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Memorie con-divise:  popoli, stati e nazioni nel mediterraneo e in medio oriente
Memorie con-divise:  popoli, stati e nazioni nel mediterraneo e in medio oriente
Memorie con-divise:  popoli, stati e nazioni nel mediterraneo e in medio oriente
E-book527 pagine7 ore

Memorie con-divise: popoli, stati e nazioni nel mediterraneo e in medio oriente

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Info su questo ebook

I ricordi, individuali e collettivi, non sono affatto asettici e ben ordinati magazzini.
La memoria non è un semplice storage: non vi è soltanto ciò che vi viene registrato, ma le informazioni vi sono costantemente spostate, riorganizzate, messe in primo piano, oppure occultate, rivisitate, talvolta in modo quasi ossessivo, o al contrario, accantonate sistematicamente negli angoli meno illuminati e più riposti, perché non diano troppo fastidio, facendo riemergere conflitti, dolore, disagio e sconforto.
LinguaItaliano
Data di uscita12 ago 2013
ISBN9788868552756
Memorie con-divise:  popoli, stati e nazioni nel mediterraneo e in medio oriente

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    Anteprima del libro

    Memorie con-divise - Paolo Branca

    Memorie con-divise

    Popoli, Stati e Nazioni nel Mediterraneo e in Medio Oriente

    A cura di Paolo Branca e Marco Demichelis

    In copertina: Ali Hassoun

    Arab Spring, olio su tela cm 150x150 2010.

    Premessa

    NEI MAGAZZINI DELLA MEMORIA

    Paolo Branca e Marco Demichelis

     Dal 9 all'11 giungo 2011 si è svolto, presso la sede dell'Università Bicocca di Milano, il convegno di SeSaMo in un anno denso di ricorrenze e in un periodo di profonde trasformazioni che stanno sconvolgendo la sponda sud del Mediterraneo.

     Il tema della memoria, o – meglio – delle memorie, non è stato trattato tuttavia esclusivamente in relazione al passato coloniale, anche se si è disquisito di questa fase storica in molti interventi: basta rifletterci, anche superficialmente, per comprendere che in effetti quelli dei ricordi, individuali e collettivi, non sono affatto asettici e ben ordinati magazzini.

    La memoria non è un semplice storage: non vi è soltanto ciò che vi viene registrato, ma le informazioni vi sono costantemente spostate, riorganizzate, messe in primo piano, oppure occultate, rivisitate, talvolta in modo quasi ossessivo, o al contrario, accantonate sistematicamente negli angoli meno illuminati e più riposti, perché non diano troppo fastidio, facendo riemergere conflitti, dolore, disagio e sconforto.

     Ciò di cui abbiamo minor consapevolezza è che le memorie sono anche selettive e, per quanto sorprendente, persino creative.

    Cosa ricordare, come ricordarlo, ma anche le perenni modifiche dei ricordi, sono un aspetto tutt'altro che secondario della Storia.

    Quanto viene conservato e tramandato, se percepito come autentico, produce i medesimi effetti, sia che corrisponda a dati certi e verificabili, sia che invece risponda ad altre esigenze.

     I contributi presenti in questo volume, legati alle varie rappresentazioni e celebrazioni di fatti memorabili, ne sono forse la più evidente testimonianza.

     La forza delle memorie ha dunque un ruolo di capitale importanza nell'auto-percezione di ciascuno e quindi nella costruzione di quell’aspetto impalpabile e mutevole, che però riteniamo spesso fondante e persistente, che è l'identità.

     Custodi, ma anche artefici delle nostre memorie che convivono problematicamente e in forma sempre più stretta con quelle altrui, siamo probabilmente chiamati a viverle e a condividerle in forme più complesse e dinamiche di quanto non siamo stati in grado di fare finora.

     Non per un vezzo, né per pedanteria accademica, ma in quanto precisa risposta alle nuove responsabilità che un mondo sempre più 'integrato' impone ai suoi ospiti, in antitesi al precipitare di una nuova Babele, ancor più drammatica di quella rappresentata nella Bibbia.

     Popoli, Stati e Nazioni, con le loro istituzioni, le scuole, i musei, i media e via dicendo, hanno sempre avuto e mantengono un ruolo determinante nella gestione di questo capitale inestimabile, inevitabile, ma anche potenzialmente alienante se non distruttivo, quando non adeguatamente sorvegliato, all'interno di una visione di sufficiente apertura e ispirato a nobili finalità, come questo mirabile passo letterario testimonia meglio di qualsiasi dotta analisi:

    «Quelle razze che vivevano porta a porta da secoli non avevano avuto mai né il desiderio di conoscersi, né la dignità di sopportarsi a vicenda. I difensori che, stremati, a tarda sera abbandonavano il campo, all’alba mi ritrovavano al mio banco, ancora intento a districare il groviglio di sudicerie delle false testimonianze; i cadaveri pugnalati che mi venivano offerti come prove a carico, erano spesso quelli di malati e di morti nei loro letti e sottratti agli imbalsamatori. Ma ogni ora di tregua era una vittoria, anche se precaria come tutte; ogni dissidio sanato creava un precedente, un pegno per l’avvenire. M’importava assai poco che l’accordo ottenuto fosse esteriore, imposto, probabilmente temporaneo; sapevo che il bene e il male sono una questione d’abitudine, che il temporaneo si prolunga, che le cose esterne penetrano all’interno, e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto. Dato che l’odio, la malafede, il delirio hanno effetti durevoli non vedo perché non ne avrebbero avuti anche la franchezza, la giustizia, la benevolenza. A che valeva l’ordine alle frontiere se non riuscivo a convincere quel rigattiere ebreo e quel macellaio greco a vivere l’uno a fianco all’altro tranquillamente?». (M. Yourcenar, Memorie di Adriano).

