Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il Novecento - Storia (68): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 69
Il Novecento - Storia (68): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 69
Il Novecento - Storia (68): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 69
E-book1.649 pagine19 ore

Il Novecento - Storia (68): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 69

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

In questo ebook si dispiega il variegato panorama del pensiero filosofico novecentesco, così complesso nella sua valutazione data la mancanza della distanza storica necessaria per filtrare con adeguata lucidità eventi, teorie e proposte di un secolo carico di drammatici eventi storici e profonde inquietudini: l’eredità dell’idealismo continua ancora quasi sino a metà secolo, e con particolare successo in Italia attraverso il pensiero di Croce e di Gentile, mentre contemporaneamente si sviluppa un’intensa rivisitazione del pensiero di Marx, da Gramsci alla Scuola di Francoforte, a Lukàcs fino al Diamat, ovvero a quella scolastica del materialismo dialettico che ha dominato per decenni la cultura sovietica. Difficile poi eleggere una corrente a modello della filosofia novecentesca quando si contendono la scena sin dall’inizio neokantismo, storicismo, fenomenologia, bergsonismo, psicoanalisi, neospiritualismo, esistenzialismo e nuova filosofia della scienza, ed è curioso notare che i pensatori più interessanti non sono filosofi ma fisici, come Einstein e Heisenberg. Questo ebook attraversa così tutto un universo ancora in movimento, un magma ancora vivo di riflessioni accese, in cui le differenti posizioni di Husserl e Whitehead, Heidegger e Adorno, Sartre e Habermas, Maritain e Foucault fanno conflagrare l’impropria contrapposizione tra filosofia analitica e continentale in un pulviscolo di pensieri che permeano e condizionano indiscutibilmente tutta la letteratura novecentesca e la percezione che l’uomo del Novecento ha di sé e del mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2014
ISBN9788898828029
Il Novecento - Storia (68): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 69

Correlato a Il Novecento - Storia (68)

Titoli di questa serie (74)

Visualizza altri

Ebook correlati

Storia per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il Novecento - Storia (68)

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il Novecento - Storia (68) - Umberto Eco

    copertina

    Il Novecento - Storia

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Il Novecento

    Storia

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla storia del Novecento

    Laura Barletta

    A più riprese ci si è chiesti come scrivere una storia d’Europa oggi, quando tante certezze sembrano scomparse, in un’epoca nella quale è in crisi l’idea di nazione, il cui contenuto etico-politico è sopraffatto dal prevalente potere dell’economia, scalzata dalla globalizzazione, dall’integrazione europea, dal rinascere di localismi che mettono in luce aspirazioni latenti e minoritarie o si appellano a una memoria storica più o meno inventata. Ma è anche in crisi l’identità europea, poiché il Vecchio Continente non basta più a se stesso ed è piuttosto una pedina di un gioco più vasto che spesso lo vede ai margini del quadro geopolitico. Oggi più che mai è impossibile non tenere conto di ciò che avviene fuori dei suoi confini. Cambiamenti profondi sono pure intervenuti recentemente, non solo in Europa, nella vita quotidiana, nell’attrezzatura mentale e ancor più nelle aspettative scosse sia dal crollo delle ideologie, che hanno rimesso in questione convinzioni apparentemente granitiche, sia dai mutamenti indotti dall’innovazione tecnologica. È generalizzata la consapevolezza di una fine millennio che rappresenta anche l’apertura di un mondo nuovo in cui si vedranno non solo cibi transgenici ed elettrodomestici intelligenti, ma robot dotati di sensibilità e di sistemi di autoriproduzione, e corpi umani disegnati a tavolino, imbottiti di componenti artificiali, un mondo in cui l’uomo e le creature da lui fabbricate, l’uomo e gli oggetti che utilizza saranno indistinguibili. Non c’è da meravigliarsi dunque se si va diffondendo una sensazione di timore rispetto al futuro e se ci si appiglia a un’idea di natura che, come altre volte nel passato, quando la rapidità delle innovazioni pare superare la possibilità umana di controllarle, appare un elemento di rassicurazione, lo specchio eterno sul cui metro i cambiamenti si riducono a poca cosa, piuttosto che come il frutto – come è in buona parte – dell’intervento umano e del discorso su di essa. L’attenzione per l’ecologia va vista sia come cura necessaria per mantenere l’equilibrio dell’ecosistema, sia come frutto della ricerca di un impossibile ritorno a una ipotizzata perfezione originaria. Non è neppure un caso che si assista a una rivitalizzazione di Chiese e confessioni religiose, quelle tradizionali e quelle provenienti da Paesi lontani che sembrano venire dal profondo dei tempi, ma anche di altre credenze che vogliono offrire ancoraggi rassicuranti e finiscono con il presentare la storia come un susseguirsi di fatti inscritti dentro un ordine prestabilito. Interviene pure a problematizzare la percezione del concatenarsi degli eventi una crescente rapidità del loro accadere, e forse il prolungarsi della vita umana, che ci fa testimoni di una sequenza storica più lunga e desiderosi, da anziani, di una maggiore stabilità degli assetti politici, sociali ed economici, aspirazione cui contribuisce, del resto, la sensazione di sazietà indotta dal benessere da non molto tempo generalizzato. Gli storici hanno avuto anch’essi l’acuta sensazione che gli avvenimenti sfuggissero clamorosamente alla loro presa, alla lentezza della loro riflessione, recentemente, in occasione della caduta del muro di Berlino e del crollo del comunismo.

    Una nuova periodizzazione: quando inizia la storia contemporanea?

    Tutto ciò ha sollecitato un ripensamento della storia europea nel quale le stesse periodizzazioni sono in questione. Il passaggio dalla storia moderna a quella contemporanea, è stato tutt’altro che stabile – è passato infatti dalla Rivoluzione francese, al Congresso di Vienna, alla metà o alla fine dell’Ottocento, alla prima guerra mondiale – e spesso si stabilisce al tempo della seconda guerra mondiale, ai decenni successivi, o al crollo del muro di Berlino nel 1989. Si è pure parlato per il Novecento di un secolo breve, tra il 1914 e il 1989: una periodizzazione che tiene molto in conto la nascita e il crollo del comunismo e, fra l’altro, mette in evidenza la possibilità di pensare le cesure temporali per problemi, senza andare necessariamente alla ricerca di nodi che possano riassumere le innumerevoli spezzature di storie settoriali. E alcuni storici hanno considerato il periodo fra l’ultimo decennio dell’Ottocento e gli anni Cinquanta o Sessanta del Novecento come un’epoca di transizione che apre il passo alla contemporaneità. Tra le tante possibili, la misura del secolo resta comunque per l’Europa del Novecento una periodizzazione che, nella sua neutralità dichiarata, permette di essere scavalcata in avanti e a ritroso, là dove i diversi temi trattati lo richiedono, e di contenere in sé una pluralità di importanti cesure. Le possibili periodizzazioni si fanno in ogni caso più serrate fra la fine del XIX secolo e i nostri giorni.

    Che la prima guerra mondiale resti uno degli eventi di sicuro impatto su numerosi aspetti politici, economici, religiosi, sociali è in ogni caso indubitabile. Benché ancora non sia generalmente avvertita la riduzione della potenza europea nella misura in cui essa si è in realtà prodotta, è tuttavia evidente che il conflitto si è svolto a livello mondiale, che i Paesi vincitori non sono stati tutti europei, che essi hanno avuto un ruolo nella sistemazione dell’Europa e dell’impero coloniale tedesco e voce in capitolo negli organismi internazionali incaricati di mantenere l’ordine mondiale. Se il tentativo di ridisegnare l’Europa orientale obbedisce a un’ottica nazionalistica e democratica, non si riesce però a creare compagini omogenee dal punto di vista etnico, linguistico e religioso. Si può dunque già parlare, perlomeno nella sua attuazione, di un qualche fallimento dell’idea di nazione, che tuttavia sarà ancora fortemente sentita negli anni fra le due guerre.

