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Non più clandestino
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E-book331 pagine5 ore

Non più clandestino

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Info su questo ebook

Elty torna in Albania e tutti nel villaggio cercano di trovargli una moglie. E lui la ragazza della sua vita la trova per davvero. È Adriana? Francesca? O una nuova conquista? E cosa succede al fratello, che scompare di nuovo? Che fine fanno i suoi coinquilini del vagone merci che spacciano in Svizzera? 

In quest'ultimo libro della trilogia, avremo tutte le risposte e vedremo Elty gettarsi in tante nuove avventure. È la fine di un capitolo di storia vera, intrigante, a volte divertente e unica.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita6 nov 2023
ISBN9791254584217
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    Anteprima del libro

    Non più clandestino - Eltjon Bida

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    Collana Policromia

    Eltjon Bida

    Non più clandestino

    Pubblicato da © Pubme – Collana Policromia

    Immagine di copertina realizzata con Midjourney e Canva

    Tutti i diritti riservati

    ISBN:

    Questo libro contiene materiale coperto da copyright e non può essere copiato, trasferito, riprodotto, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’autore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941).

    Agosto 1997

    Quella domenica era una caldissima giornata di sole. Come macchie bianche su tela azzurra, nel cielo si vedevano solamente tre piccole nuvole. Milano era avvolta dallo smog e dall’umidità. Come il vapore dell’acqua da una pentola sui fornelli, dall’asfalto saliva aria rovente. Ovunque si sentiva puzza di gas di scarico e di gomma bruciata. Si aveva l’impressione di trovarsi in un’autofficina. Il sudore pareva colla e appiccicava la maglietta contro la pelle.

    A me però non importava del tempo. Ero elettrizzato. L’indomani avrei cominciato un nuovo lavoro. Un vero lavoro. Basta con le vendite porta a porta! Basta chiedere di comprare! Basta bussare alle porte della gente e rompere le scatole a tutte le ore della giornata! Ora sarebbe stato diverso. Avrei avuto anche un contratto. Magari avrei guadagnato la stima di Francesca e, chissà, forse mi avrebbe perdonato e saremmo tornati di nuovo insieme.

    Rientrai dalla passeggiata mattutina con Rochi, attraversai la piccola hall dell’hotel, l’alloggio privato, e aprii la porta smerigliata che si affacciava sul giardino. Staccai il guinzaglio dal collo del cane e gli diedi due pacche sulla schiena. «A più tardi, bello.»

    Lui scese i tre gradini che portavano al giardino e si sdraiò all’ombra. Era sfinito. D’altronde, eravamo andati a passeggiare fino al parco di Porta Venezia, che non si trovava dietro l’angolo.

    Salutai con la mano nella sua direzione e chiusi la porta. Riattraversai la cucina, il soggiorno e mi affacciai nella hall. Ovunque c’erano piante, fiori e meravigliosi bouquet.

    Amelia scendeva le scale a chiocciola e spiegava a una coppia di cinquantenni che le camere venivano pulite tutti i giorni e, se gli asciugamani o le lenzuola fossero stati sporchi, anche quelli sarebbero stati cambiati. Si sistemò dietro il banco di ricevimento tra due piante e chiese i documenti dei clienti. Per il pagamento della camera, disse, potevano saldare anche al check-out.

    Dietro di loro scendeva una ragazza. L’avevo già vista una volta di sfuggita. Amelia mi aveva detto che era una mia connazionale e da un mese dormiva all’hotel Ricordi. La guardai attraverso il grande specchio appeso sulla parete di fronte alla scala. Indossava un vestito azzurro senza maniche che le arrivava a metà coscia. Aveva all’incirca vent’anni, i capelli erano color carbone e i ricci a spirale. Forse era un po’ più bassa di me, magra come un chiodo, gambe diritte come manici di vanghe e pancia piatta come una piadina. Su una guancia aveva una cicatrice, grande quanto il mignolo. Stando alle parole di Amelia, la ragazza non aveva una vita facile. Era una che usciva alla sera tardi e tornava la mattina presto.