     In questi magazzini, nel IX Convegno dell’Associazione Sesamo, sono emerse, nella prima sezione di articoli, alcune memorie con-divise inerenti la specifica relazione tra religione islamica e Islam politico, in continuità con rivolte e ideologie nazionali, in relazione all’ormai evidente fallimento ideologico di al-Qaeda durante quest’ultimo decennio e infine, in concomitanza alle Primavere Arabe del 2011, in quanto sintomatiche di un concreto tentativo di rinnovamento politico-istituzionale.

     Gli Spazi e Tempi della Memoria, invece, investono il mondo Arabo nella sua totalità geografica: dalla Giordania Hashemita, all’Iraq, dall’Egitto post-primavera a quello della città dei morti, dalla Damasco di Bab al-Touma, al Golfo Persico, allo Yemen. La memoria con-divisa, effettiva protagonista di questa seconda selezione di articoli, coinvolge tuttavia sia la propaganda politica e militare, i luoghi della convivenza religiosa ed interculturale, la nazione come espressione di unità, solidità e lealtà, ma anche l’identità di paesi che stanno ancora cercando la propria individualità, la loro pietra angolare. La memoria diventa quindi celebrazione, commemorazione, immagine digitale, icona di un luogo storico e infine quartiere scolpito nei differenti luoghi di culto.

     In maniera diversa, il 2011 è stato un anno importante in relazione non solo al 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ma anche ai 100 anni della campagna di Libia e al conflitto Italo-Ottomano del 1911. Lo scontro bellico avrebbe portato Roma, nell’immediato, a controllare parte della Cirenaica e della Tripolitania, oltre alle isole del Dodecanneso; tuttavia, solo in seguito alla sanguinosa e sciagurata campagna di riconquista della Libia da parte del Generale Graziani, in completa non ottemperanza della Convezione di Ginevra del 1925, la Libia divenne parte, nel 1931, dell’Impero Italiano in Africa. Gli articoli di questa terza parte rimarcano l’abbondante quantità di memorie del colonialismo italiano in terra nord-africana, il ruolo che la storiografia fascista ha giocato all’interno della propaganda imperiale e quella dell’Italia democratica nella fase di decolonizzazione. Sono tuttavia anche da evidenziare gli articoli inerenti la cartografia, gli scontri bellici, la politica estera pre-coloniale e la relazione tra Colonialismo e Orientalismo, in quanto in grado di riflettere e dibattere su quel sentimento di sconforto, disagio e fastidio, propri di un giovane paese che non si è ancora misurato efficacemente e in maniera equilibrata, sul proprio recente passato.

     In modo diverso, ma non così lontano da questa evidente carenza di memoria, permane la posizione italiana in riferimento ad un’altra annosa questione del Vicino Oriente: il conflitto israelo–palestinese. In questa quarta sezione: folklore, narrazione e memoria enfatizzano le difficoltà nel descrivere senza escludere l’altro, nel confrontarsi senza negare la visione dell’altro, nell’affrontare la cruda realtà senza il timore di scoprire che l’occultamento della memoria altrui, è spesso colpa di tutti. La guerra delle tradizioni, del radicamento della propria presenza in una terra ricca di memoria, del non riconoscimento della rappresentazione e delle testimonianze dell’altro, schiude la porta alla negazione delle esigenze e delle prove dell’altro, enfatizzando uno scontro che diventa culturale e che rimarca l’incoerenza e l’inattendibilità di qualsiasi affermazione, in una guerra di negazione reciproca della parola altrui.

     La rilevanza invece della sezione dedicata alla memoria identitaria nella letteratura araba contemporanea enfatizza la difficoltà di popoli e nazioni del Vicino e Medio Oriente nel riscrivere, qualche volta nell'inventarsi, o anche solo più semplicemente nel ricercare le proprie radici in una realtà geografica ibrida e di confine. La Babele biblica trasposta in una realtà contemporanea nella quale iniziano a mancare i più solidi punti di riferimento: la famiglia, il clan, la religione di appartenenza,

    in una globalizzazione delle culture e delle letterature che rischia di perdere la propria ricchezza, bio-diversità, attinenza con il proprio passato remoto e contemporaneo.

     Infine, nell’ultima parte si disquisisce della memoria in quanto affermazione identitaria che sottolinea le differenze dagli altri o dall’altro. Il processo di Nation– Building in relazione all’evoluzione del concetto di stato, di appartenenza, di controllo delle sue istituzioni. Una memoria che rischia di essere tutt’altro che condivisa, ma che anzi, acuisce la frammentazione.

     Il Libano, in questo specifico caso, può essere preso come stato simbolo delle difficoltà nel riconoscere l’altro o gli altri, in quanto assertori dei medesimi diritti, anche se radicati su memorie poco condivise. La visita del Pontefice Benedetto XVI nel settembre 2012 a Beirut ha posto i riflettori sulla necessità, in particolare da parte della comunità cristiana, di porre fine al settarismo, partendo proprio dal riconoscere anche alle altre comunità religiose il diritto di scrivere insieme una pagina di storia che porti ad una maggiore condivisione comune del futuro del paese dei Cedri.

    Memorie quindi, ma anche testimonianze, narrazioni, insegnamenti, per una più ampia condivisione, in un’area geografica ancora densa di conflitti culturali, religiosi, etnici, ma che per crescere deve andare oltre questa Babele delle ostilità.