    Nel dopoguerra si avverte poi tutto il peso dei cambiamenti intervenuti nella vita quotidiana. Cambia il modo di vita fin nelle abitudini più sedimentate: le donne irrompono nella scena pubblica; la morte che è inevitabilmente molto presente a causa della passata carneficina, deve essere sconfitta dandole una patente di eroicità o negandola in una fremente gioia di vivere che scardina le limitazioni imposte dal senso del dovere, dall’onestà puntigliosa di impronta ottocentesca; la religione, che ha costituito un forte appiglio durante il conflitto, viene messa da parte, allontanata dal vivere quotidiano; e questo è ben compreso e costituisce una novità soprattutto nel mondo cattolico, dove i vescovi lanciano spesso anatemi contro i nuovi abiti femminili, corti e sbracciati, la moda dei bagni di mare, il vortice degli affari e tutto ciò che trascina gli uomini lontano dal raccoglimento e dalla contemplazione. Dopo il fermento degli anni Venti l’economia subisce una battuta di arresto dovuta alle difficoltà e ai disordini della riconversione industriale, alle pesanti sanzioni economiche imposte alla Germania, all’isolazionismo degli Stati Uniti, alla riduzione degli scambi fra Est e Ovest, al rinchiudersi delle economie dentro l’ambito di confini nazionali, al prevalere di aspirazioni autarchiche. Aumenta la disoccupazione, ingrossata dai reduci che non trovano posti di lavoro soddisfacenti, e si fanno più acuti gli antagonismi sociali. Il contraccolpo della crisi economica del 1929, importata dagli Stati Uniti, è un altro importante segnale del declassamento europeo su scala mondiale. Gli Stati Uniti vedono scoppiare un’economia in espansione ancora priva di sistemi di regolazione in grado di attenuare gli effetti delle congiunture negative, ma gli esiti della crisi saranno, non a caso, duraturi per l’Europa. Misure protezionistiche facilitano l’intervento dello Stato nell’economia e la tendenza all’autoritarismo, mentre lo sviluppo di un nuovo capitalismo tende alla concentrazione della produzione e dei mezzi finanziari.

    Intanto un nuovo modello di organizzazione politica e sociale si impone, ed è quello scaturito dalla rivoluzione bolscevica. Così il disagio e la protesta diventano una critica mirata ai vecchi ceti dirigenti in ordine alle contraddizioni irrisolte nei Paesi occidentali. L’ideale di giustizia sociale che anima i partiti socialisti viene tuttavia spazzato via dalle forze tradizionaliste che prevalgono prima in Italia, che diventa un modello di regime autoritario per altri Paesi europei, e poi in Germania, dove, sebbene con modalità molto diverse, cade la Repubblica di Weimar e si assiste all’ascesa di Hitler. Ma nella partita che si gioca in Europa sono presenti pure le forze democratiche e liberali, anche se esse mostrano segni di timidezza e se negli stessi Paesi che si sottraggono alla svolta autoritaria si indeboliscono i parlamenti a favore del potere esecutivo, e degli apparati burocratici e si sviluppano forme di dirigismo economico. La guerra di Spagna è un banco di prova che denuncia questa timidezza nel riluttante sostegno alle brigate internazionali che si schierano a favore della repubblica, atteggiamento che sarà confermato dalla iniziale arrendevolezza nei confronti delle mire espansionistiche di Hitler. Gli organismi internazionali che avrebbero dovuto intervenire mostrano, d’altra parte, la loro insufficienza, in questa occasione come nel conflitto italo-etiopico.

    Un dato comune ai Paesi democratici e alle dittature è la rilevanza assunta dalle masse anche come effetto della mobilitazione bellica, sia sul piano politico sia su quello economico. È questo uno degli aspetti che più mettono in crisi lo Stato liberale e sollecitano tentativi di trovare scorciatoie per risolvere i problemi connessi alla più larga partecipazione politica e all’organizzazione del consenso. La diffusione dell’istruzione, l’industrializzazione, l’urbanesimo, lo sviluppo dei corpi amministrativi danno intanto un nuovo volto alla società. Non a caso la scuola degli Annales nasce alla fine degli anni Venti: non basta più guardare gli eventi che increspano la superficie e i gruppi che apparentemente fanno la storia, ma occorre tenere conto delle tendenze di fondo, di tutta la profondità del sostrato, dei ceti che costituiscono l’humus in cui agiscono i protagonisti, e che costituiscono a volte i limiti della loro azione, e dei tempi lunghi che sono loro propri.

    Se i decenni che separano i due conflitti mondiali possono essere considerati in blocco un’epoca in cui si elaborano i temi della contemporaneità, per molti aspetti la seconda guerra mondiale costituisce una cesura anche più profonda. Essa porta alle estreme conseguenze alcune delle caratteristiche che si erano già manifestate in particolare in Germania, ma pure in altri Paesi e nella stessa Unione Sovietica, dove, fra l’altro, l’antisemitismo non è meno virulento che altrove e il lager è utilizzato come mezzo di punizione e di eliminazione dei nemici e dei diversi. Le contraddizioni di un’Europa profondamente in crisi sono evidenziate dall’indifferenza per la vita umana, dalle politiche di annientamento di intere comunità, dall’internamento di malati, vecchi, zingari e minoranze in genere in campi di concentramento e, soprattutto, dalla Shoah, dallo sterminio degli ebrei nelle camere a gas messo in atto dal regime hitleriano, che riveste un’eccezionalità innegabile, prima che l’esito del conflitto spazzi via quella che è stata considerata da alcuni una parentesi nella storia europea, qualcosa che nella sua enormità e assurdità non trova posto né spiegazione nelle sue tradizioni. Ma neppure la conclusione del conflitto, la bomba atomica sganciata dagli Americani su Hiroshima e su Nagasaki, mette in mostra una maggiore considerazione per le sofferenze degli individui, piegate alle ragioni di un ipotetico e distorto bene collettivo. Nell’Europa occidentale la guerra influisce sulla stratificazione sociale, provocando una mobilità inedita – non solo in ascesa – fondata sulla rapida ricostruzione e sulla duttilità del capitalismo, mentre si mettono in evidenza le resistenze ai regimi totalitari che avevano operato sotterraneamente e si riorganizzano i partiti democratici. Nell’Europa orientale, invece, i cambiamenti sono ancora pilotati dall’alto e indirizzati a un’economia intesa a sostenere una politica di potenza. Nascono anche nuovi problemi, tra cui quello degli equilibri nel Vicino Oriente, dove, nel 1948, viene istituito lo Stato di Israele e si apre la questione palestinese destinata ad avere importanti conseguenze fino ai nostri giorni. Ma sul piano politico l’esito fondamentale del conflitto mondiale è uno spostamento conclamato dell’egemonia dall’Europa, che vede sfaldarsi il suo impero coloniale e subisce il trauma della divisione della Germania, verso gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, e la formazione di un mondo bipolare che sarà dominato per tutti gli anni Cinquanta, e fino all’età di Chruscev e di Kennedy, dalla guerra fredda e da un contrasto fra Oriente e Occidente di cui il muro edificato all’interno della città di Berlino nel 1961 costituisce il simbolo più evidente.

    Il secondo dopoguerra

    Non molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, si producono però le prime avvisaglie di una crisi di quest’ordine. Nel 1949 nasce lo Stato comunista cinese che costituisce un modello alternativo a quello rappresentato dall’URSS e perciò stesso lo mette in discussione. Anche il regime che si instaura a Cuba nel 1960 è una gemmazione, ma anche l’indicazione, di una via diversa da percorrere rispetto all’URSS. La rivolta di Berlino Est nel 1953, l’insurrezione ungherese nel 1956, la Primavera di Praga nel 1968 sono altrettanti scossoni decisivi che minano la compattezza del blocco orientale. Nella stessa Unione Sovietica, che finisce con il ridursi a essere un Paese blindato, ingessato da una burocrazia soffocante, diretto da un partito unico, nel quale la vita culturale è irreggimentata e anche l’economia, il campo in cui si realizzano comunque significativi progressi, risulta serrata fra pianificazione e collettivizzazione, si produrrà un diffuso malcontento e un’aspirazione alla libertà e al modello occidentale dei consumi che monterà fino alle élite dirigenti e costituirà il motivo preminente – anche più dell’impossibilità di competere con gli Stati Uniti nella corsa agli armamenti – dell’implosione del sistema verso la fine del secolo. Il comunismo si manifesta, nonostante ciò, come una delle ideologie più importanti prodotte in Europa, suscettibile di realizzazioni e sviluppi diversi ed esportata largamente al di fuori del vecchio continente.

