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Imagines
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E-book497 pagine7 ore

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Info su questo ebook

Due amici e le loro nuove conoscenze. L’ultimo discendente di una famiglia romana. Due ritratti attribuiti ad Antoon Van Dyck. Una vecchia proprietà sul mare chiamata Cursum Perficio. Un’antica congiura e una maledizione. Una vendita illegale, un furto impossibile, due morti. Uno spettro o un assassino in carne e ossa? Solo l’amore per la logica aiuterà i due protagonisti a dissipare le ombre e a risolvere fino all’ultimo rebus, svelando che le cose non stanno come tutti credono, nel classico stile del whodunit.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ago 2019
ISBN9788831635165
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    Anteprima del libro

    Imagines - Carlo Bruno

    illusoria.

    PARTE PRIMA

    Roma, 1989

    Il mio amico Jacques Monod parla di un cosmo governato dal caso. Secondo lui, nella vita tutto avviene per puro caso, eccezion fatta per la prima colazione, che sa con certezza che gli viene preparata dalla fida governante.

    Woody Allen

    1

    Libero Neri ricordava perfettamente quella sera.

    Ricordava perfino come, percorrendo in macchina Via dei Fori Imperiali, avesse ammirato per l’ennesima volta il panorama alla sua destra: il Campidoglio, parte del Foro Romano, e poi la mole gigantesca – eppure così aerea – del Colosseo.

    Ricordava come, in fondo alla strada, avesse commesso ancora una volta la solita infrazione, svoltando a sinistra per salire su una delle cime del Colle Oppio, che sovrastava, sul lato opposto a quello dal quale si trovavano i Fori, la via che lui aveva appena percorso.

    Dal basso non è possibile scorgere che cosa ci sia sulla sommità di quell’altura, che nei secoli ha assunto l’apparenza di un allungato terrapieno sul cui fianco permangono avanzi di antiche mura e una folta vegetazione. Quello stesso terrapieno è sovrastato, da un certo punto in poi, da un muro di costruzione moderna alto una decina di metri.

    Così, mentre ciò che si trova da una parte di Via dei Fori Imperiali è conosciuto in tutto il mondo, quel che si trova dalla parte opposta della stessa strada è pressoché ignoto, non solo ai turisti, ma anche a moltissimi romani, tutti quelli che non sono della zona o che non conoscono a fondo la città. Sull’altura in questione, al di sopra del muro costruito all’epoca in cui è stata aperta la strada sottostante – presumibilmente per contenere il fianco del colle – si estende un reticolo di stradine e vicoli in cui il tempo sembra essersi fermato all’epoca della Roma papalina. La sera il posto diventa un dedalo silenzioso e poco illuminato, in cui i passi echeggiano sul porfido sconnesso della pavimentazione, e dove solo di tanto in tanto, da luoghi che sembrano lontanissimi, arriva il rombo di un motore, la sola cosa, insieme alle macchine parcheggiate, che ricordi i ritmi e la realtà del ventesimo secolo.

    Il cuore della zona è uno slargo che si trova all’intersezione di quattro strade, proprio al di sotto della facciata di un’antica chiesa sconsacrata nel cui corpo, però, sono state ricavate alcune abitazioni. Sono abitazioni vecchie e povere: possedere e ristrutturare le quali farebbe probabilmente la gioia di stuoli di manager e di giovani architetti, ma nelle quali vivono, invece, vecchi che sembrano avere la stessa età delle loro case.

    Davanti all’entrata di quelle case si passa percorrendo la stradina che si apre alla destra della facciata della chiesa: è un portoncino sempre buio, sotto finestre anch’esse sempre buie e socchiuse, dalle quali si ha l’impressione di essere spiati. Più avanti la strada sbocca – ed è come se là, improvvisamente, si rompesse un incantesimo – in una rumorosa, trafficata e squallida via di grande traffico. Ma è verso la metà della stradina che si incontrano i pochi negozi della zona, piccoli e all’antica, che la sera non sono altro che vecchie saracinesche abbassate, prive di qualsiasi insegna. Chi sia passato da quelle parti anche di giorno sa che si tratta di una falegnameria, un fioraio, un antiquario, una trattoria e un paio di piccole rivendite di alimentari. Ma quando Neri frequentava quella zona le sole fonti di luce, la sera, erano le insegne di due locali notturni.

    Uno era più grande e più noto. L’altro era più piccolo e meno conosciuto. Si trovava proprio alla metà della strada, sulla sinistra, una porta di ferro dipinta di nero che si apriva in un’antica parete coperta di edera. E quando il locale era aperto, in quel punto il selciato era illuminato dalla discreta insegna azzurra che vi accoglieva dicendo "Welcoming".

