vede il valore del noi, della squadra per ottenere risultati.
E con una sensibilità tipicamente femminile che la caratterizza sa esprimere riconoscenza e riconoscimento anche al compagno, ai figli e ai genitori, anche loro componenti della sua squadra affettiva
che tanto l’ha sostenuta nel raggiungere i suoi traguardi professionali e sociali.
PREFAZIONE
di Suor Anna Maria Villa
Ci vuole coraggio per riprendere la propria storia e le proprie esperienze durante un periodo di crisi. Complicato. Destabilizzante.
Non è inusuale nella vita, così come nelle scienze e nelle esperienze umane dover rivedere delle circostanze simili per giudicare, comprendere, dare significato all’oggi. Ogni passo passato ci avvicina al senso del presente, si ridecodifica, dallo spessore tridimensionale a ciò che altrimenti sarebbe solo immagine fotografica.
Ma se devi riprendere una storia per capirne di più il senso devi essere onesto. Spogliare il passato dalla patina del romanticismo, delle etichette facili, delle scuse e riviverlo nell’attuale. A sua volta l’oggi non deve avere alibi, chiusure difensive.
Mi pare proprio che questo coraggio Silvia Bignamini lo abbia avuto. Anche quando era un po’ scomodo ammettere certi passaggi. A volte con tratti giornalistici, altre volte più attrice del dramma
della vita che si svolgeva, ha saputo narrare qualcosa che ancora non fa parte del nostro passato.
Questo, al di là dell’aspetto documentale, potrà forse aiutare qualcuno a ritrovarsi, a rileggersi attraverso la sua esperienza, riconoscere qualcosa di sé e che qualcosa di buono può sempre avvenire.
Introduzione
Mi è sempre piaciuto scrivere.
Tenevo pagine di diario fin dalla scuola elementare.
Conservo scatole piene di lettere ricevute da diversi amici negli anni in cui ancora non esistevano le mail, precedute e seguite da lettere inviate da me.
A 18 anni mi regalarono anche un libro fatto di pagine vuote che avrei riempito con il mio primo romanzo. Ai tempi ero appassionata degli Aborigeni australiani e avevo deciso di scrivere su di loro perché non venissero dimenticati.
Come affermava lo scrittore e giornalista polacco Kapuściński, anche io penso che È sbagliato scrivere di qualcuno senza averne condiviso almeno un po’ la vita
.
Non avendo ancora avuto modo di andare in Australia, scrissi quindi la bozza di un romanzo ambientato in Mozambico dove ho vissuto per 10 anni.
Lo feci leggere e correggere da alcune amiche ma poi non lo ripresi più in mano e quindi è rimasto nei miei file sul computer. Così resterà finché un giorno forse deciderò di completare la revisione e vedere se ne uscirà qualcosa di utile da divulgare.
Questa narrazione nasce per caso.
Un caro amico di famiglia, che mi conosce fin da piccola, ha ideato questa collana e mi ha parlato dell’idea, che ho subito ritenuto interessante.
Parallelamente, l’estate scorsa, una coppia di amici che avevamo conosciuto e con cui avevamo condiviso diverse esperienze nei primi anni in Mozambico, mi suggerivano di scrivere qualcosa sull’esperienza vissuta. In Lombardia e a Bergamo in particolare siamo passati per la pandemia tra i primi in Italia e nel mondo, dopo la Cina.
Il sistema era totalmente impreparato e non avremmo mai creduto di passare per una situazione del genere nel 2020, quando tutte le malattie infettive sembravano sconfitte nel nostro mondo sviluppato.
Cominciai quindi a scrivere alcune note. Cominciai dall’esperienza presente e poi lasciai rivivere i ricordi che da questa mi venivano in mente e che erano legati ai vissuti africani, che vivo ancora con molta nostalgia.
Quando tornai dalle ferie e ricevetti l’invito concreto a scrivere una narrazione per questa collana, decisi di provarci, nei tempi e nei modi che il lavoro e la famiglia mi consentivano.