    Le critiche degli ambienti intellettuali al sistema occidentale sono anche più radicali, benché ristrette ad ambiti più circoscritti e decisamente minoritari della società. Il 1968 ne è il momento culminante. È l’anno in cui si evidenziano i limiti del rapido sviluppo economico che aveva caratterizzato il decennio e in cui monta la protesta delle fasce emarginate o marginali, delle minoranze, dei giovani, delle donne e dei salariati che vogliono essere partecipi degli avanzamenti economici conseguiti dal sistema negli anni precedenti. Sul piano sociale il Sessantotto incide profondamente, anche quando la sua spinta verso forme di democrazia diretta si dimostra priva di risultati concreti, modificando in modo duraturo i comportamenti in senso egualitario, da un lato, e libertario, dall’altro, per la nuova attenzione alle esigenze di ogni singolo individuo, ma anche lasciando in retaggio il terrorismo che resterà a lungo una minaccia, assumerà forme diverse e si innesterà persino su contrasti di carattere religioso, come nell’Irlanda del Nord. Il Sessantotto non è un fenomeno esclusivamente europeo. Proprio a partire dall’Europa si sviluppa invece il nuovo protagonismo della Chiesa di Roma, che con Giovanni XXIII, la sua politica di dialogo con i fedeli di altre confessioni religiose e con i non credenti e il nuovo corso impresso alla vita ecclesiastica dal Concilio Vaticano II, si svincola da una partecipazione troppo stretta alla politica europea e si avvicina ai semplici e ai diseredati di tutto il mondo, chiedendo ai fedeli di stringersi in una comunità veramente cristiana. È a partire da questo concilio che, fra l’altro, la teologia della liberazione influisce decisamente sulla politica e sulla vita quotidiana dell’America Latina. Giovanni Paolo II porterà poi la Chiesa ad avere un ruolo politico di rilievo nella caduta del comunismo e continuerà la sua proiezione al di fuori dell’Europa anche con i suoi numerosi viaggi in tutto il globo.

    Il mondo si divide anche in un Nord avanzato e in un Sud povero. Il Terzo Mondo finisce però presto, almeno a partire dagli anni Sessanta, con il contrapporsi ai due blocchi che formano il mondo progredito e al loro imperialismo. I Paesi non allineati costituiranno una forza in grado di condizionare il quadro politico. D’altro canto il risveglio dei Paesi arabi e la conseguente crisi petrolifera, scompiglierà le carte e favorirà l’accumulazione di ricchezze nei Paesi produttori di oro nero e il loro ingresso nella finanza internazionale, rendendo difficile parlare genericamente di un Terzo Mondo. Il formarsi, nell’Occidente e soprattutto in Europa, di una serie di miti provenienti da oltre i confini del continente, che fanno capo a Mao, al Che, a Castro, indicano non solo la ripulsa del capitalismo e delle conseguenti differenziazioni sociali, ma anche la ricerca di modelli che, pur non aderendo in toto a quello sovietico, segnano comunque un avvicinamento ai valori espressi dal mondo comunista. Altri miti, come quelli di Mandela, di Martin Luther King e di Gandhi che portano in primo piano il desiderio crescente di ricomporre le fratture sociali e politiche dovunque esse si siano prodotte nel mondo, e, a suo modo, di Kennedy, con il suo slancio giovanilistico, la sua attenzione per i marginali, il riconoscimento di un nuovo ruolo dell’Europa nello scacchiere internazionale, andranno a formare il quadro composito delle aspirazioni dell’epoca sulle cui basi il movimento pacifista degli anni Settanta potrà diffondersi ed entrare in consonanza con il messaggio postconciliare della Chiesa di Roma. Sono gli anni della conclusione della guerra nel Vietnam, della guerra del Kippur, del colpo di Stato contro Allende, dell’avvio verso l’integrazione europea e dell’incrinarsi dell’egemonia mondiale di Stati Uniti e Unione Sovietica, della fine del bipolarismo e dell’inizio di un’epoca di relazioni bilaterali.

    L’era della globalizzazione

    Questo incalzare di avvenimenti, tutti in qualche modo epocali, prepara l’implosione del sistema comunista, di cui la caduta del muro di Berlino è la grande rappresentazione. Si apre una nuova era, quella della globalizzazione, della prevalenza delle ragioni dell’economia su quelle della politica, del rafforzarsi degli organismi sovranazionali, dell’indebolimento dell’idea di nazione, della formazione di identità locali fondate su comunanze religiose, etniche, o anche storiche o pretese tali, oppure più banalmente su motivi economici che si ammantano delle prime. Un’era in cui l’Europa avverte il rischio che alcuni Paesi dell’ex Terzo Mondo (Cina e India soprattutto) possano prevalere in un futuro non lontano sui mercati internazionali e che venga quindi messo in forse il benessere che essa è venuta conquistando lungo tutto il secolo scorso. Un’epoca in cui anche sul piano politico si potrà guardare il globo mettendo il Pacifico al centro della mappa. E, ancora, un tempo in cui si diffonde la paura che le migrazioni dal sud del mondo verso l’Europa ne mettano in pericolo l’identità e l’islam possa rompere la compattezza religiosa del continente. Così l’Europa può essere oggi considerata una parte del mondo giunta al capolinea della sua storia, sulla via di una decadenza irresistibile. Ma è anche possibile una lettura diversa. L’Europa, seppure alla periferia dell’impero, può essere vista, nonostante o proprio per la perdita della sua centralità politica ed economica, come un luogo ancora capace di elaborare nuovi modelli fondati su quello che resta un suo carattere distintivo, e cioè l’essere un luogo di incontro di gente diversa per lingua, religione e costumi, un centro in cui si pensa e si sperimenta faticosamente un avvenire di convivenza pacifica.

    La sensazione di essere entrati da poco in un’epoca nuova influenza la scrittura della storia che tende a essere perciò un racconto aperto al suo futuro e, di conseguenza, a guardare il passato senza chiudere gli avvenimenti dentro sequenze inevitabili e univoche, senza correre il rischio della unilinearità e della teleologia. E non sorprende che si mettano in evidenza i sistemi di relazione e di scambio. Non per nulla è stato dato spazio recentemente alla storia degli ebrei, dei poveri, dei pellegrini e delle minoranze in genere, mentre quella degli zingari e dei piccoli Stati (non a caso presenti in queste pagine al fianco dei grandi Stati europei) è appena agli albori. La storia di questi ultimi può essere considerata emblematica in quanto scambi e relazioni sono stati e sono per loro ben più necessari che per gli Stati maggiori. Basti pensare non solo alla frequenza dei passaggi attraverso le frontiere, ma anche e soprattutto alla contrattazione continua con i Paesi confinanti cui essi devono la loro sopravvivenza.

    L’ultimo conflitto mondiale in particolare ha, d’altra parte, favorito il proliferare di una storia cronachistica, di parte, vista dall’angolo visuale del singolo e basata sui suoi limitati orizzonti, interessi, competenze, possibilità, ideologie, mentre la storia orale, la raccolta dei ricordi dei sopravvissuti, ha indotto a riflettere anch’essa sulla diversità dei racconti e sulla problematica costruzione della memoria. Dal momento poi in cui la cortina di ferro è caduta, sono state esaminate le diverse storie insegnate a ovest e a est di questa linea di demarcazione ed è venuta in primo piano la questione dell’uso politico della storia. Con questo bagaglio e per rispondere a queste sollecitazioni, ci si propone oggi, e si tenta qui, non certo di omogeneizzare le storie, ma piuttosto di utilizzare un approccio comparativo che faccia risaltare similarità, reti e interconnessioni, ma anche disarmonie e conflitti e di presentare una storia d’Europa che metta in luce la mutevolezza delle identità e il suo continuo ricostruirsi.

    Panorama del secolo: gli Stati europei

    L’Italia: dall’età giolittiana alla Repubblica

    Elena Papadia

    L’età giolittiana (1901-1914) è caratterizzata dalla democratizzazione del sistema politico liberale: l’apertura nei confronti dei socialisti e dei cattolici e la concessione del suffragio universale maschile mirano all’integrazione delle masse nella vita dello Stato. Nel dopoguerra, la conquista fascista dello Stato segna l’avvento di un regime reazionario che si fonda sulla mobilitazione delle masse, ma annulla le libertà politiche e sociali degli individui. La fine del ventennio fascista (1922-1943), seguita dalla sconfitta delle forze dell’Asse nella seconda guerra mondiale, apre anche in Italia una nuova era.

