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E-book265 pagine3 ore

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Info su questo ebook

La memoria dei viaggi all’estero mi ha sempre confortato tanto che a distanza di anni ho iniziato a scriverne con il viaggio a Parigi che feci quando non avevo ancora 16 anni, nel 1949.
Ma più che i luoghi turistici o i musei a me ha sempre interessato, come diceva il fratello di mamma, respirare l’aria della città, sentimento che una volta sposato ho trovato presente anche in Nanni. E che ho cercato di trasmettere anche ai miei figli, anche loro chiamati a far parte dei nostri viaggi da quando ebbero 10 anni Gabriele e 7 Caterina.
Certo, anche qualche visita ai musei non è mancata, ma più che altro era la vita dei posti che visitavamo che ci interessava.
In ciò aiutati tutti da una curiosità per i loro cibi che ci ha portato ad assaggiare di tutto, anche il cane in agrodolce con il cioccolato.
E senza aver mai la pretesa di trovare all’estero la pasta asciutta, il parmigiano o il caffè espresso.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mag 2013
ISBN9788867559121
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    Anteprima del libro

    Topoi - Giampietro Favero

    9788867559121

    Prefazione

    Ho voluto raccogliere, sotto questo titolo greco che significa luoghi alcune memorie di viaggi fatti all'estero, e di impressioni che ne ho ritratto.

    La parola greca ha anche la facoltà di rappresentare il luogo comune ed anche una caratteristica propria di un oggetto o di una specifica situazione. Questo forse travalica un po' le mie intenzioni ma non è assurdo trovarvi qualche riscontro con le realtà narrate.

    Gli ultimi luoghi sono anche completi di immagine fotografiche che aiutano a rendere l'idea.

    Buona lettura

    FRANCIA

    Il viaggio in pulmann  doveva traversare Milano.

    L'organizzazione del Collegio prevedeva il pernottamento entro altri collegi sempre dei Fratelli delle scuole cristiane o con essi convenzionati, per cui andammo a dormire al Gonzaga in via Vitruvio che, nel futuro, avrebbe avuto una certa notorietà, ma allora, prima della contestazione giovanile del 1968, era ancora uno dei migliori collegi di Milano.

    Noi ragazzi, tutti o quasi al loro primo viaggio all'estero, avevamo su per giù la stessa età, intorno ai 15 anni, come usuale per giovani usciti dalla quarta ginnasio, e del francese conoscevamo solo quanto avevamo imparato a scuola l'anno trascorso.

    Una volta giunti in Francia, dormimmo ancora a Nancy, dove ebbi una disavventura con il bottone staccato dei miei calzoni alla zuava, ma poi sempre a Parigi.

    Non che ricordi molto di quel soggiorno, solo qualche pennellata di colore:

    Massimo C. nipote di un uomo politico italiano, che si dava già arie di vissuto ed emancipato, si fermò all'uscita della metropolitana sopraelevata per accendersi una sigaretta sollevando le ire di tutti i viaggiatori che erano dietro di lui cui impediva l'uscita. Questo determinò una robusta lavata di capo non solo a lui ma a tutti noi quasi a voler esorcizzare futuri pericoli dovuti ad altri del gruppo.

    Il rettore del collegio di Parigi vestito di un saio di lana, troppo pesante per la stagione, emanava un odore di sudore stantio per cui non si poteva avvicinarlo.

    Le banane, molto più piccole di quelle italiane erano molto più saporite ed ad un prezzo pari a circa un quinto di quello praticato allora in Italia.

    Il Louvre entro il quale lasciammo una moltitudine di bigliettini scritti a mano: fregato da Napoleone, talvolta anche con la traduzione maccheronica: fregué par Napoléon. Di questa prima visita mi resta il ricordo della maestà della Nike di Samotracia dislocata al colmo di una scalinata che la rendeva ancora più imponente, e l'immancabile fila per vedere la Gioconda. (che poi non è che mi piaccia molto)

    Le tombeau de l'Empereur  agli Invalidi, in porfido rosso, del quale presi una fotografia che, data la scarsità di luce, venne scura e mossa.