    In fondo alle scale, la ventenne girò la testa verso di me. Rimasi a bocca semiaperta come un rimbambito. Dallo stesso lato della cicatrice, l’occhio guardava in una direzione diversa rispetto all’altro. Era strabica. Disse buongiorno, diede la chiave della stanza ad Amelia e uscì. Io la seguii con lo sguardo.

    Scesi nella taverna, che d’ora in poi sarebbe stata la mia stanza. Per il momento era vuota. Era rettangolare, circa cinque metri per tre. La scala scendeva sulla destra. In fondo, dalla parte sinistra, c’era un passaggio ad arco che conduceva a una grande stanza. Lì si trovavano tre armadi a due ante. Su due pareti erano appoggiati reti e materassi coperti con cellophane. La poca luce filtrava da una piccola finestra in alto che si affacciava sul giardino. In mezzo alla stanza, io e Amelia avevamo ammucchiato i bagagli dimenticati dai clienti. «Ma pensa te se io devo tenere qui per anni le valigie della clientela!» aveva detto. Era stata tentata di buttare via tutto, ma poi ci aveva ripensato. «Chissà, magari i clienti tornano e ti dicono che avevano roba importante. Vai a sentire le loro lamentele, poi.» Alla destra di quello che sarebbe stato il mio alloggio, si entrava nella lavanderia. Lì si trovava una lavatrice per il bucato dell’hotel e una per la casa, un’asse da stiro, un ferro a vapore e un lavandino lungo la parete di fronte. Poco più in alto c’era un piccolo specchio quadrato. Mi ricordava lo specchio di casa mia, in Albania.

    Mi cambiai velocemente. Indossai i jeans e la maglietta bianca con i quali avevo lavorato durante la settimana. Alle cinque del pomeriggio finii di imbiancare. Ora i muri erano di un bianco neve. Al contrario della città, quella taverna profumava di pittura fresca. Come mi aveva suggerito Amelia, presi uno dei materassi singoli a molle e un materasso e li sistemai contro la parete. Ora tra il letto e la scala c’era uno spazio di circa un metro. Magari più avanti ci avrei messo un tappetino. Recuperai un cuscino e due lenzuola e feci il letto. Tre mesi prima dormivo in un vagone merci e mangiavo nelle Caritas, e ora? Mi guardai intorno e mi inginocchiai. Unii le mani davanti al petto e alzai gli occhi al soffitto. «Signore, grazie.» Feci un inchino e mi rimisi in piedi. Andai a fare la doccia nel bagno del primo piano. Mentre stavo scendendo, Amelia sbucò dalla porta del soggiorno.

    «Signora, vieni a vedere come è venuta la taverna» le dissi.

    C’era tanta gioia nella mia voce. Come la signora Elena, per cui avevo lavorato un anno prima nella fattoria di Pretoro, anche Amelia mi aveva detto che dovevo darle del tu. Non avevo comunque il coraggio di chiamarla per nome.

    Le feci strada e mi seguì.

    Scendemmo i primi gradini ed esclamò: «Wow, come è bianco e pulito qua dentro!» Guardò il letto. «Ma sei anche bravo a fare i letti! Ora ti aiuto a portare qui uno degli armadi che ci sono di là.» Con la testa indicò la stanza dei bagagli.

    L’armadio era alto circa due metri e color noce. Io lo spingevo da dietro e Amelia lo tirava. Lo posizionammo di fronte al letto. Vi erano già sette attaccapanni. Ringraziai Amelia e la informai che dopo aver portato fuori Rochi sarei andato in centro per vedermi con due amici. In realtà non era del tutto vero. I due fratelli, Ilir e Keli, che si trovavano a spacciare droga in Svizzera, avevano intenzione di tornare in Italia e lavorare onestamente. Non avendo i contatti né dell’uno né dell’altro, per incontrarci eravamo rimasti d’accordo che alle nove di sera di ogni domenica saremmo andati in piazza Duomo, di fronte alla cattedrale. Avevo i miei dubbi che li avrei rivisti, ma comunque volevo tentarci.

    «Prima di uscire, però, devi cenare.» Amelia cominciò a salire le scale e poi si fermò. «A che ora hai l’appuntamento?»