    Quel locale costituiva la ragione per cui Libero Neri era stato iniziato ai misteri di quella zona, nella quale non ricordava di avere mai messo piede finché non ce lo aveva portato M.E.

    La prima volta che erano andati là il locale non era stato ancora aperto, ma apparteneva ad un amico di M.E. e lei aveva voluto che Neri lo vedesse in anteprima. Successivamente lei era andata a lavorare al locale e per quella ragione Neri aveva finito per capitarci molto spesso, cioè tre volte alla settimana.

    L’ultima volta che ci era andato era un venerdì sera. Pur essendo inverno non faceva molto freddo, ma in cielo non si vedevano stelle, e cadeva una pioggerella fine ed insistente che aveva reso le strade ancora più lucide e scivolose del solito.

    Neri aveva lasciato la sua macchina davanti alla chiesa sconsacrata e si era avviato a piedi verso la luce azzurra che si rifletteva sul selciato, più in là, nella stradina. Passandoci sotto non aveva saputo trattenersi dal gettare uno sguardo al finestrone che si apriva sopra all’entrata di quel silenzioso tempio abbandonato. L’oscurità di quel rettangolo nero era sembrata ricambiare il suo sguardo. Per un attimo Neri aveva pensato ai fantasmi che dovevano popolare quel posto, i fantasmi di oltre duemila anni di storia sepolti sotto i suoi passi, che forse ogni sera, a quell’ora, si davano convegno là dentro approfittando del buio, del silenzio e della solitudine.

    Al suo passaggio nella strada un’imposta sopra di lui aveva scricchiolato. Neri aveva alzato lo sguardo ma, come sempre, dietro alle ante socchiuse non aveva visto nessuno. Forse i vecchi che vivevano là dentro erano fantasmi anche loro.

    Poi Neri era arrivato alla porta del locale ed aveva oltrepassato la soglia.

    Veramente, all’inizio, M.E. aveva suggerito al suo amico di chiamare il locale "Nightmare, che in italiano significa incubo, ma, sebbene il nome sarebbe stato senz’altro appropriato per un locale che, come quello, si trovasse in una strada sospesa nel tempo, all’inizio della quale ci fosse anche una chiesa sconsacrata, alla fine si era pensato che Welcoming" sarebbe stato di migliore auspicio.

    Del resto anche quel nome era adeguato, perché il posto era molto accogliente. Era uno di quei club privati molto riservati, frequentati sempre dalle solite persone, che poi sono gli amici e gli amici degli amici, per cui, alla fine, ci si conosce tutti. Ci si andava per passare qualche ora in compagnia, per bere qualcosa, ascoltare buona musica – e a volte qualcuno portava gli strumenti e dava vita a una piccola jam session – e per fare una chiacchierata, per raccontarsi le ultime novità e dimenticare per un po’ la giornata che era appena finita e quella che stava per incominciare.

    Superata la porta si scendeva una rampa di scale illuminata da lampade poste all’interno del corrimano, che lasciavano vedere solo il piano dei gradini. In fondo alla scala c’era un piccolo atrio, in cui ci si faceva riconoscere e dove si trovavano il guardaroba e il telefono, segnalato, nella sua nicchia in mezzo a poster d’autore e piante ornamentali, da una grossa lampada a muro a forma di ricevitore. Anche l’apparecchio non passava inosservato: un telefono trasparente, all’interno del quale passava un tubo al neon verde. In quel modo, oltretutto, si era provveduto a illuminare l’ingresso.

    Neri aveva salutato l’amico del proprietario del locale che normalmente trascorreva le proprie serate in quel cubicolo, con il compito di accogliere gli ospiti; aveva oltrepassato le luci del telefono, resistito alla voglia di gingillarsi un po’ con la slot-machine che si trovava lì accanto, ed era passato nel locale vero e proprio. Le luci in sala, come sempre, erano basse, e gli altoparlanti diffondevano buona musica a volume non troppo alto.

    Neri aveva lanciato un’occhiata distratta ai tavolini e agli ospiti del locale, ancora pochi, seminascosti fra i separé e le piante, e si era diretto verso il bar. M.E. era là e faceva parte dell’atmosfera calda e rilassante del Welcoming.

    Neri aveva bisogno di quell’atmosfera. La giornata non era stata una delle migliori, e lui era stanco e ci vedeva male. Aveva passato parecchie ore a disegnare, e le sue mani sapevano di carta e inchiostri.