    Lo zoo che, non so perché andammo a visitare ed, ovviamente la torre Eiffel.

    * * *

    Le altre volte che andai in Francia, almeno fino al 1958, ero con i miei genitori perché papà partecipava alle riunioni dell'Association Internationale des entreprises d' équipements éléctriques di cui sarebbe diventato prima vice presidente e quindi, per due volte, presidente, e mi voleva di supporto per la lingua, che si sarebbe in seguito abituato a parlare.

    Ricordo una di queste volte in cui eravamo a Parigi in un albergo che a papà era stato indicato come accettabile, e non lo era, come si sia dato uno schiaffo a mano aperta sulla fronte dicendo: - Con il lavoro che faccio e quello che guadagno debbo venire a finire in una topaia simile!?!-

    Una volta cambiato albergo avemmo la ventura di incontrare, (in un bar a giocare a biliardino) la Nazionale Italiana di pallacanestro che avrebbe giocato la sera seguente al Vel d'hiv come i parigini che hanno la mania delle abbreviazioni chiamavano il velodromo di inverno ed  in cui normalmente si correvano le sei giorni ciclistiche.

    Noi conoscevamo diversi giocatori per il fatto che seguivamo la Stella Azzurra, che, a qual tempo giocava alla palestra del Foro Italico (prima che lo convertissero ad aula bunker) dove spettatori e giocatori stavano sullo stesso piano senza divisioni per cui anche i giocatori delle altre squadre romane, Ginnastica Roma ( poi inquadrata nell'Associazione Sportiva Roma) e S.S.Lazio, conoscevano noi; ci procurarono i biglietti a me, mamma e papà e la sera dopo li vedemmo vincere per 3 o 4 punti di scarto con grande scorno dei francesi che, a quel tempo, non sapevo tanto chauvinistes. (Sciovinisti, ma fa fine dirglielo nella loro lingua). Della squadra italiana facevano parte anche Carlo Cerioni, della Ginnastica Roma ed Alberto Margheritini della Lazio che in seguito avrei ritrovato come soci del Circolo Canottieri Roma.

    * * *

    Ogni volta che capitavamo a Parigi con papà  era tradizione andare a messa al Sacro Cuore di Montmartre ed immancabilmente papà, e più raramente io, serviva messa che ancora si diceva in latino non solo a Parigi ma in tutto il mondo cattolico, e terminava accompagnando il sacerdote in sacrestia e salutandolo con Prosit.

    Un altro appuntamento, più banale, ma strano era una sala da biliardo sul boulevard des italiens proprio nei pressi de l'Opéra. Qui si giocava senza birilli e senza buche, solo a carambola, e c'era una tribunetta per gli spettatori. Si entrava senza pagare e lì per la prima volta vidi giocare le tre sponde. La carambola è un gioco bellissimo, consta di tre bilie fra loro uguali come forma e peso; una rossa e due bianche; ad ogni giocatore compete una della bilie bianche: con essa e usando la stecca deve colpire le altre due, non importa in quale ordine; chi colpisce le altre due ripete il tiro, ed il turno passa al secondo giocatore solo quando il primo sbaglia: il fatto di colpire in sequenza le due bilie con la propria si chiama carambola e ciò dà nome al gioco. Si vince dopo aver fatto di solito 21 carambole; arrivati al conteggio di 21, però il giocatore non si ferma perché il suo avversario, se è stato di turno dopo di lui, ha diritto di pareggiare il numero dei turni e potrebbe anche superare l'altro. Talvolta per rendere più difficile la partita, peraltro già difficile per conto suo, l'ordine di colpire viene stabilito a priori; talvolta i più bravi giocano le tre sponde nel senso che prima di colpire la prima bilia o, dopo di questa, prima di colpire l'altra, debbono far rimbalzare la propria bilia su tre sponde.