    «Alle nove.»

    A mezzogiorno avevamo mangiato solo io e lei, un piatto di pasta e insalata, perché suo marito era stato fuori per lavoro. Anche la sera prima era tornato tardi. Da ciò che avevo capito, gestiva una grossa azienda.

    «Bene, si cena alle sette. A dopo.» Salì, aprì la porta in cima sulla destra e uscì.

    Mi piaceva quella signora e le volevo già bene. Mi aveva detto che sarei stato parte della famiglia, pur conoscendomi da pochi giorni. Non sapevo cosa avesse visto in me, comunque la sua fiducia mi lusingava, perché noi albanesi non eravamo ritenuti brava gente, ma tutt’altro. Invece a lei e a suo marito non importavano i pregiudizi degli altri, avevano fatto ciò che gli diceva il cuore.

    Finimmo di mangiare il risotto e il telefono fisso squillò. Amelia rispose e disse che era per me. Era Enrico, il mio nuovo datore di lavoro che durante il fine settimana tornava a casa sua, a Brescia. Pulii la bocca con il tovagliolo, mi alzai e afferrai la cornetta. Il capo mi informò che c’era un cambiamento di programma. Gli era stato assegnato un grosso cantiere a Torino e già dall’indomani avrei lavorato in trasferta. Era un lavoro di qualche mese e sarei comunque tornato a Milano il sabato. Dovevo portarmi il ricambio, l’appuntamento sarebbe stato alle sei e trenta, all’inizio di viale Brianza che faceva angolo con piazzale Loreto. Lì c’era un bar. Avremo fatto colazione e subito dopo saremmo partiti con la sua macchina.

    Lo ringraziai, misi giù la cornetta e informai Amelia. «Mi dispiace che ora toccherà di nuovo a te portare fuori Rochi.» Mi dispiaceva anche per il corso d’inglese al quale avevo intenzione di iscrivermi: ora avrei dovuto attendere di ritornare definitivamente a lavorare a Milano.

    Lei sorrise. «Capirai! Tanto hai detto che rimarrete via solo qualche mese, perciò non ci saranno problemi.»

    Finii di cenare e le chiesi se potessi lavare i piatti. Mi rispose che era gelosa della sua cucina e lì non dovevo toccare niente. «Ora vai, sennò farai tardi per l’appuntamento.»

    La ringraziai per la buona cena e uscii. Anche se era sera, l’aria era caldissima. C’erano almeno trenta gradi. Indossavo bermuda, scarpe da ginnastica e t-shirt nera con il collo a V. Erano le otto e decisi che sarei andato in centro a piedi.

    Durante il cammino i pensieri erano fissi sulla mia ex ragazza, Francesca, e sulla mia amante, Adriana. Questa non si poteva chiamare ex perché in pratica non ci eravamo lasciati. Anzi, mi aveva detto che probabilmente ci saremmo visti a ottobre. Se non fosse che ero innamorato di Francesca e che speravo che mi perdonasse, chissà, forse sarei andato da lei in Germania. La rabbia che avevo provato dopo che aveva raccontato a Francesca della nostra relazione mi era passata del tutto.

    A Porta Venezia feci un giro intorno al parco per vedere se non ci fosse Bali con il suo padrone, Gianluca. Niente. Eravamo in pieno agosto e probabilmente erano andati in vacanza. Bali era un bastardino nero. Io e i miei connazionali l’avevamo trovato e tenuto per un paio di mesi nel vagone. Ci eravamo affezionati a lui. Gianluca mi aveva detto che lo portava fuori proprio al parco di Porta Venezia, ma non li avevo più rivisti.

    Ripresi a camminare. In giro c’era poca gente e quasi tutti turisti. Attraversai piazza San Babila, corso Vittorio Emanuele e mi trovai in piazza Duomo. Mi sedetti sugli scalini di fronte alla cattedrale e stetti lì fermo con i gomiti appoggiati sulle cosce a guardare la gente che mi passava di fronte. Non vedevo nessuna faccia conosciuta. Dunque Ilir e Keli forse si trovavano ancora in Svizzera. Stetti così per più di mezz’ora, dopodiché andai in una cabina telefonica accanto all’uscita della metropolitana. Da lì vedevo comunque la piazza e la cattedrale.

