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Le cose che sono nell'aria
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Le cose che sono nell'aria
E-book151 pagine2 ore

Le cose che sono nell'aria

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Info su questo ebook

Un giudice raggiunge un piccolo borgo, dove aveva trascorso i periodi più felici dell’infanzia e della gioventù, per scrivere la sua ultima sentenza prima di lasciare la magistratura. Ma la ricerca della verità nel processo sarà tormentata da un dolore nascosto che lo affligge da anni, dall’aberrante tentazione di usare i poteri del proprio ufficio per rendere giustizia a una vittima lontana nel tempo e ancora fortemente presente nei suoi ricordi. Quello di Filippo Roversi è un percorso nel silenzio verso una solitudine cercata e voluta, interrotta da incontri e storie che sanno di semplicità, saggezza e speranza. È soprattutto un viaggio interiore sulle tracce delle sue origini, su quell’inconscia attitudine a ritornare nei luoghi della memoria per trovare serenità e pace. Gli incontri con Anna e Mario, Gioia, Silvia, il calvario di Giulia, la figura misteriosa di frate Lorenzo, il segreto di Giovanna e di suo padre Vittorio, ritarderanno la stesura della sentenza ma, impegnandolo ad avere più coraggio nella vita, restituiranno all’uomo la giusta dimensione delle cose che sono nell’aria.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2018
ISBN9788885586277
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    Anteprima del libro

    Le cose che sono nell'aria - Giampaolo Manca

    Gibran

    1. L'arrivo

    Aveva smesso di piovere ma il cielo era ancora plumbeo. La strada era sgombra da vetture e in giro non c’era alcun movimento. Dal parabrezza dell’auto rigato dalla pioggia vidi qualche comignolo che sbuffava fumo confondendosi con il grigiore dell’aria. Spensi il motore e mi guardai intorno. Fermai l’auto proprio davanti alla casa dalla facciata gialla segnata da una sottile crepa che la solcava di traverso.

    Volsi lo sguardo verso la porta di legno foderata di lamiera e traforata di chiodi arrugginiti che le facevano da orlo. Sull’anta destra c’era un batacchio di ferro a forma di piccola mano che conteneva una sfera nera. La porta era antica, di quelle oramai presenti solo negli ingressi delle cantine del paese dove in autunno si conservava il vino nelle botti di rovere e si appendevano le salsicce a seccare. Quante volte avevo varcato quell’ingresso da bambino, poi da adolescente, da giovane e infine da adulto.

    La casa era chiusa da diversi anni ed esitai prima di scendere dalla macchina ripensando a quel luogo ricco di lontani ricordi. Mi avvolsi la sciarpa attorno al collo, infilai in testa un cappuccio di lana e scesi dall’auto prima che i vetri si appannassero definitivamente. All’apertura della portiera m’investì una sferzata di gelo sulle guance, aprii in fretta la porta con due giri di chiave e mi accolse il buio. Di fronte all’ingresso intravidi la scala ripida appena illuminata dalla luce fredda che s’insinuava dalla strada. Entrai lasciando aperto l’ingresso quasi ad aver paura di farmi inghiottire dal vuoto. Mi venne incontro l’odore di salgemma tracciata sul pavimento e impastata all’umidità che trasudava dalle pareti rigonfie. Spalancai subito la finestra che dava sul cortile dove mia nonna tanto tempo prima aveva coltivato le sue rose. Entrò freddo, il freddo pungente di febbraio che fa capire che l’inverno è qui, adesso. Rimasi per qualche secondo davanti alla finestra aperta per respirare aria nuova e m’inebriai del profumo che usciva dai comignoli delle abitazioni vicine. Mi balenò l’idea di accendere subito il fuoco; il camino era proprio dalla parte opposta della cucina. Aprii la porta di ferro che dava sul cortile: era invaso da erbacce alte più di un metro che avevano attecchito nel fondo di pietrisco e terra. Arrivai sotto la tettoia dov’era riposta la legna, presi qualche tronchetto e un piccolo fascio di radici espiantate dall’orto chissà quando. Rientrato in casa, accatastai tutto davanti al camino e dopo aver appallottolato un foglio di giornale sistemato sotto le sottili radici, accesi il fuoco che lentamente prese vigore. Al buio, nell’aprire la finestra e nell’uscire nel cortile, non mi accorsi che il giubbotto aveva agganciato delle ragnatele impregnate di polvere bianca d’intonaco ma non osai togliermi nulla di dosso, faceva troppo freddo. Rimasi in piedi girandomi e guardandomi intorno come per cercare qualcosa di conosciuto, riappropriarmi della memoria di quello spazio tornando indietro nel tempo, per avere in cambio una sensazione di conforto in un ambiente abbandonato da anni. Alcuni piccoli tronchi di legna aggrediti dal fuoco che avanzava sbuffarono espellendo schiume d’acqua, ma un generoso pezzo di leccio prometteva una fiamma ardente.