    Lavorava in un’agenzia pubblicitaria non molto grande e teoricamente si sarebbe dovuto limitare a fare l’account, cioè a tenere i contatti con i clienti. Ma le dimensioni dell’agenzia, che pure era ben avviata, non sempre permettevano di mantenere rigidamente le divisioni di compiti. Quel giorno uno dei grafici non si era presentato e aveva telefonato che gli era venuta la scarlattina. L’art director aveva sacramentato e chiesto aiuto e in mezzo a tutti quanti, in virtù del suo passato, era stato pescato proprio Neri. Era dovuto tornare sui banchi di scuola, quando faceva il grafico e passava le sue giornate a disegnare. Il che è bello, se lo si sa fare, e a lui piaceva, ma come tutte le cose diventava pesante se si passavano più di cinque ore al tavolo. Così quella sera Neri aveva davvero bisogno di rilassarsi, o avrebbe continuato a fare scarabocchi anche nel sonno.

    Sul bancone del bar due enormi e variopinte coppe di gelato erano in realtà due lampade che proiettavano dappertutto la loro luce colorata. A un’estremità del bancone, contro la parete di fondo del locale, c’erano le riproduzioni di due pompe di benzina degli anni Quaranta, anch’esse luminose, alte una cinquantina di centimetri. Le luci si riflettevano in un arcobaleno di colori sulle bottiglie del bar, nei bicchieri appesi al di sopra del bancone, e negli occhi e nei gioielli di M.E., mentre lei e Neri si salutavano, scambiandosi un rapido bacio.

    «Ciao, tesoro», aveva detto lei, sorridendo. «Scusami un attimo, devo andare a servire un tavolo. Torno subito.»

    Neri si era sistemato su uno dei quattro sgabelli davanti al bancone e l’aveva guardata allontanarsi. Mentre lei si districava fra i tavolini lui aveva notato che anche qualcun altro in sala le aveva dedicato un’occhiata, ed aveva sorriso tra sé.

    M.E. era una di quelle ragazze che molti non avrebbero notato subito. Non Neri, che era rimasto colpito fin dal loro primo incontro dai folti capelli scuri, dalle sopracciglia simili alle antenne di una farfalla, dagli occhi scuri profondi e vagamente malinconici, dai lineamenti delicati, che una volta aveva sentito qualcuno paragonare a una miniatura. Molto minuta, M.E. era magra e sottile, ma sinuosa, con tutte le curve al loro posto, e in alta uniforme poteva far sembrare insignificanti ragazze a prima vista assai più appariscenti. Specialmente se scopriva le gambe, che – pur non essendo molto alta – aveva, proporzionatamente alla statura, lunghissime. Diritte e tornite, erano gambe perfette che avevano meritato, in alcune occasioni in cui erano state abbondantemente esibite, una seconda occhiata da parte di parecchi uomini e talvolta – ma in quei casi si era trattato di sguardi meno benevoli – di qualche altra donna.

    Neri l’aveva guardata tornare verso il bar. In realtà lei non lavorava lì nel senso autentico del termine, perché per guadagnarsi di che vivere prestava la sua opera in uno studio legale. Ma faceva moltissime altre cose, per sua soddisfazione personale. Per cominciare cucinava, il che era – amava dire Neri – ciò che lo riguardava più da vicino. Spesso recitava per qualche piccola compagnia teatrale. Suonava il pianoforte e cantava piuttosto bene, tanto che una volta era stata lì lì per incidere un disco. Quando aveva tempo cercava di occuparsi di una piccola proprietà che aveva ad una settantina di chilometri da Roma, una casa in campagna con un po’ di terra intorno; oppure andava in piscina, o in palestra, a sollevare pesi o a tirare di scherma, per tenersi in forma.

    Era un terremoto. Andare a casa sua significava immergersi in un guazzabuglio di mobili che stavano sempre per cambiare posto, riviste di arredamento, testi giuridici, appunti, copioni teatrali, testi di canzoni e corrispondenza inevasa, in mezzo a vestiti buttati qua e là che finivano invariabilmente per fare da letto a un gatto persiano bianco, solenne ed invadente, chiamato Parsifal.

    Naturalmente, M.E. conosceva un sacco di gente appartenente a categorie delle quali, prima di allora, Neri non aveva mai sospettato lontanamente l’esistenza. Registi sconosciuti, aspiranti attori squattrinati, attricette che non avevano difficoltà ad ammettere di essere disposte a tutto – ma proprio a tutto – pur di lavorare, e altri strani individui. Nella massa di personaggi bizzarri al di sopra della quale M.E. si librava, badando a non mischiarcisi troppo, era incluso anche il proprietario del Welcoming.