    Respirai forte, infilai nella fessura una scheda telefonica da diecimila lire e composi il numero di Francesca. Il fatto che avessi deciso di chiamare prima lei anziché Adriana significava che a lei tenevo di più.

    Il telefono cominciò a squillare e i battiti del cuore aumentarono.

    Due squilli, poi: «Pronto.»

    Era sua mamma.

    «Ciao, Eleonora, sono Elty. Chiedo scusa se chiamo a quest’ora.»

    Quella seconda frase non l’avrei detta, ma la sera prima, mentre con Amelia stavamo guardando un programma su Raitre, qualcuno l’aveva chiamata. Dopo aver chiuso la conversazione, lei aveva esclamato: «Ma pensa te questo che chiama alle dieci di sera! Non si chiama la gente dopo le otto, otto e trenta.»

    Eleonora sembrò felice di sentirmi. «Elty, che piacere! Come stai?» Probabilmente le era dispiaciuto che tra me e Francesca fosse momentaneamente finita.

    «Diciamo che sto bene, grazie. Domani comincio un nuovo lavoro con una ditta di arredamenti.» Glielo avevo detto perché, nel caso Francesca non avesse voluto parlarmi, magari sua madre le avrebbe riferito la bella novità.

    «Wow!» esclamò. «Bravo, Elty! Sono molto contenta per te.» Aveva parlato forte. Secondo me l’aveva fatto apposta per farsi sentire dalla figlia. «Vuoi parlare con Franci?»

    «Sì, per favore, solo se può e se non la disturbo.» Magari, guadagnandomi la simpatia di Eleonora, la donna avrebbe convinto la figlia a rimettersi con me.

    «Sì, pronto!» Il tono della voce di Francesca era brusco.

    «Ciao, mi manchi.» Aveva preso il comando il cuore, non avrei voluto essere subito così romantico. «Ti va un caffè? Posso essere da te in dieci minuti.»

    Sentii il suo respiro, poi parlò a bassa voce per non farsi sentire dai suoi: «Io non parlo l’albanese e non so in che lingua devo dirti che fino a settembre voglio rifletterci e non ti devi fare vivo.» Ero certo che avesse parlato a denti stretti.

    «Scusami, è che ho novità.» La informai dei miei cambiamenti. Lei ascoltava silenziosa e non mi interrompeva. Era forse affascinata dal mio racconto o non gliene fregava niente?

    Dopo circa cinque minuti, quando non ebbi più niente da dire, annunciò: «Buon per te che non venderai più porta a porta e che una famiglia italiana ti abbia ospitato. Questo però non cambia la mia decisione. La settimana prossima io e i miei andremo in Sicilia e magari avrò la mente sgombra.» Continuava a parlare piano, ma questa volta sembrava più tranquilla. «Se vorrò vederti ti chiamerò all’hotel Ricordi, altrimenti ognuno farà la propria vita, e non voglio nemmeno che rimaniamo amici.»

    «Nemmeno amici!» quasi urlai. Ovviamente speravo nell’amicizia per poi piano piano recuperare il rapporto.

    Lasciò passare un paio di secondi. «No, nemmeno amici, perché mi farà troppo male vederti, sia per i momenti belli sia per la grossa ferita che mi hai inferto. Ora ti devo salutare, ciao.»

    Io però non riuscivo a dirle ciao, non riuscivo a salutarla, non riuscivo a immaginare una vita senza di lei.

    «Elty, sei ancora lì? Vuoi mettere giù o no?» Secondo me intendeva: preferisci salutarmi o vuoi che ti sbatta il telefono in faccia?

    «Cosa devo fare per riaverti?» Ancora una volta aveva parlato il cuore. «Io ti amo tanto, Francesca.»

    «Allora non capisci quando ti parlo! Tu cosa avresti fatto se io ti avessi tradito?»

