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Lampi di memoria
Lampi di memoria
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E-book202 pagine2 ore

Lampi di memoria

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Info su questo ebook

Può un bambino di due anni o giù di lì avere ancora delle memorie? Se queste sono legate ad un fatto specifico che ha lasciato un’ombra indelebile nella mente del fanciullo, la risposta è sì. Ed i primi fatti legati alla mia memoria sono: il vagare nel corridoio di casa con un vasino da notte in mano e poi portare trionfante un simulacro del re nemico, preso in giro dalla tata.
Poi tanti fatterelli, forse insignificanti, ma che hanno lasciato la loro traccia: i primi giorni di scuola, i riflessi condizionati, l’annuncio dell’entrata in guerra, il malcelato scoraggiamento di papà sul suo esito, il razionamento, il ricorso alla spiaggia di Ostia per racimolare ferro per gli armamenti, gli aumenti dei prezzi, lo sfollamento da Roma, il rito bizantino, l’occupazione, la tacita resistenza di una zia e di un nipotino, l’attentato di Via Rasella, il crollo della casa che aveva ospitato gli sfollati, la liberazione, il dopoguerra, la collaborazione per sovvenire al bisogno di scarpe di tanti sfollati, l’udienza papale, il ricevimento al Quirinale, il referendum istituzionale, il trattato di pace, le camionette a sostituire gli autobus, l’apparizione alle tre fontane, le scuole superiori, le vacanze estive, l’addio al collegio; tutto viene man mano alla mente e raccontato, dapprima con lo sguardo del bambino poi dell’adolescente quindi del ragazzo.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mag 2013
ISBN9788867559084
Lampi di memoria

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    Anteprima del libro

    Lampi di memoria - Giampietro Favero

    9788867559060

    .

    ai miei figli

    NOTA DELL'AUTORE

    Nel libro si parla di zia Ninnì come ancora viva e la si nomina come matriarca delle famiglia.

    In effetti la domenica delle Palme del 1999 zia Ninnì ci ha lasciati, alla bella età di 90 anni compiuti, ma, non ostante ciò, non ho voluto cambiare né l'impostazione né i giudizi in segno di affetto per lei, pari, se non maggiore, a quello che le riservavo in vita.

    NOTA ALLA REVISIONE (NOVEMBRE 2007)

    In questa revisione ho voluto aggiungere alcuni fatterelli successivi al capitolo 28 (il diktat) che mentre chiude le memorie del tempo di guerra, lascia in sospeso le memorie del tempo di scuola.

    Perciò in questa edizione ho aggiunto i capitoli dal 29 al 37 (addio al collegio) nei quali ripercorro il periodo dal 1947 al 1951.

    Buona lettura.

    IL VASINO

    Una screpolatura nella vernice della porta, a non più di venti centimetri dal pavimento era il mio mostro personale.

    La porta era quella che dava nello studio, che, come quel giorno, veniva utilizzato dalle donne di famiglia, le poche volte che erano a casa, anche come stanza da cucito. Lo studio aveva una forma trapezoidale, o, come sarebbe piaciuto a papà chiamarla una volta che fosse diventata la mia camera da letto, a cassa da morto. Era una fortuna che io dormissi con la testa nella parte più stretta, forse per scaramanzia, anche se non me ne sono mai fatto un problema.

    La stanza era utilizzata come stanza da lavoro perché era una delle tre che affacciava direttamente su strada, ma era l'unica non ancora utilizzata come camera da letto; era per la prima ragione molto luminosa e per la seconda utilizzabile senza dover chiedere permesso.

    La casa, anche se immensa, era gremita: la abitavano papà e mamma, ancora freschi sposi, zia Giannetta e zia Fernanda, le due sorelle nubili di mamma, dette zia Nenne e zia Dadda; zia Renata sorella di secondo letto di mamma e delle zie con il marito Ugo, la mia balia Venerina detta Baba, due donne di servizio Antonietta detta Tetta con compiti di bambinaia e la sorella Maria Grazia con compiti di cuoca, mia sorella Paola, di pochi mesi, la prima figlia di zia Renata, Anna di poco più grande ed io che avevo appena due anni.