    Quando aveva aperto il locale questi aveva avuto bisogno di qualcuno che lo aiutasse a mandare avanti la baracca, almeno per i primi tempi. Così alcuni amici, tra i quali M.E., avevano accettato di andare a dargli una mano, in cambio di un compenso più che altro simbolico. Ma questo non era importante, per M.E., perché a lei piaceva stare al bar in mezzo agli amici, sentire le chiacchiere di tutti e saltabeccare allegramente da un discorso all’altro, mentre preparava cocktail o sceglieva la musica da sentire. E poi Neri andava al locale tutte le volte in cui c’era lei, anche perché, nonostante tutte le garanzie che c’erano, voleva essere sicuro che non ci fosse nessuno a darle fastidio.

    2

    M.E. era tornata dietro al bancone insieme all’altra ragazza – un’altra amica del padrone – che si era offerta di sacrificare tre sere della propria settimana al lavoro nel locale. Si trattava di una giovane dagli occhi scuri e dai capelli visibilmente ed abbondantemente aiutati a diventare biondi, con un discreto personale ma una statura mentale insignificante e la radicata tendenza a cercare di attirare su di sé l’attenzione di tutti i maschi presenti nel raggio di cento metri, nella speranza che uno di essi potesse adattarsi a sostituire un marito sempre assente.

    Mentre la ragazza – che rispondeva al nome alquanto desueto di Filomena – salutava Neri e si dava da fare per preparare alcune bibite, M.E. aveva preso un bicchiere e si era servita della pistola erogatrice di una delle finte pompe di benzina per riempirlo di un liquido scuro.

    «Tieni», aveva detto, porgendo il bicchiere a Neri, «Cubalibre.»

    Neri aveva preso il bicchiere osservando con aria stupita i distributori.

    «Straordinario!», aveva esclamato. «Funzionano veramente.»

    «Allora? Com’è andata, oggi?», aveva domandato M.E.

    Neri aveva bevuto un sorso del suo cocktail e si era strofinato gli occhi con le dita della mano sinistra. «Stalin è malato», aveva risposto. «E io lo sostituisco.»

    Filomena gli aveva lanciato un’occhiata incuriosita, mentre M.E. aveva replicato con la massima naturalezza: «Non è bello, che per tutto questo tempo mi abbiate fatto credere che fosse morto. E non mi piace che tu vada in Russia senza dirmi nulla.»

    «Morto?», Neri aveva sollevato lo sguardo. «Ma no, ti sbagli. È malato», aveva insistito. «Ha la scarlattina.»

    «È davvero rosso, allora», aveva concluso M.E. «Ma chi è?»

    «Uno dei nostri grafici. Lo chiamiamo così per i suoi baffi.»

    «Ah, ecco. Siete tutti normali anche all’agenzia, allora. Quand’è che comincerai a frequentare persone con tutte le rotelle a posto?» M.E. aveva tratto un oggetto da sotto al bancone e lo aveva porto a Neri.

    «Perché mi dici così?», stava domandando lui. «Se avessi frequentato gente normale non ti avrei mai conosciuta. Cos’è questo?»

    M.E. non aveva raccolto la provocazione. «È un libro», aveva detto.

    Effettivamente era un libro, aveva constatato Neri: un libro stampato su carta di qualità scadente molti anni prima, e in pessimo stato. Doveva essere stato comprato usato, su qualche bancarella. Sulla copertina, che un tempo doveva essere stata bianca, spiccava una manciata di lettere.

    «L’ha dimenticato qui Richard, l’ultima volta che siete venuti», aveva spiegato M.E.

    «S’è capito di che parla?» la voce di Filomena si era sovrapposta a quella di M.E., mentre questa spiegava a Neri quale fosse la provenienza di quel tomo.

    «Rien a faire», aveva risposto M.E., per poi tornare a rivolgersi a Neri. «Abbiamo tentato inutilmente di capirci qualcosa, ma è in spagnolo. L’unica cosa che sono riuscita a fare è stato tradurre il titolo, ma non credo che questo possa portare molti lumi.»

    «Perché?»

    M.E. si era limitata a declinare il titolo: «"Sull’uso degli specchi nel gioco degli scacchi", di Milos Temesvar. Ti suggerisce qualcosa di sensato?.»

    Neri aveva osservato, perplesso, la copertina del libro. «Effettivamente no», aveva ammesso.

    «Secondo te come fa una persona normale a comprare un libro del genere?»

    «Perché, ti risulta che Richard abbia qualcosa di normale?»