Affrontai questa attività con la tenacia che mi caratterizza e grazie alla quale ho portato a termine alcuni obiettivi, anche in condizioni di difficoltà e con la forza di volontà di vedere realizzato il risultato sperato.
Non ho nessuna pretesa, se non quella di condividere una storia, un pezzo di vita. Chi vorrà conoscerlo magari si ritroverà in alcune delle cose dette o ne prenderà spunto per comunicare le sue esperienze, con sentimenti e punti di vista altrettanto ricchi, come peraltro lo è la vita di ognuno.
Tra gli autori di questa collana, e così pure tra i lettori, mi piacerebbe potesse crearsi una rete di collegamenti per uno scambio di opinioni, un continuo arricchimento reciproco.
Credo nel valore del dare e ricevere considerazioni e punti di vista diversi, ciascuno con la sua validità. Insieme si pensa meglio, si affrontano le cose con più coraggio e meno solitudine.
Quello che ho imparato dall’esperienza all’estero e che vorrei portarmi dietro ovunque è che i legami non sono solo quelli familiari o del contesto scolastico/lavorativo in cui ci troviamo di volta in volta.
Le relazioni si creano anche col vicino di casa, con la persona seduta al bar con cui scambiamo due parole davanti ad un caffè, anche se non ci conosciamo, anche se l’interazione dura pochi minuti.
In quell’incontro ci può essere qualcosa di utile, un punto di vista diverso a cui non avevamo pensato prima e comunque la certezza che non siamo mai soli o lo siamo sempre, dipende dai punti di vista.
Quando vissi per sei mesi in Zimbabwe, ero partita da sola, con tante paure e trovai sempre gli aiuti necessari.
In un momento di tristezza, nel bilocale in capitale dove tornavo nei fine settimana per riposarmi un po’, vennero a trovarmi una sera i vicini del piano di sopra, una coppia con una bimba piccola. Mi porsero un bicchiere di vino e dissero che avrei potuto sempre bussare alla loro porta. Questo piccolo gesto mi fece sentire meno sola e mi ripromisi che d’ora in avanti avrei sempre prestato attenzione alle persone sole perché anche un sorriso poteva fare la differenza.
Ho ritenuto opportuno strutturare la narrazione come note del mio viaggio, in un ordine che non è cronologico ma che richiama eventi particolarmente significativi della mia vita. I ricordi sono sopraggiunti mentre vivevo le situazioni più recenti e il fatto di metterli per iscritto ha aumentato la consapevolezza rispetto a certi comportamenti ed esempi seguiti.
L’idea del libro e la sua progettazione la devo agli amici Vittoria Giovannini e Fabian Ribezzo. Hanno condiviso con me un po’ della creatività che caratterizza il loro interessante lavoro in ambito cinematografico.
Un ringraziamento va al fotografo Giovanni Diffidenti, con cui ho condiviso alcune avventure africane. Si è reso disponibile ad offrire le sue fotografie per il libro, anche se per quest’edizione non è stato possibile utilizzarle.
Sono riconoscente a Flavio Sangalli che mi ha instancabilmente spronata a pubblicare questa storia nei tempi stabiliti.
Ringrazio di cuore Suor Anna Maria che ha trovato il tempo per leggere il libro e scrivere la prefazione, nonostante i numerosi impegni istituzionali.
Il ringraziamento finale è per il mio compagno Giovanni, i miei figli Alice e Lorenzo e i miei genitori. Quello che sono e che sarò lo devo a loro.
20 febbraio 2020,
il virus è da noi
Dopo la Cina e la Germania, focolaio subito controllato, c’era stato Codogno. Fu il primo caso in Italia confermato per malattia da virus Covid-19.
Il paziente zero, ovvero chi introdusse il virus dalla Cina o dalla Germania, non fu mai trovato e forse erano più di uno.
Gli asintomatici o quelli con sintomi lievi, che non avevano necessità di ricovero, potevano essere inconsapevoli portatori del virus e contribuire alla catena di trasmissione dei contagi.