    Mamma e le zie, normalmente non lavoravano in casa, ma passavano tutto il loro tempo a negozio per cui questo mio ricordo di tutte queste donne radunate in quella camera deve essere relativo ad un giorno di festa.

    Non ostante la mia giovane età avevo nell'arco della giornata dei precisi compiti da svolgere: dovevo ormai mangiare da solo, senza essere imboccato, neanche da Tetta; giocare da solo perché nessuno poteva darmi retta essendo tutta la famiglia sempre al lavoro e le donne di servizio affaccendate; fare i miei bisogni da solo in un vasino di porcellana e senza sporcare per terra. L'unica incombenza che ancora non mi competeva era quella di pulirmi il sederino dopo il bisognone. Dovevo chiamare qualcuno dicendo 'ho fatto!' ed attendere la pulizia, fatta prima con l'ovatta e quindi con acqua e sapone.

    Da sinistra: zio Arduino, zia Ninnì, il sig. F, zia Renata, zia Dadda, zio Alberto, zia Nenne, il Prof. Arrigo C., un'amica, mamma,

    il Comm. M., zia Nanda Favero, papà

    Quel giorno appunto avevo provveduto a prendere il vasino, in bagno, a calarmi da solo calzoncini e mutandine ed a procedere a tutta la faccenda, e già da qualche minuto avevo ripetuto il fatidico 'ho fatto' più volte, senza però che qualcuno si interessasse a me.

    Debbo dire che pur nell'abbandono, non mi persi d'animo, perché tirate su mutandine e calzoncini sopra il ginocchio, e, chissà perché, preso in mano il vasino, andai girando per il lungo corridoio di casa in cerca di qualcuno che capisse le mie esigenze.

    Giunto davanti alla screpolatura della vernice, fui preso dal solito terrore, ed interruppi a metà l'annuncio: 'ho fa....' . La porta, che non si era mai chiusa bene perché leggermente svirgolata verso il basso, si aprì trascinando come di consueto il battente chiuso (per quanto lo consentisse il fermo che funzionava solo in alto, essendo a terra, a causa dello svirgolamento, non in corrispondenza il catenaccio del fermo con il foro) e con il consueto rumore di vetri che sbattevano nella loro sede troppo larga, dando la consueta voce al mio mostro personale.

    Prima che il terrore mi invadesse,  una donna della famiglia, non ricordo più chi, venne in mio soccorso, e, preso il vasino con un braccio, e me con un altro, mi sollevò di nuovo fino in bagno per le pulizie di rito.

    Per quanto possa andare indietro nel tempo questo è il mio primo ricordo.

    GUERRA D'AFRICA

    Palazzo Marignoli . Piazza San Silvestro, 92 . Piano quinto Interno 20

    La casa dove abitavamo, in Piazza San Silvestro, 92 era molto grande essendo un appartamento al quinto piano, con vista all'esterno verso nord, in posizione dominante sulla maggior parte dei tetti che dal centro di Roma arrivano fino a Porta Flaminia. Risaltavano la cupola di San Carlo da un lato ed il bianco campanile della Chiesa Anglicana di Via del Babuino dall'altro; più a destra la gloria del Pincio con la Casina Valadier e l'Accademia di Francia in Villa Medici. Guardando a tutta sinistra si poteva vedere parte della facciata posteriore di Montecitorio, mentre guardando a tutta destra si coglieva il campanile borrominiano di Sant'Andrea delle Fratte e la Villa dell'Ordine di Malta a porta Pinciana. La sagoma di Monte Mario, ancora non occupata da immensi alberghi ed antenne televisive, si stagliava a sinistra, e fra di essa ed il Pincio, in giornate di vento, era visibile in lontananza il Soratte.