    Non sapevo dove sedermi, da dove iniziare, dove mettere mano. Tutto era impolverato, tutto era scaduto come se si fosse mummificato nel tempo. Il calendario appeso in cucina era quello di un bombolaio dell’anno 2006, le lancette di un orologio tondo appeso al muro si erano fermate alle 10,35 di chissà quale giorno dimenticato. Gli stipiti del ripostiglio che custodiva i piatti, i bicchierini del vino e le tazze da the erano rigonfi di umidità al punto che l’anta non si apriva. Ero andato in quella casa per prendermi il tempo che mi sarebbe servito per meditare e chiudere la mia breve carriera di magistrato, ma per rendere accogliente il mio alloggio quante spese avrei dovuto sostenere? Forse, avrei fatto prima a radere al suolo l’abitazione e ricostruirla, pensai. E il piano di sopra? In che condizioni si trovava? Avrei dovuto munirmi di un lanciafiamme per farmi spazio tra eserciti di acari, batterie di ragni con doppia testa, trappole invisibili e altri insetti d’ogni genere?

    Mi armai di coraggio e decisi di salire su. Azionai il contatore della luce e le lampadine si accesero senza cliccare sui singoli interruttori. La scala di legno ripidissima pareva intatta e iniziai a salire. La remota ristrutturazione del solaio fatta in economia era stata davvero scadente sotto tutti i profili, un insulto alle tecniche costruttive e al buon gusto. In parte era tavolato in legno e in parte cemento, c’erano pianelle quadrate di un colore chiaro nel bagno, un altro tipo rossastro scuro nel corridoio a forma di rombo, il linoleum nelle due camere da letto. In una stanza erano accatastati due materassi di crine e due a molle equamente distribuiti su ciascuno dei due letti presenti. Si usava così, non si buttava via niente. Si comprava qualcosa ma non la si sostituiva con quella vecchia: " Potrebbe sempre servire" dicevano gli anziani figli della guerra. E così la casa diventava un magazzino di roba vecchia che non serviva a nulla ma con l’illusione, nella mente dei viventi, che in futuro sarebbe potuta tornare utile. Nell’altra stanza il repertorio di oggetti che non si buttavano mai era formato da una pila di coperte d’ogni genere di cui ignoravo persino la lontana origine. Coperte di lana di colore grigio con due strisce bianche agli estremi, di quelle che negli anni sessanta venivano assegnate in dotazione ai militari di leva per le loro brande. Coperte di pile offerte a due euro nei supermarket ogni trenta euro di spesa. Coperte spesse due centimetri talmente vissute che rilasciavano pallini color marrone e che, una volta srotolate, parevano guaine di poliuretano espanso, pesantissime, con indubbia funzione termoisolante e pure immobilizzante. Il letto nero a una piazza e mezzo, con i pomi d’ottone e i disegni floreali nella testata, era intatto nella sua fierezza antica, svettava austero nella parete abbellita da un quadro rettangolare che raffigurava Santa Rita in estasi, con un crocifisso che stringeva in petto e una spina di rosa sul cuore che lacrimava sangue. Fissai quel letto pensando a quante notti d’estate avevo passato da bambino rannicchiato vicino alla nonna che, tenendomi la mano, mi raccontava delle streghe che s’incontravano nel monte di fronte al paese. Racconti che turbavano il mio prender sonno e venivano rimossi con un pater ave gloria che riportava tutto nella grazia di Dio.

    Facendo quei quattro passi sul tavolato del solaio sentii un ticchettio costante venire dall’altra camera. Dal soffitto le gocce di pioggia che cadevano sul linoleum, alimentando una piccola pozza che andava estendendosi, aumentavano la lista degli interventi urgenti. L’unica speranza era che almeno per i giorni successivi la pioggia desse una tregua. Spalancai le finestre per ridare ossigeno agli ambienti. Mi affacciai verso il cortile, da quella stanza che più di vent’anni prima mi aveva ospitato davanti a un piccolo tavolino con il manuale di procedura penale, le dispense delle lezioni e tanti progetti nella mente. Avevo trascorso tre mesi intensi tra inverno e primavera, a studiare quattordici ore al giorno pur di arrivare pronto alla data dell’esame. Da quella finestra che illuminava la stanza avevo visto cambiare i colori della terra, crescere l’erba, germogliare i mandorli e il pero, sbocciare le rose. Poco era cambiato del paesaggio da allora, a parte un casermone a due piani costruito e lasciato al grezzo che portava via allo sguardo mezzo fronte di collina verde. Giù il crepitio della legna si era fatto più marcato, la cucina aveva cominciato a scaldarsi e un bel tepore avvolgeva l’ambiente.