    Dall’inizio del secolo alla Grande Guerra

    Il nuovo secolo si apre, in Italia, con un regicidio. L’uccisione di Umberto I per mano dell’anarchico Gaetano Bresci (29 luglio 1900) rappresenta l’ultimo atto della grave crisi politica e istituzionale iniziata due anni prima con la repressione manu militari dei moti per il caro viveri, a cui era seguito il tentativo – portato avanti dal governo Pelloux con il sostegno della corona – di limitare drasticamente quell’insieme di libertà politiche e civili il cui riconoscimento aveva fatto sì che l’Italia potesse iscriversi a buon diritto nel novero degli Stati liberali.

    Tuttavia, anzichè inasprire le tendenze autoritarie, la morte del re segna il definitivo fallimento della reazione. Le elezioni politiche di giugno avevano già fatto registrare una consistente vittoria delle sinistre (socialisti, radicali, repubblicani), protagoniste di una strenua battaglia parlamentare contro le leggi liberticide proposte da Pelloux (1839-1924); da parte sua Vittorio Emanuele III, salito al trono nell’agosto del 1900, si allontana dalla politica repressiva seguita dal padre. È, di fatto, l’inizio di un nuovo corso, in cui l’idea di un ritorno allo Statuto – ovvero il riferimento a un modello di monarchia costituzionale di stampo prussiano – viene accantonata in nome di un progetto assai diverso, mirante alla piena parlamentarizzazione del sistema politico e all’inserimento delle masse nella vita dello Stato; e questo progetto porta il nome di Giovanni Giolitti (1842-1928).

    Contro la tendenza a reagire alle sollecitazioni provenienti dai ceti più bassi della società con leggi reazionarie e prepotenze di governo, contro l’idea che le tensioni sociali potessero essere gestite come un problema di ordine pubblico e che il governo dovesse ergersi a difensore degli interessi delle classi padronali, Giolitti propugna con lucidità e coerenza la completa neutralità dello Stato nei conflitti tra capitale e lavoro e il carattere politicamente, economicamente, socialmente positivo dell’organizzazione e dell’ascensione delle classi popolari. Ministro dell’Interno nel governo guidato dal democratico Giuseppe Zanardelli (1826-1903) tra il 1901 e il 1903, Giolitti ne rappresenta la vera anima, e inaugura la sua lunga egemonia sulla vita politica italiana.

    Naturali interlocutori di questo nuovo indirizzo politico devono essere – oltre naturalmente alle correnti liberali più avanzate – coloro che si propongono come i rappresentanti dei diritti e degli interessi delle classi popolari, ovvero i socialisti. Nei confronti del Partito Socialista Italiano Giolitti abbandona la politica repressiva inaugurata qualche anno prima da Crispi (1818-1901) e tenta la via della collaborazione; una scelta, questa, che sembra essere favorita dai rapporti di forza che si sono delineati tra la corrente rivoluzionaria e la corrente riformista del partito. Nel settembre del 1900 il VI congresso del PSI aveva approvato, con un solo voto contrario, il programma minimo proposto da Claudio Treves (1869-1933). Ampliamento del suffragio, legislazione sociale, decentramento amministrativo e riforma tributaria diventano gli obiettivi programmatici del partito, che abbandona – almeno temporaneamente – la prospettiva insurrezionale, concentrando le sue energie sulla modernizzazione e sulla democratizzazione del sistema capitalistico-liberale. Guidato da Filippo Turati (1857-1932), la cui fede socialista non si pone in contrasto con una forma mentis di ispirazione democratico-radicale, il Partito Socialista Italiano adotta nei confronti del governo Zanardelli-Giolitti la linea della valutazione caso per caso, la quale finisce per trasformarsi di fatto in un voto di fiducia.

    L’attività riformatrice del governo Zanardelli (indebolita peraltro dal fallimento dei progetti più ambiziosi, quali la riforma tributaria e l’introduzione del divorzio), viene ripresa dai governi successivi, guidati da Giolitti in persona. Tra il 1903 e il 1913 vengono approvate la conversione della rendita (dal 5 percento al 3,5 percento), la nazionalizzazione delle ferrovie, la municipalizzazione dei servizi, la legislazione sul Mezzogiorno e poi, sul finire del decennio giolittiano, il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita e il suffragio universale maschile: tutti passi in avanti sulla via della trasformazione del vecchio Stato liberale in una moderna liberaldemocrazia, ma – agli occhi di molti osservatori – passi fin troppo cauti, che si risolvono in un riformismo pragmatico del caso per caso, incapace per sua natura di affrontare e di risolvere le questioni di fondo. Ciò che maggiormente viene rimproverato a Giolitti, però, è la supposta manomissione del meccanismo della rappresentanza politica: non solo a causa dell’intervento dei prefetti nelle elezioni (un intervento pesante soprattutto nel Sud, e che vale a Giolitti l’appellativo, coniato da Gaetano Salvemini (1873-1957), di ministro della malavita), ma soprattutto a causa del neotrasformismo cui il presidente del Consiglio sembra improntare i suoi rapporti con la Camera. In quella che gli avversari avrebbero definito la dittatura giolittiana, l’esistenza di una vasta maggioranza parlamentare, retta dal personale rapporto di dipendenza dei suoi membri dal presidente del Consiglio, sembra rendere di fatto impraticabile qualsiasi alternativa ispirata a un diverso orientamento politico. Se ne accorge, a sue spese, Sidney Sonnino (1847-1922): il suo tentativo di costituire un grande partito conservatore, in grado di promuovere dall’alto le riforme necessarie allo sviluppo e alla modernizzazione del paese senza cedere terreno ai sovversivi, non riesce a concretizzarsi, e i tentativi sonniniani di governo (due brevi parentesi, nel 1906 e nel 1910), falliscono anche per la mancanza di un partito in grado di sostenerli.

    Egemonia politica e discredito culturale procedono dunque di pari passo. Particolarmente acceso è l’antigiolittismo degli intellettuali, a cui il pragmatismo empirico e l’attitudine spiccatamente antiretorica dell’uomo politico piemontese non appaiono certo doti, ma anzi il segno di un grave deficit ideale, confermato e aggravato dalla corruzione della vita politica e dal cinismo nella gestione del potere. Nell’ultimo scorcio dell’età giolittiana questo accumulo di tensioni ideali fa vacillare l’equilibrio politico, tendendo a far emergere correnti ideologicamente radicali e indisponibili al compromesso e al gradualismo giolittiani. La guerra contro la Turchia per la conquista della Libia (1911-1912) rende più aggressivo il movimento nazionalista che, costituitosi in associazione nel 1910, si va caricando in quegli anni di accenti sempre più marcatamente imperialistici e antiliberali, e favorisce la vittoria della corrente massimalista all’interno del Partito Socialista, la quale, specularmente, comincia in quel momento a costruire le proprie fortune su un antimilitarismo non privo di esibite venature antipatriottiche. Le elezioni dell’autunno del 1913, le prime a suffragio universale maschile, segnano una consistente avanzata dei socialisti; se i liberali reggono l’urto è soprattutto grazie al contributo degli elettori cattolici, che la sospensione del non expedit libera dall’obbligo dell’astensione. Il patto siglato in vista delle elezioni da Giolitti con il conte Ottorino Gentiloni, presidente dell’Unione Elettorale Cattolica, può sembrare un successo della strategia giolittiana basata sull’inclusione di quelle masse – cattoliche come socialiste – che fino a quel momento erano state estranee od ostili al progetto liberale di governo. In realtà, l’elettorato cattolico è portatore di una propria cultura politica, diversa – talvolta molto diversa – da quella liberale. L’emergere del nazionalismo, del socialismo rivoluzionario, del cattolicesimo politico mostra così il principale limite del trasformismo giolittiano, ovvero il suo isolamento culturale. Una mediocre combinazione parlamentare, nata tra i corridoi e l’aula: così viene considerata, nel giudizio dei nuovi alfieri dell’ideale, l’Italia giolittiana. Ma quell’Italia – prosegue nel 1913 il sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola (1873-1959) – non esiste più: esiste un’Italia cattolica, esiste un’Italia socialista, esiste un’Italia imperialista: non esiste un’Italia giolittiana.