    Si entrava nell'appartamento da un ingresso molto ampio con due finestre su due diversi cortili, cui seguiva un corridoio lungo circa 7 metri con due finestre sulla sinistra, con vista sul più piccolo dei cortili. In fondo al corridoio una porta in legno, dava accesso ad un locale di servizio, inizialmente una lavanderia, ma quasi subito trasformata in un bagnetto, detto 'il bagnetto laggiù', anch'esso con finestra sul più piccolo dei cortili.

    Di fronte alla seconda finestra del corridoio, voltando a destra si entrava in un secondo corridoio, molto più lungo del primo, quasi 22 metri, con porte da ambo i lati e praticamente senza luce naturale se non per la parte finale.

    Le prime due porte, in legno,  alla destra del corridoio, davano su una grande sala doppia che era la sala da pranzo con due finestre, poste di fronte alle porte, con vista sul primo dei due cortili, quello più grande, visibili dall'ingresso. Il tavolo, allungabile su due lati, era in noce massiccio con intarsio in legno giallo, dello stesso stile del buffet con specchio e piano in marmo rosso, uno sportello centrale a due ante e due sportelli laterali; e contro buffet sempre dello stesso stile, con l'aggiunta di un pensile superiore con sportelli a vetri nel quale veniva riposto il servizio di bicchieri di nonno Pietro, mentre negli sportelli inferiori veniva riposto il servizio di piatti, di nonno Pietro come il primo, e maniglie in ottone lavorato che completavano con sei sedie e qualche poltrona l'arredamento della sala; il lampadario, centrale, era in vetro di Murano di colore rosa, a sei fiamme; nel lato delle poltrone, un basso tavolino in legno ed un lume a piantana con paralume in pergamena; all'angolo vicino la finestra un mobile basso a due ante, nascondeva all'interno un ricevitore radio. Alle pareti, qualche natura morta di cui due firmate Kingborn che era il nome d'arte che si era scelto zia Renata al suo corso di pittura.

    Le due porte, in legno, a sinistra, poste di fronte alle porte della sala da pranzo, davano accesso a due sale separate da un arco molto ampio tanto da poter considerare l'ambiente come una sola sala, e questo era il salotto; in esso le finestre, sempre in corrispondenza delle porte sulla parete di fronte, davano su un altro cortile molto grande, sugli altri tre lati del quale gli ambienti avevano accesso da Corso Umberto e non dalla Piazza. La luce era data da un lampadario di Murano a gocce a 10 braccia posto al centro di una delle due sale, integrato da quattro applique dello stesso stile a due braccia poste simmetricamente sulle due pareti di fondo. Dopo la guerra un altro lampadario in vetro di Murano a gocce sarebbe stato montato al centro della seconda sala. L'arredamento era tutto coordinato in stile impero con sedie, poltrone e divano con intelaiatura in legno di ciliegio ed imbottitura di broccato. Con lo stesso tessuto erano fatte le due tende. L'arredamento era completato da un tavolo ovale nello stesso stile con piano in marmo chiaro, da una specchiera con piano nello stesso marmo e da una bacheca con vetro sui quattro lati nello stesso stile, con sportello a chiave anteriore. Qualche anno dopo si sarebbe aggiunto un pianoforte verticale, sostituito, una volta finito il liceo, da un pianoforte a quarto di coda.

    Seguivano, lungo il corridoio, due porte affacciate, in legno con mostra in vetro operato in modo che potesse passare la luce dalle camere nel corridoio ma non si potesse vedere all'interno. La camera sulla destra, seguente la sala da pranzo, era la camera da letto di zia Giannetta, con finestra sullo stesso primo cortile; non aveva un arredamento particolare almeno in quegli anni.

    Quella di fronte era la cucina con finestra sul cortile del salotto. L'arredamento era rappresentato da vecchi armadi in legno per il contenimento delle pentole, un tavolo con piano in marmo, una cucina che oltre i fuochi a gas aveva due fornelli a carbone con il cassetto di raccolta inferiore per la brace.

    Immediatamente a lato della porta della cucina c'era una porta in legno che dava accesso al bagno principale, il quale aveva una finestra su un quarto cortile, anche questo piccolo.