    2. Anna e Mario

    Non osai scaricare i bagagli perché non avrei saputo dove metterli e neppure dove mi sarei sistemato io stesso, ma almeno la casa avrebbe preso aria mentre il calore stemperava l’umido. Così, preso anche dal desiderio di vederli, decisi di andare a trovare Anna e Mario, sperando che fossero rientrati dalla Svizzera. Anna faceva la spola tra l’Italia e il Canton Ticino dove lavorava come assistente di pazienti affetti da neuropsichiatrie. Erano almeno quindici anni che non la vedevo mentre di Mario ne avevo solo sentito parlare vagamente. Bussai e aprii la porta dall’esterno perché in paese si usava ancora così. Nessuno chiudeva a chiave la porta dall’interno.

    «Anna, ci sei?»

    «Chi è?» Sentii rispondere dal piano di sopra.

    «Sono Filippo, l’amico di Anna, il giudice.»

    «Entra hombre!»

    Dalle scale comparve la sagoma di un omone che si confondeva nella penombra. Era alto, asciutto, di carnagione scura e con i capelli brizzolati. Mi venne incontro cordiale e allegro tendendomi la sua grande mano.

    «Ciao, io sono Filippo.»

    «Yo soy Mario, my mujer ha ido a la bodega, a hora regresa.»

    «Bene.» Risposi io un po’ impacciato senza capire le ultime parole.

    «Eccomi!» Anna spuntò dietro di me togliendomi subito dall’imbarazzo di non saper cosa dire allo straniero che avevo di fronte.

    Ci abbracciammo istintivamente e solo dopo ci guardammo con discrezione per vedere com’eravamo cambiati in tutto questo tempo. Anna era un po’ pienotta, indossava dei larghi pantaloni, portava un paio di occhiali da vista dalle lenti spesse e tondeggianti, i capelli lisci bianchi con la frangetta, pareva la nonnina montanara di Heidi. Viso sereno che la collocava tra i sessantenni ultra avanzati.

    «E allora, come stai Filippo? Quanto tempo, vero?»

    «Già, una vita direi!»

    «Mario è mio marito, è di Cuba ma ora è anche cittadino italiano.»

    «Yo no soy un profugo ni me he escapado, amigo, todo regular!»

    Lo guardai incuriosito, annuendo compiaciuto. Mi piaceva quella quercia sorridente che sprigionava genuina simpatia. E poi era proprio un bell’uomo, sembrava il fratello gemello di Denzel Washington, insomma, era telegenico da morire. Mi fecero sedere e mi offrirono un caffè lungo di quelli con la moka, accompagnato da alcuni biscotti fatti in casa. M’invitarono a pranzo e io accettai volentieri senza perdermi in inutili scuse.

    «Anna, ho riaperto la casa di babbo ma in queste condizioni non ci si può stare. Conosci qualcuno che potrebbe fare una robusta pulizia da cima a fondo?»

    Bastò una telefonata e Anna trovò subito due ragazze disponibili per il lavoro.

    «Se mi dai le chiavi le mando subito a pulire!» Mi disse.

    «Eccole, grazie.» Risposi piacevolmente stupito per il tempismo che strideva con la lentezza del tempo che avanzava nel borgo di Sant’Ilario.

    Mario a Cuba aveva esercitato la professione di ingegnere civile, si era separato dalla moglie e molto tempo dopo aveva conosciuto Anna. Lei era stata a l’Avana per una vacanza. All’ultimo momento, prima di partire, la sua compagna di viaggio si era ammalata ma lei, spirito libero, non si era posta problemi e aveva deciso di intraprendere ugualmente il viaggio, da sola. Una sera lei si era recata in piazza per assistere a un concerto; Mario si era avvicinato per chiederle se fosse francese, perché teneva in mano una guida che nella copertina raffigurava la torre Eiffel. Lui era stato molto gentile, concluso il concerto l’aveva accompagnata in hotel e nei giorni successivi in giro per la città. Alla

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