    Introduzione

    IL PARADIGMA ‘BARBARICO’

    Paolo Branca e Girolamo Pugliesi

    Paolo Branca

     Docente di Lingua e Letteratura Araba e di Islamistica presso l’Università Cattolica di Milano, è specializzato nelle problematiche del rapporto Islam-mondo moderno ha pubblicato Voci dell'Islam moderno: il pensiero arabo-musulmano fra rinnovamento e tradizione, Marietti, Genova 1991, Introduzione all'Islam, S. Paolo, Milano 1995, I musulmani, Il Mulino, Bologna 2000, Il Corano, Il Mulino, Bologna 2001, Yalla Italia! Le vere sfide dell’integrazione di arabi e musulmani nel nostro Paese, Edizioni Lavoro, Roma 2007 e, con Barbara de Poli e Patrizia Zanella, Il sorriso della Mezzaluna, Carocci, Roma 2011. Ha tradotto il romanzo del premio Nobel egiziano Nagib Mahfuz, Vicolo del Mortaio, Milano, Feltrinelli, 1989.

    Girolamo Pugliesi.

     Laureato in Filosofia, ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Discipline Filosofiche, Artistiche e Teatrali presso l’Università Cattolica di Milano con una tesi dedicata alle opere teatrali di T. al-Ḥakīm. Dal 2008 al 2010 ricercatore di Etica presso l’Università di Losanna, si è occupato della questione dell’autorità nell’islām.

    Abstract

     All’affacciarsi sulla scena della storia di nuovi popoli, sopratutto quando questi per numero e forza assumono un ruolo decisivo all’interno di una determinata compagine socio-politica, si assiste sempre anche all’emergere di un dibattito tra chi guarda con favore all’inserimento di queste nuove forze e chi invece le considera una minaccia. Così accadde per esempio nel periodo delle invasioni barbariche durante la decadenza dell’impero romano. Qualcosa di simile avvenne anche durante il regno abbaside: vi ritroviamo osservazioni e giudizi sui turchi spesso analoghi a quelli che erano stati espressi dai romani a proposito dei barbari in Occidente. Ancora oggi il sempre maggiore afflusso di immigrati provenienti da paesi poveri o martoriati da guerre e dittature genera ansie presso gli ospitanti e produce sentimenti spesso contraddittori di repulsa o di accoglienza.

     La figura del barbaro, pur nelle varietà delle descrizioni che la storia ci restituisce, presenta delle caratteristiche che paiono costanti. Questo contributo tenterà di delineare la figura del barbaro proprio a partire da testimonianze storiche, tratte in particolare dal periodo romano tardo-antico e dalla storia arabo-islamica.

     Al fine di evidenziare la sintonia esistente tra testimonianze tra loro lontane nel tempo e nello spazio, si procederà accostando i vari brani secondo un criterio di affinità tematica.

     Nell’ultima parte si tenterà di disegnare la figura del barbaro, e soprattutto di descrivere il paradigma barbarico: ossia quel complesso di aspetti (fenomenologici e ideologici) che costantemente corredano la figura del barbaro.

    Over the centuries, when new ethnic and cultural components have emerged and become established, there has always been major conflict between those who feared the pernicious, or even apocalyptic, effects of these new presences and those who, on the other hand, limited themselves realistically and pragmatically to acknowledging them or even seeing in the new situation the grounds for an inevitable and necessary renewal.

     Everyone has identified their own barbarians and they continue to do so, often attributing to them the responsibility for a crisis and an internal weakening of which their establishment was more the symptom than the presumed cause.

     This study offers a parallel between the well known events of the end of the Roman Empire and similar phenomena which have concerned the Muslim world, quoting coeval sources where similar, although not perfectly overlapping, positions clearly emerge. F. Fukuyama’s recent theory on the presumed ‘end of history’ also comes under a way of seeing things that once again proposes over-worked patterns and appears closed to the new, although problematic, perspectives that each epochal change brings with it, allowing prejudices and fears, more than realistic evaluations, to emerge, without providing any useful indication so that the phenomenon can really be controlled thanks to a vision open to the future rather than tritely and passively endured.

    Il barbaro tra tarda antichità ed età classica arabo-islamica

     Qualcuno non ha esitato ad esaltare le virtù dei turchi, paragonate più o meno esplicitamente ai vizi che avevano invece indebolito l’etnia fino ad allora dominante.

    Il celebre visir dei Selgiuchidi Nizâm al-Mulk (1018-1092) si esprime a riguardo con estrema franchezza:

    «Meglio è uno schiavo obbediente

    che innumerevol figliolanza

    la morte del padre questi hanno in mente

    mentre il primo si augura la gloria del padrone in abbondanza».[1]

     Analogamente a quanto aveva fatto Salviano (400 ca.-480 ca.) piangendo la fine di Roma:

    «Noi siamo impudichi fra barbari pudichi. Dico di più: persino loro, barbari, si scandalizzalo delle nostre sconcezze! I goti, ad esempio, non ammettono che tra di loro ci sia un donnaiolo. In mezzo ad essi, i soli a cui sia permesso di essere immorali – a pregiudizio della loro nazionalità e del loro nome – sono i romani! E allora vi chiedo: davanti a Dio, quale speranza ci resta? Noi amiamo le trasgressioni sessuali, i goti ne hanno ripugnanza; noi snobbiamo la purezza, mentre essi l’amano; la fornicazione per essi è un reato e un danno, mentre per noi è un danno […]. Chiedo a coloro che ritengono essere noi migliori dei barbari: mi dicano solo se qualcuna di quelle porcherie viene commessa dai goti, magari anche solo da pochissimi! O quale di quelle azioni non venga invece commessa da tutti o quasi tutti i romani!.[2]

     Si tratta spesso di giudizi che non si collegano solo alla realtà contemporanea agli autori, ma si spingono a cercare nel passato e per così dire ‘alla radice’ presunte differenze nella natura o nell’indole stessa dei popoli in competizione, a dispetto persino delle comune fede professata da entrambi, come in questi versi di Ismâ’îl ibn Yasar (VIII sec.) che rimproverano gli arabi per l’usanza preislamica di sopprimere le neonate, rivendicando la superiorità dei persiani:

     «Come agirono nel tempo i persiani?