    In quest’ultima parte, il giudizio coglie nel segno; ma c’è da aggiungere che, insieme all’Italia giolittiana, è in profonda crisi l’Italia liberale stessa. L’ampio discredito di cui la classe dirigente liberale è diventata oggetto si riverserà, di lì a poco, anche sulle istituzioni liberali, e in particolare sul Parlamento. L’antiparlamentarismo, a dire il vero, godeva già da tempo di un’ampia circolazione nell’opinione pubblica del Paese. Tuttavia, una cosa è la denuncia, da parte di giornalisti e intellettuali, delle patologie e delle disfunzioni del sistema rappresentativo; altro è l’esercizio, da parte della piazza, di una violenta pressione sul Parlamento, fino a scavalcare la volontà di una maggioranza democraticamente eletta. Proprio questo è ciò che accade nella primavera del 1915, quando, in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale, una minoranza interventista – composta per lo più da nazionalisti, repubblicani, sindacalisti rivoluzionari – riesce a imporsi con una campagna violenta e intimidatoria sulla maggioranza neutralista rappresentata in Parlamento. Il 20 maggio 1915 quest’ultimo si piega, votando a scrutinio segreto la concessione dei pieni poteri al governo; il 23 maggio, a nome dell’Italia, il governo Salandra (il liberal-conservatore Antonio Salandra, (1853-1931), aveva sostituito Giolitti alla presidenza del Consiglio nel marzo del 1914: l’età giolittiana era davvero finita) dichiara guerra all’Austria.

    Le modalità con cui l’Italia entra in guerra provocano spaccature e lacerazioni che il conflitto, invece di sanare, avrebbe esacerbato, e immettono nella vita politica del Paese i germi di una nuova politica fondata sull’appello diretto alle masse (Mussolini e D’Annunzio erano stati i campioni delle piazze interventiste), sulla denuncia del nemico interno, sulla contrapposizione della nazione al Parlamento. Nell’arroventato clima politico del dopoguerra, miti e riti della nuova politica spazzeranno via le ultime resistenze del vecchio mondo e della vecchia mentalità liberali, già messe a dura prova dal prolungato sforzo bellico. La guerra, infatti, si rivela molto diversa dal previsto: non il rapido conflitto immaginato da Salandra e dal suo ministro degli Esteri Sonnino, bensì un’estenuante guerra di logoramento. Le azioni offensive ordinate dal comandante in capo Luigi Cadorna (concentrate principalmente sul fronte del Carso e dell’Isonzo) falliscono ripetutamente di fronte alle trincee austriache. Mantenuta caparbiamente e contro ogni evidenza fino alla sconfitta di Caporetto, l’impostazione offensiva, di cui la realtà della guerra di trincea aveva presto mostrato l’inefficacia, ha un costo altissimo in termini di vite umane: l’abbondanza di carne da cannone deve supplire all’impreparazione tecnica, all’improvvisazione strategica, all’inferiorità negli equipaggiamenti. Alla noncuranza nei confronti del sacrificio di vite umane, si unisce in Cadorna l’applicazione di metodi disciplinari di stampo terroristico, con ricorso frequente alla decimazione e alle esecuzioni sul campo; e anche questo non cambia fino a che, nell’ottobre del 1917, l’esercito italiano non va incontro alla più disastrosa sconfitta della sua storia con le truppe austro-tedesche che, con la tattica dell’infiltrazione, riescono a sfondare le linee italiane e ad arrivare fino al Piave. L’invasione da parte del nemico dei propri confini, la perdita di molti dei territori conquistati con fatica nelle guerre del Risorgimento, viene percepita dal Paese (ma non dalla sua popolazione agricola, desiderosa in qualche caso che arrivasse qualcuno, fossero pure i Tedeschi, pronto a tagliare la testa ai signori che avevano voluto la guerra) come una prova di vita o di morte. Destituito Cadorna, il nuovo comandante in capo Armando Diaz (1861-1928) stabilisce un rapporto di collaborazione con il potere politico, abbandona la tattica offensiva, migliora l’assistenza materiale e morale dei soldati. Nell’ultimo anno di guerra l’esercito italiano mantiene saldamente le sue posizioni, finché, con l’esercito austro-ungarico già in piena dissoluzione, grazie a un’ultima azione offensiva riesce a sfondare il fronte nemico nei pressi di Vittorio Veneto e a raggiungere Trento e Trieste. Il 4 novembre 1918 cessano le ostilità con l’Austria, e l’Italia festeggia da vincitrice la fine del primo conflitto mondiale.

    Il primo dopoguerra

    Tuttavia, l’euforia della vittoria dura poco. La guerra lascia, sotto molti punti di vista, un’eredità pesante, impoverendo il Paese, rinfocolando l’antica avversione contadina nei confronti dello Stato e, in generale, alimentando nei ceti popolari un’esasperata volontà di risarcimento per i sacrifici patiti nelle fabbriche militarizzate, nei campi o al fronte. La fine della guerra, poi, anziché ricomporre il contrasto tra interventismo e neutralismo ne intensifica i toni, con i socialisti additati come nemico interno per la loro polemica nei confronti delle ragioni della guerra e per la loro ostilità nei confronti di persone e simboli che alla guerra si associano. Sull’altra sponda, il campo nazionalista è agitato dalla sindrome della vittoria mutilata, ovvero dall’ingiustificata convinzione che l’Italia sia stata defraudata dei frutti della vittoria. Il fatto è che la delegazione italiana si era presentata alla conferenza di pace di Parigi con un documento in cui, oltre all’annessione dei territori previsti dalla Conferenza di Londra (nell’aprile del 1915, l’Italia si era impegnata a entrare in guerra a fianco dell’Intesa in cambio del Trentino, del Tirolo meridionale, di Trieste, dell’Istria con l’eccezione di Fiume e di una parte della Dalmazia), si chiedevano – in base al principio di nazionalità proclamato dal presidente americano Wilson – anche Fiume e Spalato. Nessuno degli ex alleati – né gli Stati Uniti, né l’Inghilterra, né la Francia – prende in seria considerazione simili velleitarie richieste, e il braccio di ferro dei negoziatori italiani si conclude con un fallimento. In Italia la campagna nazionalista assume allora toni accesissimi, arrivando fino al bel gesto dannunziano dell’occupazione di Fiume (settembre del 1919): un’iniziativa tanto clamorosa quanto inutile, destinata a concludersi dopo poco più di un anno con le truppe regolari italiane che costringono a una rapida resa i legionari guidati dal poeta-comandante.

    I risultati delle elezioni politiche del novembre del 1919 – le prime del dopoguerra, e anche le prime in cui al suffragio universale maschile si associa l’adozione del metodo proporzionale – restituiscono l’immagine di un Paese diviso, abitato da culture politiche non solo tra loro incompatibili, ma anche estranee alla mentalità, al metodo, alle finalità proprie di quel mondo liberale al quale fino a quel momento erano appartenute le classi dirigenti italiane. La vittoria dei socialisti (32,3 percento dei voti, contro il 17,7 percento ottenuto nelle elezioni del 1913) giunge in un momento in cui il partito è saldamente in mano ai massimalisti i quali, galvanizzati dall’ottobre rosso, hanno portato al massimo il loro tasso di radicalismo rivoluzionario; la buona affermazione del Partito Popolare Italiano (20,5 percento dei voti), che riunisce l’elettorato cattolico sotto la guida di don Luigi Sturzo (1871-1959), porta alla ribalta un’altra forza estranea alla tradizione liberal-risorgimentale: la sconfitta dei liberali (i quali continuano a non essere organizzati in partito) non è solo numerica, è una crisi profonda e irreversibile di legittimazione politica. D’altra parte, però, le elezioni non hanno indicato alcuna alternativa reale, non avendo né i socialisti né i cattolici ottenuto consensi sufficienti a governare da soli, ed essendo impraticabile una collaborazione tra i due partiti: di qui un’impasse che rende il sistema politico liberale vulnerabile come mai nei suoi precedenti sessant’anni di storia.

    La breve durata dei governi del dopoguerra (Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta tra il giugno del 1919 e l’ottobre del 1922) rivela l’instabilità di un quadro politico in cui una maggioranza debole e incerta si trova a gestire l’emergere di gravissime tensioni sociali. Tra il 1919 e il 1920 si verifica infatti un’intensa mobilitazione dei braccianti e degli operai, intenzionati i primi a prendersi davvero le terre promesse negli anni di guerra, e i secondi a farsi protagonisti di quella palingenesi rivoluzionaria che la vittoria dei bolscevichi in Russia sembrava aver dimostrato finalmente possibile. Esauritosi il biennio rosso con un nulla di fatto – il suo episodio-simbolo, l’occupazione delle fabbriche da parte degli operai, si conclude con una vittoria sindacale ma con un sostanziale fallimento politico – il Paese è attraversato da un’ondata di violenze di un’intensità fino ad allora sconosciuta. Protagonisti ne sono gli squadristi fascisti, giovani militanti di quei Fasci di combattimento che Mussolini aveva fondato in piazza San Sepolcro a Milano nel marzo del 1919.