    La casa era fornita da due acquedotti, almeno finché l'acquedotto del Peschiera, postbellico, non avesse unificato tutto. Infatti nel bagnetto laggiù c'era l'acqua di Trevi, mentre in cucina e nel bagno c'era l'acqua Marcia. Questo fatto ci consentì di avere quasi sempre l'acqua in casa anche nei periodi più disastrosi della guerra. Zia Fernanda che lavava normalmente l'insalata due o tre volte, preferiva sempre farlo con l'acqua di Trevi, mentre normalmente si adoperava l'acqua Marcia della cucina, anche se, stranamente non utilizzando mai il rubinetto della presa diretta, da cui, le poche volte che veniva azionato, usciva, spruzzando, acqua ferruginosa; ma quello dell'acqua proveniente dai cassoni, che secondo le idee della famiglia, era più pura.

    Dopo il bagno, il corridoio continuava, finalmente illuminato sul lato sinistro da due finestre sul quarto cortile; invece sul lato destro c'era una finestra in alto, che però non guardava verso l'esterno ma dava aria e luce ( poca ) ad una stanza interna.

    Dalla fine del secondo corridoio proprio di fronte all'ultima finestra, ne partiva un terzo, verso destra, lungo circa 9 metri, con porte da ambo i lati.

    La prima porta a destra, in legno con specchiatura in vetro, dava accesso alla camera interna che era la stanza dove dormivano prima Baba, Tetta e Maria Grazia, poi solo le ultime due.

    La prima porta a sinistra, anch'essa con specchiatura in vetro, dava sulla camera a cassa da morto che sarebbe diventata la mia; questa camera, come detto prima, era una delle tre che avevano vista all'esterno e dava su un terrazzo posto su Via delle Convertite. Nella parete più piccola del trapezio una porta in legno, dava accesso ad uno stanzino che avrebbe avuto una rilevante importanza durante l'occupazione, e sarebbe in seguito diventato il mio spogliatoio e la sede del mio tecnigrafo. L'arredamento era rappresentato dai mobili del vecchio ufficio di mio nonno: in stile tardo ottocento, con libreria a tre sportelli con lesene a triglifo, sportelli con specchi in vetro veneziano color oro, e piedi a zampa di leone; tavolo, sedia con braccioli e due sedie in stile. Una volta che fosse diventata la mia camera da letto, l'arredamento sarebbe stato integrato da un divano letto e da due librerie aperte, costruite dal Sor Umberto, che era il falegname di famiglia anche se papà lo diceva pecione, nello stesso stile, con lesene a triglifo, ma senza le zampe di leone, troppo complicate per le capacità dell'artigiano.

    Le seguenti due porte, in legno, conducevano, quella a destra in una vasta camera che inizialmente è stata la camera degli sposi Ugo e Renata, poi, quando quella famiglia, abbastanza presto debbo dire, si trasferì, di noi pupi, cioè di Paola e mia, per restare infine solo di Paola dopo la guerra; la finestra, posta anche in questo caso di fronte alla porta si affacciava sul primo cortile e risultava in esatta corrispondenza della finestra dell'ingresso. L'arredamento iniziale non lo ricordo.

    La stanza di sinistra, anche questa trapezoidale ma con effetto più mascherato date le maggiori dimensioni, era la camera di zia Dadda, con finestra sul terrazzo. C'era uno specchio meraviglioso girevole su un asse orizzontale e sorretto da due colonnine: lo specchio era da ambedue i lati ed era largo circa un metro ed alto un metro e mezzo, con asse a circa un metro da terra. Un letto ed un comò nello stesso stile severo completavano l'arredamento.

    In ultimo, alla fine del corridoio, una porta in legno a sinistra, successiva a quella di zia Fernanda, dava accesso alla stanza di papà e mamma che si sviluppava oltre la fine del corridoio. Anche la finestra della loro stanza dava sul terrazzo. Il mobilio, letti, armadio, toeletta, comodini  e comò con specchiera era in

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