    «Oh, parli del diavolo…» si era intromessa Filomena, accingendosi ad uscire da dietro al bancone portando un vassoio carico di bicchieri. Neri e M.E. avevano seguito il suo sguardo e si erano voltati verso l’entrata. L’inconfondibile sagoma di Richard era là, e riempiva il vano che dava nell’atrio.

    Filomena si era accorta che il suo sguardo stava durando troppo a lungo e si era affrettata ad allontanarsi, mentre Richard faceva il suo ingresso nella sala e andava a sedersi su uno sgabello alla sinistra di Neri.

    «Buonasera a tutti», aveva esordito, alzando le mani in segno di saluto.

    «Sembra che tu abbia fatto colpo», gli aveva detto M.E., appoggiata a braccia conserte sul bancone.

    «Succede», Richard aveva alzato le spalle e non era sembrato dare troppa importanza alla cosa.

    «E che provvedimenti intendi prendere?» lo aveva stuzzicato Neri.

    Richard li aveva guardati con aria sospettosa. «Fuggire?», aveva ipotizzato.

    «Ma perché?» aveva insistito M.E. «Basterebbe che le dessi un po’ di confidenza, e quella ti cadrebbe fra le braccia.»

    «Quella cadrebbe fra le braccia di chiunque», aveva contestato Richard. «E in ogni caso darle confidenza richiederebbe un impegno che non varrebbe proprio la pena.»

    Pigro, come sempre, e di gusti difficili, aveva pensato Neri. Del resto poteva permettersi di scegliere. Richard McNab non era tipo da passare inosservato, e i suoi quasi due metri di statura attiravano frequentemente l’attenzione di qualche ragazza.

    «Va bene, la questione è liquidata», aveva decretato M.E.

    «Sembra che questo ti stupisca», aveva protestato Richard. «Ma non vedo perché. È normale non fare qualcosa, se non si è motivati.»

    «Giusto. Solo che una volta vorrei scoprire qual è il tipo di donna in grado di motivare te»

    «Non sai quali sono le donne che lui trova stimolanti?», aveva allora domandato Neri a M.E.

    «No, perché? Tu lo sai?»

    «Naturalmente. Tanti anni di amicizia devono pur servire a qualcosa. Giusto?» Neri aveva risposto rivolgendosi a Richard, che aveva confermato: «Giusto.»

    «E allora? Quali sarebbero queste donne?» aveva chiesto M.E.

    «Ovviamente, quelle scappate dal manicomio.»

    «Non vorrete passare tutta la serata a parlare di me, spero», aveva protestato Richard. «Qual era l’argomento di conversazione, prima che arrivassi io?»

    «Stavamo già parlando di te», gli aveva risposto M.E.

    «Ah! Interessante! E che cosa si diceva?»

    M.E. aveva indicato Neri: «Lui diceva che non hai niente di normale.»

    Richard si era voltato verso l’amico. Neri aveva preso un bicchiere, lo stava riempiendo di Cubalibre servendosi della replica di distributore già usata da M.E., e aveva l’espressione di un bambino che avesse scoperto un gioco nuovo. Quando il bicchiere si era riempito Neri lo aveva dato a Richard, il quale lo aveva preso continuando a guardare, meravigliato, i distributori sul bancone.

    «Straordinario!», aveva esclamato. «Funzionano veramente.»

    «Questo l’ho già detto io», aveva fatto Neri. La sua voce aveva riportato Richard al discorso lasciato in sospeso.

    «Ecco! Allora io non sarei normale?»

    «No», aveva risposto Neri. «E ne ho le prove.» Si era rivolto a M.E.: «Dagli il libro.»

    M.E. aveva preso il volume del quale lei e Neri stavano parlando fino a pochi minuti prima e lo aveva porto a Richard, il quale era sembrato riconoscerlo ed aveva esclamato: «Ah! Eccolo! Avevo pensato di averlo lasciato qui, ma non ne ero sicuro. Non ne avete trovato anche uno sui labirinti?»

    «No, spiacente», aveva risposto M.E.

    «Allora sarà da qualche altra parte. Forse a casa.»

    «Labirinti?», era intervenuto Neri. «Dovevo immaginare che avresti posseduto un testo sull’argomento.»

    Richard aveva sorriso. «Ma che cos’è questo?» gli aveva domandato M.E.

    «"Sull’uso degli specchi nel gioco degli scacchi"», aveva spiegato Richard. «È la traduzione in spagnolo dell’originale in lingua georgiana, stampato a Tbilisi nel 1934.»

    «Ma di che parla?» aveva chiesto ancora M.E.