    Il ventennio fascista

    Originariamente, i Fasci altro non erano se non una delle tante formazioni nate nel seno del radicalismo nazionale di origine interventista. A cavallo tra destra e sinistra (all’aggressivo nazionalismo si univa infatti una tendenzialità repubblicana e una venatura anticapitalista che appartengono al repertorio ideologico della sinistra, da cui peraltro, oltre a Mussolini, provenivano molti dei sansepolcristi), i Fasci avevano vissuto fino a quel momento una vita stentata, forti solo del rilievo nazionale del loro leader e del quotidiano – Il popolo d’Italia – da lui diretto. È solo nell’autunno del 1920 che il movimento prende consistenza, virando nettamente a destra e proponendosi come una sorta di partito-milizia pronto a combattere con la violenza contro i socialisti: le squadre d’azione, composte da giovani reduci di guerra e di giovanissimi con la fascinazione per la guerra, partono con i camion dalle città e convergono verso le zone rosse (concentrate nelle campagne padane, dove maggiore è il radicamento delle leghe bracciantili e delle amministrazioni comunali socialiste), distruggendo le sedi delle case del popolo, delle leghe e delle cooperative, minacciando o uccidendo i membri delle giunte comunali socialiste. Finanziate dai grandi proprietari terrieri (animati da uno spirito di rivalsa che il biennio rosso aveva drammaticamente acuito), tollerate in funzione antisocialista dal governo e ancor di più dai prefetti, le squadre fasciste dilagano nel Paese. Due anni dopo, il 28 ottobre 1922, marciando su Roma, i fascisti si impadroniscono dello Stato e portano il loro duce alla guida del governo.

    Tra i fattori che contribuiscono a spiegare un’affermazione tanto travolgente, oltre alla profonda crisi delle classi dirigenti e delle istituzioni liberali, oltre all’errore di valutazione di quei governanti che pensano di servirsi del fascismo per poi normalizzarlo (tra cui Giolitti che applica anche con i fascisti la sua tattica del non intervento), oltre alla controffensiva degli agrari, occorre ricordare l’inadeguatezza della risposta socialista. Per quanto il biennio rosso sia stato costellato di episodi di violenza, la violenza organizzata non fa parte della tradizione dei socialisti, che si trovano spiazzati di fronte all’offensiva squadrista. Ma non solo: non percependo la reale portata della minaccia fascista, i socialisti italiani rinunciano – proprio nel momento in cui quella minaccia si fa più pericolosa – alla loro unità. Il 21 gennaio 1921, a Livorno, dalla scissione dell’ala sinistra del Partito Socialista Italiano nasce il Partito Comunista d’Italia. Fortemente ispirato al modello bolscevico, fedele interprete delle direttive della III Internazionale, il Partito Comunista d’Italia crede di riconoscere nel fascismo nient’altro se non un parto del sistema capitalistico-borghese; in quanto tale, esso non si può sconfiggere se non abbattendo quel sistema, e non certo collaborando in funzione antifascista con le forze che ne sono complici o fautrici.

    Sta di fatto che il 28 ottobre del 1922 segna la morte dell’Italia liberale, senza che nessuno (neanche il re che si rifiuta di firmare il decreto di stato d’assedio, lasciando via libera alle camicie nere) pensi che sia arrivato il momento di agire in nome della sua sopravvivenza. È vero che il governo Mussolini viene votato da un’ampia maggioranza parlamentare, ricevendo così, sebbene a posteriori, una qualche forma di legittimazione costituzionale; tuttavia, l’illusione della normalizzazione fascista svanisce presto. Una nuova legge elettorale, approvata dalla Camera nel 1923, stabilisce che al partito che ottenga il 25 percento dei voti siano assegnati due terzi dei seggi: la vecchia classe dirigente liberale pianifica così il suo suicidio. Le elezioni dell’anno successivo sanciscono la vittoria del listone, composto da fascisti e da fiancheggiatori liberali e clerico-nazionali (solo Giovanni Amendola e Giolitti, tra i liberali, hanno la dignità di presentare una lista propria). Con la nuova Camera, di cui le camicie nere rappresentano una larga maggioranza, giunge a compimento l’occupazione fascista degli istituti e dei luoghi della politica liberale.

    Il vero e definitivo punto di svolta, però, si ha con l’omicidio del deputato socialista-unitario Giacomo Matteotti (1885-1924). In un discorso alla Camera successivo alle elezioni, Matteotti aveva coraggiosamente denunciato i brogli e le violenze che avevano falsato l’espressione del voto popolare; dieci giorni dopo, veniva pugnalato a morte da una squadra fascista. Sia o meno Mussolini mandante diretto del crimine, certa è – e appare subito a tutti – la responsabilità morale e oggettiva del duce del fascismo. Il caso Matteotti sembra sul punto di travolgere Mussolini, tanto forte e diffuso è lo sdegno dell’opinione pubblica. Dal canto loro, le forze di opposizione promuovono un’azione finalmente concorde, abbandonando i lavori parlamentari e riunendosi separatamente. La secessione detta dell’Aventino, guidata da Giovanni Amendola, rende finalmente visibile la protesta antifascista, ma fallisce l’obiettivo del rovesciamento del nascente regime: con il re ancora muto spettatore degli eventi, i fiancheggiatori titubanti, le piazze silenziose (la via comunista della mobilitazione popolare è stata scartata dagli altri leader aventiniani), Mussolini trova il tempo di riprendere in mano l’iniziativa. Lo fa, di lì a poco, abbandonando ogni residuo ancoraggio alla sponda legalitaria e inaugurando la stagione della dittatura a viso aperto: pronunciato il 3 gennaio del 1925 alla Camera un discorso minaccioso e intimidatorio, tra il 1925 e il 1926 le leggi fascistissime cambiano in profondità la fisionomia dello Stato italiano. Strappate al Parlamento le sue prerogative, soppresse la libertà di stampa, la libertà politica, la libertà sindacale, istituito un Tribunale speciale per la difesa dello Stato sottratto alle competenze e alle procedure della magistratura ordinaria, Mussolini trasforma l’Italia in un regime monopartitico e tendenzialmente totalitario. La nuova legge elettorale, che trasforma le elezioni in plebisciti, e la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo, con la quale il supremo organo del partito fascista è riconosciuto come un’istituzione dello Stato (1928), completano il passaggio.

    In politica estera, le iniziali cautele con le quali si era espresso il revanscismo fascista rispetto all’ordine deciso a Versailles vengono abbandonate alla metà degli anni Trenta. La guerra d’Etiopia (1935) porta a un primo strappo tra l’Italia e la Società delle Nazioni, che decide di punire l’impresa con l’applicazione di (parziali) sanzioni economiche. Alla crisi dei rapporti con Francia e Inghilterra corrisponde un primo avvicinamento alla Germania di Hitler (uscita dalla Società delle Nazioni già nel 1933); il sostegno fornito da Italia e Germania alle truppe del generale Franco insorte contro la repubblica spagnola rinsalda il legame tra i due regimi, suggellato nello stesso 1936 dall’Asse Roma-Berlino e nel 1937 dall’adesione dell’Italia al patto antiComintern tra Germania e Giappone e dal ritiro dell’Italia dalla Società delle Nazioni. In politica interna, la promulgazione delle leggi razziali (novembre del 1938) è anche il riflesso di questo irreversibile avvicinamento alla Germania nazista, che avrebbe portato Mussolini – il 10 giugno 1940, qualche mese dopo l’inizio della seconda guerra mondiale – a schierare l’Italia a fianco dell’alleato tedesco.