    L'associazione delle imprese elettriche diventava sempre più prestigiosa ed era costantemente occasione di viaggi all'estero.

    Una volta oltre alla famiglia stretta venne anche la famiglia Crescenzi. Io oramai ero considerato un habitué e mi si interpellava come Monsieur Favero Fils ( Signor Favero Figlio) e poiché parlavo bene sia l'inglese che il francese, ero bene accetto sia ai francofoni che agli anglofoni. Anche Gianfranco se la cavava abbastanza bene con le due lingue, per cui in occasione del pranzo ufficiale ci piazzarono in modo da sfruttare questa nostra conoscenza: in gruppi che non si capivano tra di loro quasi a fare da tramite. D'altronde anche se nominalmente le lingue durante gli incontri erano quattro: francese, inglese, tedesco ed italiano, pure anche il rappresentante tedesco aveva imparato l'inglese per ottenere maggiore comprensione.

    Gli scandinavi parlavano l'inglese a scuola e non avevano problemi, l'olandese di turno anche se sapeva meglio il tedesco parlava bene inglese; qualche problema insorse quando anche la Spagna aderì all'Associazione, ovviamente non in occasione delle riunioni di lavoro nelle quali c'era la traduzione simultanea, ma durante i pasti ufficiali in cui questa mancava.

    Nei primi tempi però c'era una signora francese con cognome tedesco (Wagner) che faceva la traduzione differita anche durante le riunioni, ma ciò non sarebbe stato molto comodo nei pranzi o nelle gite. Occorreva una traduzione, magari più alla buona, quasi immediata.

    Tornando al giorno del pranzo, dunque, io e Anco capitammo in posti lontani.

    Quel giorno i francesi ci vollero stupire per cui per antipasto ciascuno dei commensali aveva una dozzina di ostriche, e del tipo fines belons. Ma ovviamente non a tutti piacciono i frutti di mare crudi per cui molti neanche toccarono il piatto. Il presidente francese lanciò l'idea di non far tornare i piatti pieni in cucina, per cui i buongustai si diedero da fare. Io credevo di aver vinto la gara a chi ne mangiava di più contando sulle mie 44 contro le 42 di Gianfranco; ma il presidente francese mi gelò dicendomi delle sue 48.

    Credo sia stata la volta in cui sia Anco che io ne abbiamo mangiate di più.

    * * *

    Il treno bianco partiva da Genova, ed è lì che ci recammo con zia Dadda ed Anco per un pellegrinaggio a Lourdes nel 1957. Lì giunti fui colpito dalla differenza di atmosfera fra le strade subito fuori del santuario e quelle all'interno.

    Fuori una serie infinita di negozi, negozietti, baracconi, stands, mercatini e tutti a proporre immagini, rosari, acqua della madonna, in un affollarsi di voci, rumori, colori ed odori da rendere l'idea del bazar o meglio del suq. Ci riferirono che tutti i proprietari di questi esercizi commerciali erano ebrei.

    All'interno invece si respirava un aria mistica, assolutamente adatta al luogo. Lì feci l'immersione nella piscina. Questa si svolgeva così: vestito di una sola tunica di stoffa, si entrava in una specie di vasca, con una persona assistente per lato al di fuori della vasca. Le persone ai lati ti prendevano per le braccia, ti facevano piegare le gambe e ti accompagnavano ad immergerti completamente nell'acqua (anche la testa)  e di un subito ti tiravano su. Tolta la tunica, fradicia, ti rivestivi senza asciugarti ma trovandoti inspiegabilmente asciutto.