    Almen noi le nostre figlie crescevamo,

    mentre voi le seppellivate vive con le vostre mani».![3]

     Al contrario, come nel caso di Giovanni Crisostomo, l’origine ‘barbarica’ può essere considerata ininfluente all’interno di un nuovo orizzonte universalista che si ritiene abbia superato simili pregiudizi:

    «Come il sole è comune e la terra è comune, così lo sono il mare e l’aria, e molto più di così la predicazione del Verbo è divenuta comune. Diceva Paolo: Poiché sono in debito verso i greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare anche a voi di Roma (Rm 1,14-15). Perché allora stupirsi di quanto è detto nel Nuovo se già nel Vecchio Testamento accadeva lo stesso? Infatti il primo progenitore tanto della chiesa che della sinagoga, di quest’ultima secondo la carne e della prima secondo lo spirito, era barbaro e proveniva dalla media Perside. Parlo del patriarca Abramo. […] Anche Mosè venne educato e crebbe in una casa barbarica e non ne ebbe alcun danno ma anch’egli, non meno del patriarca, si comportò da sapiente […]. Non riteniamo quindi la presenza dei barbari in chiesa ragione di vergogna quanto piuttosto ragione di grande onore; infatti lo stesso Signore nostro Gesù Cristo, quando venne sulla terra, chiamò per primi i barbari [i Magi della Perside]».[4]

     Quando alle differenze etniche si sommavano substrati religiosi diversi, non erano del tutto assenti persino attacchi espliciti verso il credo dei nuovi venuti, ad esempio in Persia da parte di chi era rimasto legato alla fede manichea nei confronti dei riti islamici, come riportato nel Târîkhnâma di Bal’amî (m. 977):

    «Quando vedono in preghiera i musulmani

    dicono che son come cammelli ben schierati

    e, poi, quando a faccia a terra li vedono prostrati

    dicono che mostrano al loro Dio i deretani».![5]

     Naturalmente i cambi della guardia potevano essere più facilmente digeriti dopo che i nuovi sovrani ebbero acquisito meriti storicamente documentabili, ed ecco Abû Shâma (XIII sec.) celebrare in versi le gesta dei Mamelucchi che impedirono ai Mongoli di dilagare ulteriormente verso ovest:

    «Ogni terra i Tartari hanno assoggettato,

    ma dall’Egitto un turco a lor s’è presentato

    senza tema per la vita sua in Siria li ha distrutti e dispersi

    non c’è flagello che una risposta simile ad esso non avversi»;»[6]

     un’ode al sultano al-Ashraf al-Khalîl che conquistò Acri nel 1291:

    «Sia lodato Iddio, il regno dei crociati è alfin caduto

    tramite i turchi la religione dell’eletto popolo arabo ha trionfato».[7]

     e il famoso Abulfeda (m. 1331) che tesse le lodi del sovrano mamelucco:

    «Notre maître le sultan , savant, juste, excellent, parfait, zélé pour la guerre sacrée et pour la défense des frontières, le victorieux Malek-Moayyad, colonne du monde et de la religion, ressource de l’islamisme et des musulmans restaurateur de la justice parmi les hommes, vengeur des opprimés contre les oppresseurs, exterminateur des impies et des idolâtres, vainqueur des schismatiques et des rebelles, défenseur de la loi de Mahomet, porte-drapeau de la religion musulmane, Aboulféda Ismaël; puisse Dieu perpétuer son règne et sa puissance, protéger ses armées et ses escortes, et faire jouir l’universalité de ses sujets de sa justice et de sa bienfaisance!».[8]

     Lo stesso era avvenuto per le città romanizzate delle province barbare dell’Impero romano:

    «Massilia (Marsiglia), un tempo città greca, ora ha assunto un carattere barbarico, avendo abbandonato la sua costituzione ancestrale e abbracciato il modo di vita dei suoi conquistatori. Ma anche ora non sembra aver perduto nulla della dignità dei suoi antichi abitanti poiché i franchi non sono nomadi, a differenza di altri popoli barbarici. Il loro sistema di governo è grosso modo formato sul modello romano […]. Per essere un popolo barbaro mi colpiscono come estremamente educati e civilizzati: sono in pratica come noi, salvo che per il loro diverso stile di abbigliamento e per la loro lingua».[9]

     Anche nei detti popolari finì per imporsi un certo realismo: «Meglio la tirannia dei turchi che la giustizia degli arabi!» (zulm al-atrâk wa-lâ ‘adl al-’arab).[10]

     Con significativi corrispettivi d’altro ambiente ed epoca, dalla penna di autori di vaglia, ma sostanzialmente animati da un simile sentimento, come ad esempio Orosio (375 ca. -420 ca.):