    L’Italia in guerra: il crollo del fascismo

    Per l’Italia fascista, la seconda guerra mondiale è una lunga e drammatica serie di sconfitte e fallimenti. Strategicamente, militarmente, economicamente e moralmente impreparata a un conflitto che, ancora una volta, si sarebbe rivelato assai più lungo del previsto, l’Italia subisce gravissime perdite in Francia (duemila morti contro i trentasette francesi), perde in Grecia, in Africa settentrionale, in Africa orientale (con relativa perdita dell’impero), in Russia. Alla fine del 1942 solo in pochi, tra gli stessi gerarchi fascisti, confidano ancora nella vittoria dell’Asse e il processo di disgregazione del regime diventa inarrestabile. Nel luglio del 1943, con l’invasione anglo-americana della Sicilia, la crisi agonica del fascismo arriva al suo inevitabile compimento: il 25 luglio di quell’anno il Gran Consiglio del fascismo, votando a maggioranza assoluta l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi (1895-1984), sfiducia Mussolini e restituisce al re l’iniziativa politica e il comando supremo delle operazioni di guerra.

    Il re nomina a capo del governo il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio (1871-1956): vincitore di Addis Abeba e capo di Stato maggiore generale fino ai primi mesi di guerra, Badoglio era rimasto in realtà uomo più del re che di Mussolini, che infatti nel dicembre del 1940 lo aveva rimosso dal suo incarico, condannandolo alla morte civile. Il nuovo governo non assume un orientamento antifascista. Composto di funzionari, tecnici e militari, esso mostra piuttosto un carattere afascista: lo scioglimento del partito fascista e l’abrogazione delle leggi razziali è contestuale al divieto di riorganizzazione dei partiti politici fino alla fine della guerra.

    La guerra, infatti, continua: l’idea del re è quella, completamente fuori dalla realtà, di trattare contemporaneamente con i Tedeschi e con gli Anglo-Americani, al fine di portare l’Italia a una pace separata e onorevole con gli Alleati. È solo l’8 settembre 1943 che, a seguito della massiccia ripresa dei bombardamenti anglo-americani sulle città italiane e dell’acquisita consapevolezza circa l’inevitabilità di una resa incondizionata, Badoglio annuncia l’armistizio dell’Italia con gli Alleati. Alle forze armate, però, non viene data alcuna istruzione operativa e così i militari italiani si trovano allo sbando, facile preda della reazione tedesca. Il giorno successivo all’armistizio, il re e Badoglio lasciano Roma rifugiandosi a Brindisi, già liberata dagli Alleati. Mentre il Paese viene lasciato in balia della Wehrmacht (salvo i territori via via liberati dall’avanzata anglo-americana da sud), il comitato delle correnti antifasciste si trasforma in Comitato di Liberazione Nazionale (CNL) e invita tutti gli Italiani a sollevarsi in armi contro i Tedeschi.

    Mentre il combattimento tra gli Alleati e i Tedeschi si attesta lungo la linea Gustav, che corre dall’Adriatico al Tirreno passando per Cassino; mentre decine di migliaia di giovani rispondono all’appello lanciato dal Comitato di Liberazione Nazionale, combattendo da italiani contro i nazi-fascisti e fornendo così un contributo fondamentale alla costruzione e alla legittimazione di un futuro stato democratico, il fascismo radicale cerca una seconda occasione nella costituzione della Repubblica Sociale Italiana (RSI) e a fianco dei Tedeschi occupanti. La Repubblica fascista di Salò ha alla testa il redivivo Mussolini, liberato dai Tedeschi dalla sua prigionia sul Gran Sasso, che tenta un estremo recupero della purezza delle origini: repubblicanesimo, anticapitalismo, violenza sono tutte armi scagliate contro quel compromesso moderato che sembra aver portato alla rovina il fascismo. In realtà, il destino della Repubblica Sociale Italiana (e di Mussolini) è segnato. Nell’aprile del 1945, il crollo della linea gotica (tra La Spezia e Rimini) sbaraglia le ultime resistenze tedesche; a partire dal 24 aprile, il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia proclama l’insurrezione generale nelle principali città del Nord, con i partigiani che riescono quasi ovunque – ben consapevoli dell’alto valore simbolico della loro azione – a cacciare le ultime retroguardie repubblichine e tedesche prima dell’arrivo degli Anglo-Americani.

    Rimandi

    Volume 62: Costituzioni e costruzione dello Stato liberale

    Volume 62: Borghesie in ritardo: Italia, Russia e Austria-Ungheria

    L’Italia: la Repubblica

    La prima guerra mondiale

    Il fascismo

    La seconda guerra mondiale

    Il liberalismo

    Il socialismo

    L’Italia: la Repubblica

    Piero Craveri

    Nello scontro con Togliatti, De Gasperi risulta vincitore e va al governo, portando lo Stato verso la Repubblica e la Costituente. Nel 1947 la rottura a livello internazionale tra le potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale si ripercuote anche nella politica interna italiana, determinando una crisi nel PCI e conseguentemente l’inizio di una stagione di governi centristi che tendono a schierare l’Italia sempre più verso Occidente. La morte di Stalin e l’inizio di una politica di distensione consentono, se non al PCI almeno al PSI, di riscattarsi e di proporsi come potenziale alleato della DC nel governo. Inizia la stagione dei governi di centrosinistra che vede protagonisti Fanfani e Moro, che tuttavia falliscono nel loro tentativo di riforma e di modernizzazione dello Stato. Il malcontento sociale sfocia nelle proteste del Sessantotto e nei terribili anni di piombo dominati dal terrorismo e dalla crisi petrolifera. Negli anni Ottanta sfuma del tutto l’ipotesi di una collaborazione tra DC e PCI e nell’ultimo decennio le inchieste giudiziarie sulla corruzione dei partiti vengono a stravolgere del tutto le forze politiche della cosiddetta prima Repubblica.

    Nasce la Repubblica Italiana

    Il 2 giugno 1946 un referendum popolare istituisce la Repubblica in Italia. Il margine di voti per questa scelta non è ampio, ma sufficiente a conferire legittimità al risultato. In realtà il Paese si è spaccato in due. Le regioni del nord, salvo il Piemonte, e quelle del centro hanno dato un ampio margine di voti alla Repubblica, il Mezzogiorno e le isole hanno votato per la monarchia. Questa spaccatura non si riflette tuttavia direttamente sul voto che gli elettori hanno contemporaneamente dato per eleggere l’Assemblea Costituente, che si è invece distribuito con una logica diversa tra continuità e rinnovamento proposta in modo radicale dai partiti di sinistra, con approcci diversi. Per la continuità si è pronunciata la maggioranza dell’elettorato. Alle sinistre (Partito Socialista e Comunista) è andato poco più del 40 percento dei voti, mentre le forze moderate avevano totalizzato il rimanente, con l’emersione tra esse del nuovo partito cattolico, la Democrazia Cristiana, con il 35 percento dei suffragi. Il referendum repubblicano pone ora queste forze moderate, risultate maggioritarie, nella condizione di proseguire nella continuità senza la monarchia che fino ad allora ne era stato un pilastro, e di rispondere ai bisogni di ricostruzione, di sviluppo economico e di perequazione sociale che il Paese richiede.

    Proprio il problema della continuità dello Stato era il tema centrale della lotta politica degli anni precedenti. Alcune forze politiche, in particolare il Partito Socialista e il Partito d’Azione (che si è tuttavia dissolto alla vigilia delle elezioni per l’Assemblea Costituente) hanno fatto del tema della Repubblica il punto focale di un programma di radicale rifondazione delle strutture statali. Diversamente si è mosso il Partito Comunista, che era poi l’unica forza potenzialmente rivoluzionaria. Legati da stretti vincoli con l’Unione Sovietica, i comunisti non perdono mai di vista, nella loro azione politica, i vincoli di carattere internazionale dell’Italia di allora: un Paese sconfitto, occupato da un esercito angloamericano, destinato, secondo l’accordo intercorso tra le potenze vincitrici a Jalta e poi a Potsdam, a far parte dell’area d’influenza di questi ultimi. I comunisti non intendono mai promuovere all’interno un rivolgimento radicale che contrasti con gli equilibri internazionali in cui l’Italia è inserita. Il segretario del Partito Comunista, Palmiro Togliatti (1893-1964), si confronta del resto con il leader della Democrazia Cristiana Alcide De Gasperi (1881-1954), che tenacemente opera proprio al fine del rinnovamento civile e sociale nell’ambito della continuità dello Stato, senza sostenerlo in questi suoi obiettivi, ma senza neppure pregiudizialmente ostacolarlo.