Bastava uno starnuto o un colpo di tosse senza mettere nulla davanti alla bocca e al naso, oppure la mano che poteva diventare veicolo di contagio toccando altre persone o cose, per citare solo alcune vie di trasmissione del virus di cui esiste ormai evidenza.
Era coinvolta anche Cremona, ma ancora da noi, nella bergamasca, la cosa sembrava un po’ lontana.
Tra colleghi, alcuni si sentivano relativamente sicuri, mentre altri stavano già estremamente all’erta e cominciavano a dubitare delle indicazioni dell’OMS applicate ai nostri contesti di focolai epidemici e zone rosse.
Diversi operatori provenivano da Nembro e Alzano e ogni giorno si chiedevano se sarebbero venuti al lavoro l’indomani. I mezzi di soccorso e le forze dell’ordine stavano infatti preparando l’isolamento di questi Comuni, in attesa solo dell’ordine di renderlo operativo.
Io, alla mia prima esperienza come direttore sanitario, mi sentivo decisamente sotto pressione. Da un lato c’era la necessità di continuare ad offrire servizi sanitari alle persone, dall’altro la carenza di informazioni certe sugli scenari che dovevamo aspettarci.
Poi arrivarono le indicazioni d’uso dei dispositivi di protezione degli operatori sanitari da parte dell’OMS, presto adottate anche dal Ministero della Salute e da Regione Lombardia.
Io mi facevo molte domande, frutto della mia formazione specialistica in igiene e medicina preventiva.
Ebbi alcuni scambi via mail con i miei ex-colleghi dell’OMS. Attenta alla trasmissione del virus in ospedale
, mi dicevano. Va bene, stiamo seguendo le vostre indicazioni
, rispondevo.
Per avere maggiori chiarimenti, avevo scritto anche ad alcune persone di riferimento nella sede di Ginevra, per sapere che scenari dovevamo aspettarci, ma non ricevetti mai risposta.
È interessante, col senno di poi, valutare le priorità che non sono state identificate e chiedersi il perché.
Siamo in un mondo dove le informazioni circolano molto velocemente e sono tante.
Possiamo sapere tutto di tutti e abbiamo i mezzi per contattare chiunque in un tempo brevissimo e a costi bassissimi. Dovremmo quindi essere in grado di avere i dati che ci servono e poterli utilizzare.
Eppure non è andata così.
Ricordo ai tempi dell’Università, non sono vecchissima, parlo di una ventina d’anni fa, quando, per fare una ricerca, occorreva recarsi fisicamente in biblioteca.
Pochissimi avevano accesso ad Internet e diverse fonti di documenti erano a pagamento, mentre in biblioteca potevamo sfruttare l’accesso come studenti universitari.
Anche in ambito personale le comunicazioni a distanza non erano facili.
Ad esempio avevamo un amico che si era trasferito in Brasile dove aveva dato avvio ad alcune attività in ambito sociale e aveva fondato una o.n.g¹. locale. Per comunicare, visto che le telefonate costavano tanto, usavamo le cassette su cui registravamo degli audio e che spedivamo con la posta ordinaria, con tempi di consegna che arrivavano anche a superare un mese.
Poi uscirono le carte telefoniche prepagate che consentivano di fare telefonate internazionali a prezzi contenuti e per un tempo di 30 o 60 minuti. Si trattava comunque di pagare 10 o 20 mila lire, quindi non erano economiche, considerato che come studente non potevo chiedere molto di più ai miei genitori che già mi consentivano di dedicarmi allo studio.
In quel contesto, quando qualcosa era ritenuto importante, dovevamo dedicarci del tempo e andare a cercare più informazioni o parlare con le persone coinvolte.
Ora, con i mezzi tecnologici che esistono, aspettiamo che le informazioni ci raggiungano e che qualcuno ne definisca l’importanza e prenda delle decisioni a cui affidarci.
Io stessa pensavo che ce lo avrebbe detto l’OMS o il Ministero o la Regione se dovevamo ritenere il rischio di infezione come domestico, a casa nostra, oppure solo da importazione dopo un viaggio in Cina,