    «Senza indugio i barbari, maledette le spade, si sono convertiti all’aratro e trattano i romani superstiti come alleati ed amici, al punto che si possono trovare in mezzo a loro alcuni romani i quali preferiscono sopportare tra i barbari una libertà povera, piuttosto che una continua richiesta di tributi tra i romani».[11]

     In modo simile si esprime Salviano:

    «Le società barbariche rifiutano il malcostume di infierire contro i poveri con le pesanti imposizioni e con la distribuzione ingiusta delle elargizioni, che vanno anzitutto a vantaggio dei ricchi. Ed è per questo che l’unico augurio che si fanno i romani che vivono là è di non venire mai a trovarsi nella necessità di ricadere sotto il diritto di romani. L’unica unanime preghiera che fanno là gli immigrati romani è che sia loro concesso di passare la vita con i barbari».[12]

     Anche alcuni secoli dopo, dinanzi all’avanzata dei musulmani, i bizantini sceglievano sovente di passare sotto la guida dei conquistatori piuttosto che restare sotto il governo dei propri correligionari:

    «I dhimmī ebrei e cristiani della città di Hims] «preferirono la dominazione e la giustizia dei musulmani alla stato di oppressione e di tirannia nel quale vivevano [sotto il dominio di Bisanzio».[13]

     Realismo del resto non assente in autorevoli commentatori ispirati a un notevole pragmatismo anche dall’altra parte del Mediterraneo: «I turchi son divenuti sovrani, ognuno ad essi presti ascolto e obbedisca»[14] ebbe a scrivere al-Mas'ûdî (m. 957), mentre un esponente della shu’ûbiya come Bashshâr Ibn Burd (m. 784) non aveva esitato a vantarsi delle sue origini non arabe senza mezzi termini:

    «Dite a tutti che un uomo di alto pregio

    io sono, sopra qualsiasi altro fregio

    Mio nonno fu Cosroe, eletto in gloria,

    e Sasan fu mio padre, e la memoria

    risale sino a Cesare, zio materno,

    fra i miei antenati in conto che squaderno.

     Quanti è quanti progetti avvolti intorno

    dalla corona di mio nonno un giorno!

     ...

    non sorseggiava, non beveva latte,

    da vasi di cuoio o da coppe fatte

    di pelle di capra, dietro un rognoso cammello,

    cantando il canto nodoso

    di un cammelliere, né alla coloquintide,

    stremato dalla fame, fatica e dolore

    mai si avvicinò mio padre, cercatore.

    Né un albero ha battuto col bastone,

    per far cadere frutti a perdizione,

    né una vipera dalla coda aguzza,

    vivace e mobile come una frusta,

    abbiamo mai arrostito, né stanato

    la lucertola dal suolo roccioso

    per poi mangiarla in modo febbricoso,

    né mio padre mai s’è riscaldato

    sopra una fiamma accovacciato,

    né tra le gobbe di un cammello in sella

    usava cavalcare».[15]

     E d’altra parte, presso le comunità barbariche della tarda antichità riusciva ad attecchire anche la cultura migliore del tempo, lasciando meravigliato lo stesso Girolamo (347-420):

    «Chi lo direbbe? La barbara lingua dei goti alla ricerca della verità ebraica! Mentre i greci sonnecchiano, anzi si perdono in polemiche, proprio la Germania vuole scrutare a fondo ciò che lo Spirito Santo ha dettato! "Sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto (At 10, 34-35). La vostra mano, fino a ieri callosa a forza di stringere l’elsa della spada, le vostre dita esercitate soprattutto a tirar d’arco ora hanno la flessibilità necessaria per tenere lo stilo e la penna: l’impeto bellicoso dei vostri cuori si trasforma in mitezza cristiana».[16]

     Ancor più esplicito nel commentare sarcasticamente i poeti preislamici e le loro abusate metafore era stato del resto già il campione della poesia abbaside Abû Nuwâs (m. 815):

    «Si fermò il disgraziato su una traccia interrogandola, ma io mi sono

     fermato a chiedere della bettola del paese.

     Piange colui sulle tracce dei Banu Asad di un tempo. Dimmi un po’,

     sciagurato, chi sono mai i Banu Asad?

     Chi sono i Tamìm e Qays e compagni? Gli arabi del deserto presso Dio non valgono un soldo. Possa non asciugarsi l’occhio di chi piange su di una pietra, e non si rassereni il cuore di chi sospira per un piolo di tenda.

     Lascia andare tutto questo, e bevi vino vecchio, giallo, che separa lo spirito del corpo».[17]

     Al realismo pragmatico e disincantato di alcuni, come si può constatare, si contrappone l’orgoglio di altri - anche islamizzati o arabizzati – che sottolineano più volentieri elementi di discontinuità e di opposizione.

     Non mancò chi cercò di rintracciare nell’indole beduina e nelle sue ‘naturali virtù’ le ragioni del successo delle conquiste arabe, come il già citato al-Mas'ûdî:

    «Gli arabi preferiscono lo stile di vita beduino e risiedere nel deserto. Di conseguenza, tra tutti i popoli, sono i più abili e resistenti, nonché sani e robusti. Sono anche i più gelosi del proprio amore, i più scaltri, i migliori tra i loro vicini. Ciò deriva loro anche dalla salubrità del clima e dai vasti spazi in cui vivono».[18]

     Qualità in questo caso positive, tanto quanto negative erano invece irrimediabilmente ritenute quelle di altri nomadi in altro contesto:

    «Tu eviti i barbari perché hanno fama di essere malvagi, io li fuggirei anche se fossero buoni».[19]