    «Non lo so, naturalmente», aveva risposto Richard, come se avesse detto la cosa più ovvia del mondo. «L’ho comprato perché mi incuriosiva, ma in effetti non so ancora come fare, per leggerlo. Dovrò perfezionare il mio spagnolo, oppure ci vorrà qualcuno che lo traduca. Ci vorrà qualcuno che…»

    «Ci vorrà uno psichiatra», lo aveva corretto Neri.

    Nuovi ospiti del locale avevano sceso rumorosamente le scale e avevano preso posto nella sala. Neri aveva guardato l’orologio: era arrivata l’ora in cui i clienti cominciavano a diventare più numerosi.

    «Scusate», aveva detto M.E., allontanandosi.

    «Il dovere chiama», le aveva detto Richard.

    «Avrà da fare, stasera», aveva fatto Neri, indicando con un cenno l’entrata. Già un altro gruppo di persone, piuttosto nutrito, stava scendendo la scala, e il brusio nella sala cominciava a farsi più forte, sovrastando il rumore della pioggia, che fino ad allora aveva continuato a farsi sentire attraverso la porta d’ingresso semiaperta.

    «C’è pienone», aveva constatato Richard.

    «Come tutti i fine settimana. Oggi è venerdì», aveva detto Neri.

    Richard aveva bevuto l’ultimo sorso dal suo bicchiere e mangiato un’oliva presa da un recipiente sul bancone, poi aveva detto: «Ascolta. Ho trovato questo in un libro di enigmi…»

    «Un libro di enigmi? Dovevo immaginare che avresti posseduto un testo sull’argomento.»

    «Naturalmente», aveva risposto Richard. «Comunque senti…»

    Filomena era tornata rapidamente dietro al bancone e aveva cominciato a preparare altre bevande. Dopo essersi interrotto per qualche istante, Richard aveva continuato: «Chi sono, se ti dico che o sto mentendo, o sono Tweedle-dee?»

    Filomena gli aveva lanciato un’occhiata attonita, poi se n’era andata rapidamente e silenziosamente com’era arrivata.

    «Ci prenderà per pazzi», aveva considerato Neri. «È da quando sono arrivato, che sente dire assurdità.»

    «Tutto normale, allora, no?»

    Era come se il locale avesse preso vita. Ormai tutti i tavolini dovevano essere occupati e l’andirivieni dal bar era continuo. In quel momento era tornata al bancone M.E.

    «Lei, signorina…» l’aveva apostrofata Richard. «Dimenticavo: come stiamo a mutande, oggi?»

    «Sempre nelle mie», aveva detto Neri. «E il peggio è che poi si scorda di ridarmele.»

    M.E. aveva smesso di darsi da fare con bottiglie e bicchieri. «Ti ho già spiegato mille volte quella faccenda», aveva protestato, ma Richard l’aveva interrotta: «Un momento, un momento! Sii ragionevole: vado a casa di un amico, busso alla porta e mi apri tu, che indossi una sua camicia ed un suo paio di mutande. Pensi che ci sia bisogno di spiegazioni? Sono abbastanza grande da capire da solo certe cose.»

    «Poi ne riparliamo», aveva fatto M.E., sistemando i bicchieri che aveva riempito in un vassoio e allontanandosi di nuovo, mentre Richard ridacchiava.

    Era un vecchio tormentone. Ciò che Richard aveva detto a proposito di M.E. che gli apriva la porta con indosso indumenti di Neri era vero, ma la ragione per cui era accaduto era ben diversa da quella che chiunque avrebbe potuto immaginare. La verità era che M.E. e Neri avevano un appuntamento e che lei, mentre aspettava per strada, era stata sorpresa da un nubifragio di fine estate. Così, quando era arrivato, Neri l’aveva portata a casa propria, dove lei aveva potuto fare una doccia calda. Poi, mentre i suoi vestiti si asciugavano, lei aveva indossato una camicia e un paio di pantaloncini boxer di Neri. Mentre questi si stava asciugando a sua volta, era arrivato Richard. Naturalmente M.E. gli aveva spiegato tutto, ma lui aveva sempre continuato a fingere di non credere a quella versione e a stuzzicarla per metterla in imbarazzo.

    Mentre M.E. si perdeva nella sala aveva fatto il suo ingresso un altro piccolo gruppo di persone. I tavolini dovevano essere davvero tutti occupati, perché due dei nuovi arrivati, un uomo e una donna, erano andati a sedersi sui due sgabelli rimasti liberi, dei quattro che si trovavano davanti al bancone del bar.