    Certo che sapeva mettermi KO! In effetti, cosa avrei fatto? Di sicuro, da albanese cocciuto e geloso quale ero, sarei andato a scovare il tizio con il quale era stata e l’avrei picchiato. Se era grande e grosso, prima gli avrei dato una bastonata in testa da dietro, dopodiché l’avrei preso a calci e pugni. Sicuramente Francesca l’avrei chiamata puttana, troia e altri termini volgari. Avrei concluso mandandola a farsi fottere.

    Evitai di rispondere. «Va bene, ciao, pregherò di ricevere la tua chiamata all’hotel Ricordi.» Avevo ripetuto apposta il nome dell’albergo così che non lo dimenticasse. «Non ti ho detto un’ultima cosa. Sai, sono andato anche a Messa e ho chiesto a Dio il perdono. In più, ho mangiato il corpo di Cristo che toglie i peccati.»

    Lei rise. Ero certo che fosse una risata sarcastica. «Elty, non dire queste cose in giro, ti prego. Tu non credi nelle religioni, non sei cattolico. Dunque il corpo di Cristo a te non fa nessun effetto.»

    «Allora ci tieni ancora a me» la interruppi. «Altrimenti non ti saresti preoccupata se io…»

    «A volte parli davvero come un bambino.» Fece un lungo sospiro. «Io ti ho amato come nessuno al mondo, per questo ho paura che la ferita che mi hai causato non si rimarginerà mai.»

    Attaccò senza salutare.

    Misi giù anch’io e rimasi per qualche istante con gli occhi fissi a guardare i numeri sulla tastiera del telefono. La scheda era uscita, in attesa che la ritirassi. La rispedii dentro. Chiamai mio fratello, ma subito dopo misi giù. L’Inghilterra aveva il fuso orario diverso dall’Italia, ma non ero sicuro se fossero un’ora avanti o indietro. Se fosse stata avanti, ciò significava che là sarebbero state le undici. L’avrei richiamato in un altro momento. Pensai di sentire il mio amico Bledi che ora si era sistemato a Parma, ma si era fatto tardi.

    Lanciai uno sguardo alla cattedrale. Nessuna faccia conosciuta. Il cuore riprese a fare balzi forti e sapevo il perché. Rinfilai la scheda nell’apparecchio e composi il numero della mia bambola sexy.

    Come se attendesse quella chiamata, appena dopo uno squillo rispose: «Hallo!»

    Per un attimo mi bloccai, poi riuscii a dire: «Ciao, Adriana, sono Elty.»

    «Sai che sei uno stronzo?» Le sue parole erano uscite molto più brusche rispetto a quelle di Francesca.

    Si era invertita la situazione. Dovevo essere io a dirgliene quattro per aver spifferato tutto alla mia ragazza, e invece mi aveva dato dello stronzo! Stavo per sfogarmi, ma mi limitai a chiedere: «Perché?»

    Alzò la voce al massimo: «E mi chiedi anche il perché?! Mi chiedi anche perché, Elty?!»

    Era la prima volta che la sentivo urlare. Faceva paura.

    «Cazzo, ragazzo! È da maggio che attendo la tua chiamata. Da mag-gio» scandì. «L’hai capito? Se non vuoi parlarmi dimmelo, ma non lasciarmi così sulle spine. Io ti ho dato tutto, tut-to.»

    Anche Francesca mi aveva detto di avermi dato tutto quando mi aveva lasciato. Ma cosa intendevano con dato tutto? Il sesso?

    «E tu non ti sei nemmeno degnato di telefonarmi per chiedermi se fossi arrivata sana e salva.»

    Non mi stava facendo parlare, ma meglio così: non sapevo cosa dirle.

    «Fingevi quando mi hai detto che mi amavi? Fingevi quando mi hai detto che ti sarei mancata? Tu avevi il mio numero, ma io no.»

    Un’altra frase di Francesca! Erano simili da far paura.

    «Perché, Elty? Perché mi hai fatto soffrire così? Cosa ti ho fatto?»

    Attendeva una risposta, ma purtroppo la mia testa era incasinata come la borsa di una donna. Avevo mille cose da dire, ma nello stesso tempo ero bloccato come un lavandino otturato. Contai fino a dieci. Lei continuava ad attendere.