     Accanto a posizioni chiaramente preconcette, si ponevano teorie più o meno argomentate sulla malvagità intrinseca dei barbari, quanto a crudeltà, ma anche quanto a refrattarietà ad ogni forma di civile convivenza:

    «E voi che amate i barbari e che talvolta li lodate a vostra condanna, considerate ora il oro nome e comprendetene i costumi. Avrebbero forse potuto essere chiamati con un altro nome, se non con quello di barbari, dal momento che è loro appropriato il vocabolo di ferocia, di crudeltà, e di terrore? Ma per quanti blandimenti tu possa fare ad essi, per quanti servigi tu possa offrir loro per farteli buoni, essi non sanno far altro che invidiare i romani. E per quanto pertiene alla loro volontà, desiderano sempre di offuscare lo splendore e la nobiltà del nome romano, e desiderano solo che nessuno dei romani viva, e quando sembra che risparmino i sottomessi, li risparmiano per servirsi dei loro servizi, perché non amarono mai romano alcuno».[20]

     E c’era pure chi teorizzava l’impossibile integrazione di popoli di culture diverse, come Sulpicio Severo (360-420). La sua testimonianza è resa più convincente dallo scandalo, che dalle righe emerge, di trovarsi dinanzi a compagini sociali in cui popoli diversi per cultura si trovano a condividere luoghi e incarichi comuni. Siamo a un passo dallo scontro di civiltà, giacché l’argilla e il ferro non possono legarsi in un composto solido:

    «Infine il fatto che [nel sogno di Nabucodonosor] sono mescolati ferro e argilla, due materiali che non si amalgamano mai tra loro, fa presagire che le mescolanze del genere umano saranno ragione di discordia reciproca, poiché il suolo romano risulta insediato da genti straniere, occupato da ribelli oppure consegnato in una sorta di pace a quanti si sono sottomessi. Così vediamo nazioni barbariche e soprattutto, gli ebrei, presenti nei nostri eserciti, nelle province e nelle città, che abitano in mezzo a noi ma non adottano la nostra cultura».[21]

     Secondo alcuni, i ‘valori’ degli arabi andavano a vantaggio anche di chi veniva a contatto con loro, come attesta Ibn Qutayba (m. 885):

    «Il dovere di proteggere i loro vicini e le loro proprietà supera di gran lunga possibili intese o interessi che abbiamo coi loro più stretti amici. Chiunque di loro darebbe del suo a favore del vicino. Sono ospitali al massimo grado, preferiscono dare che ricevere e sono munifici tanto da sopportare per questo privazioni».[22]

     Ammirazione che si dilatava su tutto ciò che li riguardava, a partire dalla lingua, sommamente celebrata da al-Jâhiz (m. 868):

    «Se condurrai chiunque di questi arabizzati tra puri beduini – veri tesori di eccelsa eloquenza – e lo presenterai a un poeta di genio o a un valente oratore, egli comprenderà che quanto gli hai detto è la verità e ne constaterà la prova dalla sua stessa esperienza»[23],

    cui farà ancora eco al-Tawhîdî (m. 1023):

    «In nessun’altra lingua abbiamo trovato qualcosa di simile alla purezza dell’arabo. Mi riferisco alla bellezza delle parole, all’armonia delle lettere, alla chiarezza dei suoni, all’equilibrio della parti e delle strutture».[24]

     Vero è tuttavia che le conquiste arabe si erano svolte in un periodo di espansione e sviluppo, mentre la decadenza abbaside vide l’affermazione di nuovi popoli e sovrani in un quadro di desolazione che si prestò ad esser presentato con tinte assai fosche come nei versi di Ibn Lankak al-Basrî (m. 912):

    «Gli uomini liberi sono scomparsi, distrutti e perduti

    Il tempo mi ha collocato in mezzo a genti barbare

    Mi dicono: Troppo a lungo te ne stai in casa seduto

    Rispondo: "Che diletto avrei a uscire per le strade

    ove non vedrei altro che cavalli montati da scimmioni?».[25]

     Con le devastazioni operate dai Mongoli la situazione venne poi percepita e raffigurata in toni apocalittici, perpetuatisi in detti che senza fare troppe distinzioni etniche, sono esemplari nella loro drasticità: «I Tuchi sono animali senza cervello» (al-atrâk hayawân min ghayr idrâk).[26]

     Allo stesso Profeta sono stati attribuiti detti premonitori che consigliano di ‘non svegliare il can che dorme’: «Lasciate in pace i turchi finché loro lasceranno in pace voi» (utrukû l-atrâk mâ tarakû-kum), accanto ad altri che allertano rispetto al pericolo dell’anarchia: «Altri capi dopo di me vi comanderanno, il devoto lo farà secondo la sua devozione e il depravato secondo la sua depravazione, voi dunque ascoltateli e obbedite a loro in tutto ciò che è conforme alla verità: se agiscono bene ciò sarà a vostro e loro vantaggio, se agiscono male ciò sarà a vostro vantaggio e a loro svantaggio».

     La natura selvaggia è tuttavia riconosciuta anche a secoli di distanza da Ibn Khaldûn (Ibn Khakdûn, Muqaddima, ed. Abû 'Abd Allâh al-Sa'îd al-Mandûh, Mu'assasat al-kutub al-thaqâfiya (Beyrut) & al-Maktabat al-Tijâriya (Mecca) 1994, vol. I, p. 158.), che vide in essa la forza capace di consentire ai nomadi di tornare periodicamente a imporsi nel corso della storia:

    «Gli Arabi, a motivo della loro indole selvatica, hanno tra loro razziatori rapaci che s'impossessano di tutto ciò che possono depredare senza combattere o correre rischi, per poi rifugiarsi nei loro territori selvaggi, senza resistere o battersi salvo che per difendersi. Se incontrano una difficoltà o un ostacolo, lo evitano e si dirigono verso più facili imprese. Fortificazioni e alture servono a salvarsi dalle loro razzie in quanto preferiscono non arrampicarsi, affaticandosi e correndo pericoli»[27].