    3

    Neri e Richard avevano notato la donna. Era giovane, alta e vistosa. Vaporosi capelli biondi le incorniciavano il volto dagli zigomi alti, gli occhi scuri di taglio vagamente orientale, a mandorla, e il naso all'insù. Era ben vestita e il valore complessivo dei gioielli che portava doveva non essere indifferente ma, nonostante questo, ciò che aveva colpito Neri era stata la sua scarsa classe. Questione di particolari, forse il naso troppo all'insù per essere davvero grazioso, forse le labbra troppo piene per essere davvero sensuali, il trucco un po' troppo marcato o l'eccessivo assortimento di monili, ma l'impressione era che, pur essendo gradevole nell'aspetto e nei modi, quella ragazza non fosse realmente elegante.

    Il suo compagno era più alto di Neri, ma certamente meno di Richard. Aveva occhi e capelli scuri e un aspetto molto curato. Si era evidentemente rasato da non molto tempo ed era vestito con eleganza e ricercatezza, esattamente come ci si poteva aspettare che facesse un uomo che avesse un tratto altrettanto signorile. Entrambi avevano atteso con calma che qualcuno tornasse al bancone, parlando tra di loro a bassa voce.

    Nel giro di pochi secondi era arrivato a servirli il proprietario del Welcoming, un ometto con i baffi ed i capelli da bohemien.

    «Buonasera a tutti», aveva salutato. «Scusatemi se non sono arrivato prima.»

    Neri aveva risposto con un cenno a quel saluto, poi aveva domandato a Richard: «Allora? Com'era quella storia?»

    Richard aveva ripetuto: «O sto mentendo, o sono Tweedle-dee. Chi sono?»

    «Immagino che aiuterebbe, sapere chi diavolo sia Tweedle-dee», aveva fatto di rimando Neri.

    «Cos'è questa faccenda?» aveva domandato allora il proprietario del locale, mentre versava qualcosa in due bicchieri.

    «Un gioco. Un enigma», aveva spiegato Richard.

    «Ne ho uno nuovo fenomenale», aveva detto allora l'ometto. «Me lo sono ricordato apposta per voi.»

    «Sentiamo», aveva incoraggiato Richard.

    L'ometto aveva finito di servire i nuovi arrivati, prima di continuare.

    «Siete in un castello, chiusi in una sala», aveva premesso.

    «Interessante. Mi piace stare chiuso nei castelli», aveva fatto Neri.

    «Avete con voi una chiave, ma la porta della sala ha due serrature, delle quali solo una apre. L'altra aziona un meccanismo che apre una botola e vi fa precipitare nelle segrete. Quindi avete un solo tentativo a disposizione», l'omino a quel punto si era interrotto, per accertarsi che il suo uditorio avesse recepito completamente ciò che aveva detto, poi aveva continuato: «Nella sala, con voi, ci sono due folletti identici, ma solo uno dei due dice sempre la verità, l'altro dice sempre e solo il falso. Non potete distinguerli in nessun modo e potete fare una sola domanda, a uno solo dei due. Come fate ad uscire?»

    «C'è un limite di tempo, per rispondere?» aveva domandato l'uomo che si era seduto alla sinistra di Richard. Era evidente che il quesito aveva colpito anche lui. D'altra parte era normale, al locale, fare conoscenza in quel modo. L'atmosfera calda e rilassata aveva permesso altre volte che qualcuno intervenisse nella conversazione dei vicini di tavolo, che una battuta volasse da una parte all'altra della sala quando qualcuno rovesciava il bicchiere, che qualcuno si mettesse al pianoforte a strimpellare vecchie canzoni, tra le acclamazioni generali. Né era la prima volta che il terzetto formato da una delle ragazze del bar – M.E. – e da due suoi amici attirava su di sé l'attenzione di qualcuno, magari a causa di uno dei soliti, surreali scambi di battute.

    «No», aveva risposto il proprietario del Welcoming. «Si tratta solo di rispondere. Non le sembra abbastanza?»

    L'uomo aveva sorriso. In quel momento avevano fatto ritorno M.E. e Filomena. Evidentemente tutti i clienti erano stati serviti e ora ci sarebbe stata un po' di tranquillità, almeno fino a quando qualcuno non avesse finito di bere quel che aveva ordinato e avesse voluto fare un altro giro.

    «Ma è quella storia del castello e dei folletti?» aveva domandato Filomena al proprietario del locale. Senza attendere la risposta aveva soggiunto: «Mi sa che caschi male, con loro», e aveva scoccato un'occhiata assassina a Richard.

    Richard si era girato verso Neri: «Andiamo con ordine», aveva esordito.

    «Non sappiamo quale sia la serratura che apre, quindi mi sembra ovvio che dobbiamo cercare di capirlo chiedendolo ai folletti. Il problema, quindi, è trovare la domanda che possa garantirci la possibilità di uscire.»