    Impressionante era la processione del pomeriggio: ciascun pellegrinaggio ufficiale procedeva al suo posto nella fila, preceduto dalle bandiere, cantando canzoni mariane, ciascuno nella sua lingua, talvolta intervallate dal salmo Lauda Sion cantato in latino. Il nostro pellegrinaggio aveva le bandiere vaticana ed italiana che erano portate generalmente da me e da Anco. Preso posto nei pressi del santuario ma all'aperto, a ciascuno il suo ma con le bandiere accomunate e disposte lungo le mura del santuario, cominciavano le preghiere, che essendo comuni erano dette in latino a quel tempo conosciuto da tutti, almeno per quanto riguardava le preghiere. Il pater noster veniva cantato in gregoriano e tutti allora allargavano le braccia come nelle raffigurazioni dell'orante nelle catacombe di San Sebastiano; io ed Anco che portavamo le bandiere, imitammo gli altri alfieri allargando un braccio solo e tenendo la bandiera con l'altra mano accostata al corpo.

    Era veramente un bagno di fede e, a processione finita, si sperava nel giorno successivo per ripeterla. Ogni giorno la funzione era aperta da un pellegrinaggio nazionale ed anche a noi, come pellegrinaggio italiano, toccò di guidare la processione, subito dopo gli invalidi in carrozzella o in barella trasportati dai barellieri volontari, uniti nella stessa preghiera.

    * * *

    Con Gianfranco andai poi in Francia in occasione del viaggio a Bruxelles per l'Expo 58: avevamo deciso di viaggiare in macchina, traversando la Svizzera, la valle del Reno il Benelux, prendere il traghetto notturno da Hoek von Holland per Harwick, fare una puntata a Cambridge dove Paola stava preparando la tesi, tornare in Francia percorrere la valle della Loira fino alla foce, scendere ai Pirenei e passare per Lourdes, dove eravamo stati l'anno prima con zia Dadda, una puntata a San Sebastian poi a Pamplona, Huesca, Barcellona, Andorra per essere a Roma il 14 Agosto, giorno precedente le consuete ferie della famiglia.

    Avevamo a disposizione la seicento mia e di Paola o quella di Anco e scegliemmo la sua. Appena presa: i 10.000 chilometri li raggiungemmo durante il viaggio.

    Sull'antenna della radio svettavano due bandiere. Una aveva un fondo bianco ed un disegno verde che rappresentava una E stilizzata ed era la bandiera della comunità del carbone e dell'acciaio, l'altra era una bandiera a fondo blu con dodici stelle d'oro disposte come le ore di un orologio ed era un'auspicata bandiera d'Europa che ancora non esisteva; la stessa che sarebbe diventata la bandiera d'Europa anche se l'Europa esiste solo come unità economica e non politica; per cui non si  vede perché debba avere una bandiera.

    Durante il viaggio ci alternavamo alla guida, e sui turni andavamo d'accordo. Quando mangiavamo al ristorante non ci mancavano mai molluschi o crostacei o altre specialità tipicamente francesi, e a La Rochelle riuscimmo a spendere 8.000 franchi per una cena, a quell'epoca una enormità, anche se la notte ci sentimmo pesanti: dal sapore che ci tornava in gola capimmo che era stata l'omelette cotta nel burro. Uno non si rende conto di quanto sia grassa la cucina francese finché non la prova, e sì che avevamo 24 anni, ma il nostro fegato non era abituato a tutto quel burro cotto.

    Sui turni di viaggio, come detto sopra, andavamo d'accordo anche perché il viaggio era stancante e non ostante la voglia che ognuno aveva di guidare comunque ( da poco avevamo la macchina ed anche se la patente risaliva ai nostri 18 anni, pure le occasioni di guida non erano state molte dipendendo sempre dalla buona volontà dei rispettivi genitori), ci alternavamo abbastanza regolarmente,. Anche l'itinerario, che comunque a grandi linee era stato già concordato in anticipo, se non altro indicando le date fisse per i traghetti, il 10 agosto per la fiesta a Huesca, e la data inderogabile del ritorno era condiviso. Tutto andò bene fino alla mia richiesta di passare per Cognac. Anco non ne volle sapere e discutemmo al punto da rasentare il litigio se, come ricordo, chiesi ad Anco che era alla guida, di lasciarmi in un paese ché sarei tornato in treno. Fortunatamente Anco non lo fece.