     E pure una testimonianza cristiana – quella di Ammiano (330-400 ca.) – sui barbari arabi, ci restituisce una considerazione simile:

    «Ma i Saraceni, per noi indesiderabili sia come amici che come nemici, compiendo qua e là scorrerie devastavano in un batter d’occhio tutto ciò che potevano trovare, simili a nibbi rapaci, i quali, se scorgono dall’altro una preda, scendono velocemente e la ghermiscono e, dopo essersene impadroniti, fuggono immediatamente…tutti sono ugualmete guerrieri e s’aggirano per varie regioni seminudi, coperti sono al pube di corti e variopinti mantelli, su veloci cavalli e snelli cammelli sia in pace che in guerra. Nessuno di loro mette mai mani all’aratro o coltiva un albero o cerca di procurarsi il cibo lavorando i campi ma sempre errano per ampie distese senza una dimora o sedi fisse e senza leggi »[28].

    Le costanti del paradigma barbarico

     Le testimonianze riportate fin qui, provenienti da periodi storici e mondi culturali diversi, ci rendono un’immagine piuttosto plastica dell’evento barbarico.

     Qui si cercherà di comprendere cosa sia questo evento barbarico. Innanzitutto, diciamo che è un evento, perché irrompe nella storia. Non accade mai nel silenzio, ma perturba un ordine, squarcia un paesaggio culturale, attira su di sé l’attenzione, e pretende una risposta.

     Centro di questo contributo non è la fenomenologia della conquista barbarica, né quella della resistenza dei residenti, quanto l’immaginario che l’evento barbarico genera, ridurre le invasioni barbariche a meri dati storici di ordine politico, militare o economico, non basta a darne una giusta comprensione. Anche quando si dice che dall’incontro/scontro fra popoli barbari e civilizzati nasce una cultura nuova, si pone l’accento comunque su aspetti che hanno a che fare più con gli effetti dell’evento barbarico che con il suo accadere. Nell’apparire del barbaro non si apre solo la via a nuovi percorsi storici, ma si mostra un aspetto dell’umano che solo così è visibile; in altri termini, il barbaro è un archetipo, un paradigma irriducibile.

     È possibile rintracciare delle caratteristiche costanti della modalità con cui l’uomo si rapporta con lo straniero. Più in profondità, è possibile rintracciare in queste costanti il loro referente ultimo, che è la categoria di barbaro.

    Insostituibilità della categoria di barbaro.

     Il paradigma barbarico si manifesta in ogni cultura, certamente, con delle varianti, ma senza dubbio la categoria del barbaro costituisce un mostro del genere umano. Egli è l’opposto logico dell’uomo civile", è la negazione delle regole e dei valori di una data cultura. È dunque una contraddizione vivente, perché è l’esistente che non dovrebbe poter esistere.

     Il barbaro è una necessità logica del pensare l’uomo: se si pensa l’uomo, sempre situato storicamente, in un determinato orizzonte sociale, religioso e culturale, non si può non pensare per converso il suo opposto, che è il barbaro. La categoria di barbaro, pertanto, è simmetrica a quella di uomo civilizzato (quale che sia la sua civiltà).

    Il barbaro è dunque insostituibile, è già racchiuso nella stessa conformazione culturale, storica e sociale di una civiltà, in quanto sua negazione.

    Apriorità della categoria di barbaro.

     Da questa necessità logico-culturale di pensare il barbaro si possono ricavare due corollari:

    Apriorità logica. La categoria di barbaro è un a priori. Conoscere un barbaro come tale è impossibile, l’apriorità della categoria permette solo di attribuire il concetto ad un soggetto o a più soggetti, ma la sua forza risiede nell’essere sempre presente alla mente del civilizzato e sempre e nello stesso tempo nel non attagliarsi mai del tutto agli uomini a cui lo si attribuisce. La categoria di barbaro funziona solo come concetto, mai come via per la reale conoscenza dell’altro. È un concetto a priori che rifiuta ogni verifica e che non incentiva una vera scoperta dell’altro.

    Apriorità funzionale. Del barbaro si vede solo ciò che già ci si aspetta di vedere. Chi utilizza la categoria di barbaro - senza altre mediazioni - non entra di fatto in relazione con l’altro: al più riconosce delle caratteristiche, ma non le considera olisticamente. L’altro viene cioè osservato solo sotto quegli aspetti che corrispondono alla categoria di barbaro. Di lui si vede solo ciò che già si aspetta di vedere: nient’altro. Dinanzi ad un barbaro si è, così, certi di vedere il barbaro: fra la categoria e l’esistente è istituita un’identità assoluta.

    Immutabilità morfologica della categoria di barbaro

     È possibile stabilire quale sia la morfologia del barbaro, almeno a grandi linee. Sono tratti che nel corso della storia si ripetono, sono anch’essi costanti.