    «Allora?!» gridò.

    Ci avrei scommesso le palle che mi avrebbe riempito di sberle se fossimo stati l’una davanti all’altro. Aveva la mano talmente facile che guai se la mettevi alla prova.

    Arrivai a una conclusione. Le avrei detto tutta la verità. Basta menzogne.

    Cominciai a parlare. Fortunatamente la scheda telefonica non stava consumando tanto credito, probabilmente perché telefonare a quell’ora costava meno. Raccontai di quando avevo conosciuto Francesca e di come mi sentivo innamorato di entrambe. Le dissi com’era stata buona e gentile, mi aveva anche fatto conoscere i suoi. «Con te, Adriana, ho tradito quella che io consideravo la mia ragazza.» Le dissi della telefonata che aveva fatto a Francesca a maggio e di come l’avevo presa male, perché in pratica io non dovevo mettere il bastone tra le ruote di Adriana, ma nemmeno lei a me. Le rivelai che Francesca mi aveva mollato perché aveva saputo di noi. Conclusi raccontandole della telefonata di poco prima e della bella coppia che mi aveva ospitato all’hotel Ricordi.

    Mi sentivo libero di aver confessato i miei segreti, ma anche un pezzo di merda.

    «Sono senza parole, Elty! Sono scioccata.» Stava piangendo. «Hai preso in giro sia me sia quella povera ragazza. Non me lo aspettavo da te, sai?» Parlava piano e ogni tanto tirava su col naso.

    «Ti chiedo scusa per averti ferita.» Infatti, ero davvero dispiaciuto.

    «Tu non mi hai ferita ora. Io sono stata ferita in questi tre mesi in cui non ti sei fatto sentire.» Altre lacrime.

    Anch’io stavo per piangere.

    «Io non ho spifferato, come dici tu. Sottovaluti quella Francesca. Quando le ho telefonato perché ero preoccupata per te, lei mi ha chiesto quando era stata l’ultima volta che ti avevo visto. Le ho raccontato la verità, perché tu, Elty Bida, mi avevi detto di non avere una ragazza, poi si vede che lei ci è arrivata da sola. Le femmine, signor Elty, hanno un fiuto da cani. Infatti, avevo immaginato che ci tenesse a te, perché appena le ho confessato tutto mi ha sbattuto il telefono in faccia.»

    Rimasi zitto. Il lavandino si era di nuovo otturato. Ogni tanto mi scendeva una lacrima e in silenzio la asciugavo con la mano libera.

    Adriana riprese: «Elty, non puoi avere sia l’uovo che la gallina. Se ci tieni a quella Francesca, io non vi romperò le scatole e mi metterò da parte. Tu comunque mi puoi telefonare come un vecchio amico e, se non ti do fastidio, anch’io ti telefonerò ogni tanto. A me però farebbe tanto piacere anche che ci vedessimo, perché i momenti che ho passato con te sono stati i più belli della mia vita, e non solo per il sesso.»

    Aveva detto sesso e non scopate. Non era da lei.

    Ora la borsa da donna era incasinata più di prima. Che mi stesse dicendo che avrei dovuto scegliere tra lei e Francesca? «Ma tu, Adriana, non mi hai mai fatto capire che mi consideri come futuro fidanzato o altro. Io con te mi sono trovato divinamente, ma…»

    «Capisco e non ti do torto. Hai pensato che quella Francesca potesse essere quella giusta.» Il tono della sua voce ora era dolce come il miele. «Quando sono arrivata in Germania, ho compreso veramente quanto ti amavo e avrei voluto dirtelo appena mi avresti telefonato. Telefonata che non è mai arrivata. A essere sincera, però, ora il mio amore per te non è più quello di prima. Forse mi sto abituando all’idea che andrò avanti senza di te. Forse ho capito che non tieni abbastanza a me. Forse è stata la rabbia cresciuta in questi mesi che ha diminuito l’amore che sentivo per te.»