    Passando per Andorra, durante il ritorno, avemmo proprio la sensazione che non saremmo stati  a  Roma il giorno dopo: alla dogana di ingresso in Francia, i doganieri vollero aprire le nostre valigie, lasciandole poi con tutta la roba in disordine. Quando credevamo che sarebbe bastato, si dedicarono alla macchina, e vollero che smontassimo dei pannelli di rifinitura, e dovevamo farlo noi che prima neanche sapevamo che fossero smontabili dicendo che non si prendevano la responsabilità di rompere qualcosa. Ci diedero un cacciavite e cominciammo lo smontaggio. Ovviamente non trovarono niente, ma forse ci avevano preso per trafficanti di droga. Dopo più di due ore ci consentirono il passaggio.

    Ora, da Andorra a Roma, sono circa mille miglia (1600 km.) e noi ci accingemmo a percorrerle tutte, sulla nostra utilitaria, per strade nazionali normali, traversando i paesi, le città i borghi, sempre con l'impegno di essere entro la sera del giorno dopo a Roma per accompagnare la famiglia in ferie a Fiuggi, considerando i semafori, i vigili urbani, i passaggi a livello e così via.

    Ricordo il tramonto che colorava le mura di Avignone, viste da lontano, la Costa Azzurra ancora in fervente attività durante le ore inoltrate della notte, la frontiera di Ventimiglia  alle sei del mattino, dove però non avemmo problemi, ed una stazione di servizio AGIP sull'Aurelia, appena in Italia, dove ci fermammo e facemmo una doccia. A quel tempo le stazioni di servizio erano di recente concezione ed offrivano ai viaggiatori una serie di servizi che poi si sono andati via via perdendo, con l'aumentare del traffico. Non riuscimmo a fermarci a Calafuria per il mitico cacciucco, a quel tempo rinomato in tutto il mondo, e meta non soltanto dei viaggiatori di passaggio, ma anche di viaggi appositi. Mangiammo infatti un panino al bar, e riuscimmo ad arrivare a Piazza San Silvestro, dove la famiglia ci attendeva fin dal pomeriggio,  oltre le nove di sera, con gli occhi che si chiudevano dal sonno, ora che non erano più sostenuti dalla necessità di arrivare.

    * * *

    Nel viaggio di nozze non era prevista la sosta a Parigi se non alla stazione: scendere dal Golden Arrow in arrivo da Londra e salire sul Capitolino per Roma.

    Io non avevo mai viaggiato in  aereo prima di allora e, d'accordo con la mia futura moglie, avevo organizzato il viaggio con Thomas Cook che comprendeva tutti i trasferimenti in treno, o in battello; non escluso un viaggio sul Reno; ma il diavolo ci mise la coda ed i portuali non ricordo più se francesi o inglesi, lo sciopero.

    Per cui dall'agenzia, nel nostro albergo di Edinburgo,  venimmo invitati a acquistare il biglietto aereo Londra-Parigi per poi richiedere il rimborso delle tratte in treno ed in battello non utilizzate. (Cosa che facemmo al ritorno a Roma ottenendo 29.080 lire che giocai al lotto sulla ruota di Roma, e facendo un ambo: appunto 29 ed 80).

    Ciò comportò che il viaggio fra Londra e Parigi sia stato molto più rapido del preventivato, e ci trovammo su una panchina del quai  a guardare il fiume ed a dormire abbracciati tenendo fra di noi le valigie in attesa dell'ora del treno.

    Avemmo anche il tempo di andare a respirare l'aria di Parigi al Café de la Paix in Place de l'Opéra.

    * * *

    Dopo le nozze feci anche parte della commissione tecnica dell'associazione per cui mi trovai, stavolta da solo e sempre in treno perché la repulsione dell'aereo non mi è mai passata, a Parigi ed una volta a Strasburgo.

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