     Il barbaro è sempre violento per costituzione, per indole, per cultura. Dentro l’ambito della violenza si pone tutta la gamma degli atti di violenza che gli sono più congeniali: omicidi violenti, stupri, sevizie. È particolarmente insensibile ai più deboli e perciò si accanisce anche con i bambini e i più indifesi. Questa violenza distruttiva è possibile perché egli è più forte: il suo corpo è robusto, il suo fisico analogo a quello degli animali più feroci e rapaci. In effetti, è assimilabile agli animali più che agli uomini. È rapace, e dunque, predisposto sia nel fisico che nell’indole innata al latrocinio e alla predazione.

     La sua animalità si manifesta anche nella grandissima capacità riproduttiva: il barbaro è massimamente prolifico, e se nella vita selvaggia la sua prolificità è funzionale alla sussistenza, giunti nei paesi civilizzati tendono a diventare troppo numerosi, se non infestanti.

     La vita selvaggia del barbaro comporta una sua refrattarietà alla pulizia e alla cura del corpo, così egli è sporco, e non è sporco solo per mancanza di mezzi o per motivi legati alla vita che conduce, ma perché non percepisce neanche l’utilità della cura del corpo e il suo orientamento ad una migliore convivenza.

     Per tutte queste e ulteriori ragioni (di natura culturale, razionale e biologica) il barbaro è contrario alla civiltà, è l’incivile per eccellenza.

    Astrattezza

     Non ci si può opporre radicalmente ad un barbaro, ma soltanto al barbaro. Quanto più i residenti approfondiscono la conoscenza delle popolazioni immigrate (barbare) con cui entrano in contatto, tanto più l’attribuzione verso questi della categoria di barbaro perde ai loro occhi evidenza e ragionevolezza, o mettendola di nuovo in latenza, oppure spostandola su altri soggetti meno conosciuti.

     La categoria di barbaro funziona solo sul piano astratto. La vita comune depone invece verso giudizi più miti e compromessi più praticabili.

     I fatti storici testimoniano la compatibilità e l’adattabilità reciproca del cosiddetto barbaro e del civilizzato, in modo tale che quando essi condividono spazio, lavoro, tempo, il barbaro è sempre meno barbaro e il civilizzato più inclusivo.

    Necessità del barbaro e crisi di civiltà

     La categoria di barbaro acquista più incisività quando un popolo percepisce in qualche modo il declino della propria civiltà. Ciò accade perché il barbaro permette di ottenere – a poco prezzo – una spiegazione della crisi della civiltà.

     Il barbaro appare dunque come una necessità, poiché in situazione di crisi esso è baluardo per l’identità della civiltà in decadenza.

     Quando nello scenario culturale di una civiltà il barbaro acquista una posizione centrale, quando assume una rilevanza mediatica, quando si crea una scienza del barbaro – basti ricordare le citate teorie sulla impossibilità di unire barbari e romani, o le più recenti teorie dello scontro di civiltà e della refrattarietà dell’islam alla democrazia –, quando si creano delle tecniche e degli apparati apologetici, possiamo esser certi di trovarci di fronte alla crisi di una civiltà.

     Si potrebbe pensare che siano proprio i barbari a generare la crisi, ma così non è, dal momento che le migrazioni intervengono quasi a colmare un vuoto che si crea – senza il loro intervento – nelle civiltà ospitanti. I barbari possono tutt’al più accelerare, non già generare il declino di una civiltà.

     In relazione alla crisi di una civiltà, il barbaro, pertanto, è necessario per due motivi: il primo, una civiltà in declino ricorre alla figura del barbaro per legittimarsi dinanzi al suo proprio crollo, per scongiurarlo o per compattarsi cercando di resistervi; il secondo, il barbaro fa la sua comparsa laddove inizia la crisi di una civiltà, pronto a colmare il vuoto: c’è sempre un soggetto storico che prende le funzioni di barbaro.

    La fine della storia, la decadenza e il barbaro

     Tra fine della storia e barbari c’è sempre stata una correlazione molto stretta.

    Perlopiù la percezione della fine di un ciclo storico o di un assetto culturale induce gli uomini a pensare all’imminenza della fine della storia. In questo senso, sono casi eclatanti le reazioni estreme dinanzi al sacco di Roma del 410 per mano dei Visigoti di Alarico. Lì era Roma a cadere, e in effetti era la fine di un mondo. Lo stesso stato emotivo traspare dalle testimonianze arabo-islamiche dinanzi alla devastante conquista mongola.

     Ma è più curioso notare come in prossimità del crollo di una civiltà, questa sembri certa di aver raggiunto un tale stato di avanzamento da sentirsi al riparo da ogni futuro cambiamento, ossia di aver raggiunto il compimento ultimo della storia.

     È un paradosso: ogni volta che una civiltà giunge alla sua fine o a un cambiamento radicale, essa ha come la percezione di aver raggiunto il fine della storia e, dunque, di aver prodotto la fine della storia, di tutta la storia.

     Non è difficile rintracciare esempi, come la visione storica di Paolo Orosio.[29] Per Orosio il fine della storia si realizza definitivamente con l’unione di Impero Romano e Cristianesimo (unione chiamata da Orosio Romania). Raggiunta la sintesi della perfezione della civiltà romana (ultimum imperium) e della fede cristiana il progresso della storia si conclude definitivamente: il fine della storia comporta la sua fine.

    «Quel Cesare che Dio aveva predestinato a così grandi misteri, ordinò per la prima volta di fare ovunque il censimento delle singole province e di iscrivervi tutti gli uomini, proprio nel medesimo anno in cui anche Dio si degnò di apparire e di essere uomo. Allora, dunque, nacque Cristo e, appena nato, fu subito iscritto nel censo romano. È questo il primo chiarissimo riconoscimento che mostrò Cesare come principe di

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