    Il telefono mi stava avvisando di infilare altro denaro, ma io ero a secco. Ero talmente confuso… come se mi stessero chiedendo di decidere se volessi più bene a mio fratello o a una delle mie sorelle. «Non so cosa dirti, Adriana. Tra l’altro mi sta finendo anche il credito.»

    «Elty, a me non devi dare nessuna spiegazione. Rifletti su tutto e ci risentiamo più avanti.» Lasciò passare qualche secondo come se stesse pensando a come concludere. «Sappi, però che io non voglio essere il secondo piatto di nessuno, perciò, se mi vorrai solo dopo aver avuto una risposta negativa da quella Francesca, io, signor Elty, probabilmente ti dirò amici come prima

    Alle undici e trenta tornai in albergo con la testa che mi pulsava allo stesso ritmo dei battiti cardiaci. Anziché entrare, mi sedetti su uno dei quattro gradini che portavano nella hall. La porta-vetrata era chiusa. Cominciai a ragionare sia sulle parole di Francesca sia su quelle di Adriana, ma più ci pensavo e più andavo in tilt. Avevo tanto bisogno di un amico con il quale sfogarmi, una spalla su cui piangere. Chissà, magari mi sarebbe venuta qualche idea e mi sarei illuminato.

    Sentii alcuni passi sul marciapiede e la mia connazionale ventenne fece il suo ingresso. Un occhio guardava me e l’altro la parete. Mi pianse il cuore per lei, così bella ma con quel difetto!

    «Ciao.» Mi sorrise.

    Contraccambiai il saluto e d’istinto mi spostai contro il muro per lasciarle il passaggio libero.

    «Grazie di aver imbiancato la mia stanza.» Spinse la porta a vetri, entrò nella hall e si diresse al banco.

    «Prego» risposi piano e mi girai per ammirarla da dietro.

    Amelia uscì dal soggiorno. Le disse buonasera, le diede la chiave della stanza e le augurò buona notte. La mia connazionale le rispose che purtroppo non sarebbe andata a letto, avrebbe dovuto uscire di nuovo.

    Rimasi altri dieci minuti meditando sui gradini e poi entrai. Amelia e Angelo stavano guardando il notiziario su Raiuno. Lei era seduta a capotavola. Davanti aveva una rivista di enigmistica. Li salutai e loro mi sorrisero. Mi piacevano. Erano davvero una bella coppia: solari, di buone maniere e colti.

    «Sei stato fuori con una ragazza?» mi chiese Angelo. Indossava un completo grigio che gli calzava a pennello, camicia azzurra con colletto bianco, cravatta a righe e scarpe nere, lucidissime.

    «No, con un paio di amici.» La considerai una bugia bianca che non faceva danni. Mi appoggiai al mobile basso sulla sinistra. Con quella postura volevo trasmettere il messaggio che ero disposto a scambiare quattro chiacchiere, ma non mi sarei fermato per molto.

    «Albanesi anche loro?» La sua voce ti metteva l’angoscia per quanto era roca.

    «Sì! Sì, sì. Sono bravi ragazzi, grandi lavoratori.» Altra bugia bianca. Sperai che non mi facesse altre domande, invece…

    «E che lavoro fanno?» Mi guardava negli occhi. I suoi erano azzurri e si accordavano ai capelli bianchi e folti.

    «Muratori, cioè manovali; lavorano nelle costruzioni.»

    Mi sentivo a disagio per le mie bugie e chiesi se potessi portare fuori Rochi per qualche minuto. Non lo dissi solo per scappare, la mia intenzione era comunque di farlo uscire prima di andare a letto.

    Amelia si illuminò. «Rochi sarà felicissimo di uscire e non ti dirà mai di no. Ma non fate tardi. Domani ti devi svegliare presto.»

    Parlò il marito per me: «Figurati, è giovane e forte, io quando avevo vent’anni come lui potevo stare fuori anche tutta la notte e stavo bene comunque.»

    Presi il guinzaglio, aprii la porta smerigliata e Rochi venne subito a farmi le feste. Mi leccò le mani e la faccia. La sua lingua era calda e morbida. Gli agganciai il guinzaglio al collare e lui partì di corsa verso il soggiorno.

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