    Il problema assume rilevanza decisiva proprio in vista delle elezioni del 2 giugno. L’obiettivo che De Gasperi e gli altri leader dei partiti moderati, segnatamente i liberali, si pongono è quello di garantire il libero svolgimento delle elezioni. La loro preoccupazione nasce dalla situazione che si è verificata nel nord del Paese. Nella restante parte d’Italia i poteri dello Stato erano già rientrati nel loro alveo tradizionale. Non così al nord dove l’insurrezione nazionale del 25 aprile 1945 è stata guidata dal CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia), con le sue rappresentanze a livello di comuni e province e anche di luoghi di lavoro, nella forma di comitati composti pariteticamente dai partiti antifascisti. Questo insieme di organi ha anche la direzione politica delle formazioni partigiane e, a liberazione avvenuta, assume la gestione dei poteri dello Stato. La preponderanza, nella lotta partigiana e nella composizione stessa dell’insieme dei CLN dei partiti di sinistra, in particolare del Partito Comunista, non conferisce a essi, nell’esercizio delle funzioni dello Stato, lo stesso carattere di imparzialità della vera e propria struttura statale, e ciò in vista di una consultazione popolare decisiva del 2 giugno, è motivo forte di preoccupazione da parte moderata. La svolta è avvenuta nel dicembre 1945 quando, su iniziativa liberale appoggiata da De Gasperi, Ferruccio Parri, esponente azionista che, in quanto capo delle forze partigiane nella lotta di liberazione il 25 aprile ha assunto la guida del governo, viene costretto a dimettersi. Togliatti non difende allora Parri: consente la liquidazione dei CLN e patrocina una soluzione in cui emerge alla guida del governo Alcide De Gasperi, che diventerà poi presidente del Consiglio fino al 1953. Il primo governo De Gasperi porta dunque alla Repubblica e alla Costituente, e ambedue questi eventi sigillano anche l’avvenuta stabilizzazione della continuità dello Stato.

    Il governo De Gasperi e gli anni del miracolo economico

    Il 1947 è l’anno di un’ulteriore svolta. La rottura dell’alleanza tra le potenze vincitrici e l’avvio della guerra fredda che ne consegue spaccano il sistema politico italiano, allineando le sue diverse componenti ai due schieramenti contrapposti che si confrontano a livello internazionale. La spaccatura investe anche il partito socialista, che si divide in due tronconi: quello principale guidato da Pietro Nenni (1891-1980), rimane filosovietico; quello facente capo a Giuseppe Saragat (1898-1988) si schiera con l’Occidente. La stessa spaccatura non può non trasferirsi a livello della maggioranza di governo. Nel giugno 1947 De Gasperi rompe la maggioranza con il PCI e il PSI e costituisce un governo democristiano con la presenza di personalità liberali, come Luigi Einaudi (1874 -1961). Si deve a quest’ultimo, che assume la carica di ministro del Bilancio, una drastica svolta nella politica economica, che stabilizzerà il nostro sistema monetario ed è la premessa di quello che sarà lo sviluppo positivo della nostra economia.

    L’anno che segue la rottura della collaborazione con i socialcomunisti e vede poi con il dicembre 1947 lo stabilizzarsi di quella collaborazione che caratterizzerà la vita della Repubblica per un decennio – la cosiddetta maggioranza centrista a cui, oltre alla DC presero parte i liberali (PLI), i repubblicani (PRI) e i socialdemocratici di Saragat (PSLI, poi PSDI) – è gravido di tensioni che tengono il Paese sull’orlo della guerra civile, come mosteranno poi i giorni che seguono l’attentato a Togliatti del giugno del 1948. Il risultato delle elezioni generali politiche convocate per il 18 aprile 1948 sembra incerto e ciò alimenta le tensioni. Risulta largamente favorevole alla DC che consegue più del 49 percento dei suffragi, mentre gli altri tre partiti del centro realizzano complessivamente un altro 14 percento. La sconfitta della sinistra è netta. Se il 2 giugno aveva comportato la ratifica definitiva della continuità dello Stato, il 18 aprile sancisce la collocazione dell’Italia nell’ambito della comunità occidentale, che rimarrà un’opzione fondamentale, mai più rimessa in discussione nei decenni seguenti.

    De Gasperi, nella legislatura che segue, condurrà l’Italia nell’Alleanza atlantica e la renderà protagonista, assieme ad altri paesi dell’Europa continentale, nella fondazione delle prime istituzioni comunitarie europee. La legislatura degasperiana è anche densa di riforme socioeconomiche, quali la riforma agraria, l’intervento straordinario del Mezzogiorno, il rilancio delle partecipazioni statali, con il rafforzamento dell’IRI e la fondazione dell’ENI. Questo intreccio tra la politica liberista impostata da Einaudi e gli interventi statali nella vita produttiva dà forza al nostro sistema di economia mista ed è la premessa della sua grande espansione degli anni Cinquanta che fa definitivamente entrare l’Italia nel novero dei paesi industrializzati, permettendole, già nel 1952, la liberalizzazione degli scambi (ministro del Commercio con l’estero, è Ugo La Malfa), primo passo di una linea a seguito della quale il Paese abbandonerà per sempre ogni ritorno al protezionismo.

    I primi anni Cinquanta sono anche i più duri della guerra fredda e il clima politico ne risente, facendosi ancora più serrato il confronto tra la maggioranza di governo e il Partito Comunista. All’interno si rafforzano i partiti di destra e la Santa Sede spinge per la creazione di un fronte anticomunista di centrodestra. La pressione vaticana sulla Democrazia Cristiana e su De Gasperi è pesante. Quest’ultimo tiene tuttavia fermo il suo schema di alleanza con i partiti di centro, respingendo ogni rapporto con la destra, composta da partiti monarchici e dal MSI (Movimento Sociale Italiano), di ispirazione neofascista. Vuole anzi garantirne la permanenza al governo con una legge elettorale maggioritaria, che ha in parlamento la tenace opposizione delle sinistre. La sua opera riformatrice si arresta e non affronta i problemi del rinnovo delle istituzioni, della riforma burocratica, dell’attuazione della Costituzione (Regioni, Consiglio Superiore della Magistratura, Corte costituzionale), impedito dall’onda di destra che investe il mondo cattolico. Il congegno elettorale previsto dalla nuova legge elettorale non scatta, poiché i partiti di centro apparentati non ottengono il previsto 50,01 percento e si fermano alla soglia del 49,5. Tuttavia in base al sistema precedente, che non era proporzionale puro, conseguono lo stesso un’esigua maggioranza nelle due Camere. De Gasperi non riesce però a riformare un governo e passa la mano ad altri esponenti della Democrazia Cristiana.

    La seconda legislatura è dunque nuovamente di segno centrista quanto alla maggioranza di governo, segnatamente con i governi presieduti da Mario Scelba (1901-1991) e Antonio Segni (1891-1972), ed è in grado di iniziare l’opera di attuazione costituzionale, e di aver parte attiva nella costituzione della Comunità Economica Europea e del conseguente mercato comune (MEC) che doveva poi entrare in funzione nel gennaio del 1959. La seconda metà degli anni Cinquanta è intanto attraversata da avvenimenti interni e internazionali che lasciano il segno sulla politica italiana. È l’epoca del grande balzo in avanti dell’economia italiana, designato come miracolo economico, che si accompagna a una trasformazione sociale profonda. Si ampliano i margini di occupazione nel settore produttivo e in quello dei servizi e decrescono invece nell’agricoltura, che ancora nel 1947 conta il 46 percento della forza lavoro occupata. Si riscontrano grandi flussi di immigrazione interna: dalle campagne alle città, dalle isole e dalle regioni meridionali, così come dal nord-est verso il nord-ovest, dove, intorno al vecchio triangolo industriale Milano-Torino-Genova, si manifesta la crescita produttiva. Il progresso genera squilibri tra Nord e Sud, tra città e campagna nelle strutture urbane, nelle reti di trasporto, nei servizi, nell’assistenza pubblica, essendo ancora l’Italia lontana dall’aver sviluppato un sistema di welfare. Alla ricostruzione e al successivo sviluppo economico avrebbe dovuto subentrare una fase intensa di modernizzazione. Questa tensione che va maturando a livello socio-economico si trasferisce nell’arena politica e produce necessariamente una spinta a sinistra.

    La stagione dei governi di centrosinistra

    Diminuisce nel frattempo la tensione

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1