    «Dove la difficoltà sta nel fatto che deve essere una sola domanda», aveva aggiunto Neri.

    «In compenso il quesito non è quale domanda ponete?, ma come fate ad uscire?. Evidentemente deve esserci una differenza». Richard aveva guardato il padrone del Welcoming, il quale aveva sorriso sotto i baffi ed aveva risposto: «Infatti.»

    «Quindi sappiamo che non solo dobbiamo porre una domanda, ma che dobbiamo regolarci di conseguenza. Cioè dobbiamo ottenere una risposta che ci permetta di fare qualcosa, dopo. Qualcosa che, ovviamente, non potrà essere aprire direttamente la porta, sulla base di quello che avremo saputo.»

    «Insomma la risposta implica qualche altra cosa», aveva concluso l'uomo seduto vicino a Richard.

    Bambini, aveva pensato Neri. Se qualcuno abituato a vederli di giorno, magari sul lavoro, fosse stato lì, probabilmente non avrebbe creduto né ai suoi occhi, né alle sue orecchie. Del resto, però, era normale e salutare che persone adulte, che di giorno dovevano comportarsi in maniera perfettamente normale, finalmente si rilassassero approfittando di trovarsi tra amici, davanti a un bicchiere, e dessero sfogo alla loro voglia di giocare. Il Welcoming poteva considerarsi una sorta di zona franca in cui la serietà poteva essere messa da parte e dove era possibile dedicarsi esclusivamente a tutto quello che poteva mettere di buon umore prima di tornare a casa e andarsene a letto. Neri aveva preso un'oliva e aveva nuovamente dedicato la sua attenzione a Richard che come al solito, quando si trattava di risolvere un giochino come quello, aveva cominciato a tenere banco.

    «Per cominciare non possiamo porre la domanda in forma diretta, chiedendo quale serratura è quella per aprire? o quale serratura è quella fasulla?: ovviamente ciascuno dei folletti ci risponderebbe a modo suo e, non sapendo a quale dei due avremmo posto la domanda, non sapremmo neanche se la risposta potrebbe essere attendibile o meno.»

    «E se ponessimo la domanda per via negativa?» aveva proposto l'uomo accanto a Richard.

    «Sarebbe la stessa cosa», era intervenuto Neri. «Chiedere quale non è la serratura buona? o quale non è la serratura fasulla?, se è questo che intende dire, equivarrebbe a porre le stesse domande di prima: qual è la serratura fasulla? o qual è la serratura buona?»

    «Un momento» era intervenuta M.E. «A me pare che lo scopo della domanda non dovrebbe essere tanto quello di appurare quale sia la serratura, quanto piuttosto quale dei folletti dica la verità.»

    «Si può provare», aveva ammesso Richard.

    «Allora: Chi di voi due è il veritiero?» aveva suggerito M.E.

    «Risposta: io» aveva concluso Neri.

    «Perché?» aveva domandato M.E..

    «Perché se poniamo la domanda al veritiero quello ovviamente indicherà se stesso; mentre se la poniamo al bugiardo, ugualmente quello, mentendo, indicherà se stesso.»

    «E quindi, inversamente, alla domanda chi di voi due mente?, la risposta sarà sempre: lui», aveva concluso Richard.

    «Perciò immagino che allo stesso risultato, ancora una volta, ci porterebbe il tentativo di porre le stesse domande in forma negativa», aveva detto allora l'uomo, dalla sua posizione un po' più distante, dopo aver bevuto un sorso dal suo bicchiere. «Cioè chi di voi due non è il bugiardo? e chi di voi due non è il veritiero?. Ricadremmo nella stessa situazione di prima.»

    «Ma allora?», aveva chiesto la sua compagna, seduta quasi all'estremità del bancone.

    «Penso che la soluzione stia nel porre un altro tipo di domanda», aveva detto Richard.

    «Abbiamo scartato la possibilità di cercare di sapere direttamente quale delle serrature apra la porta perché non sembrava possibile. Però anche il tentativo di sapere quale dei folletti dica la verità non ci porta da nessuna parte. Non solo non ci riusciamo ma, se anche potessimo farlo, avremmo bruciato la nostra unica domanda.»

    «E quindi sapremmo quale dei due folletti merita la nostra fiducia mentre invecchiamo nella sala, continuando a non sapere come uscirne», aveva concluso Neri.

    «E allora che domanda porresti?» aveva domandato Filomena.

    «Una domanda tale che la risposta dovrebbe necessariamente contenere sia l'indicazione della serratura, sia un indizio della sincerità o meno del folletto.»

    «Qualcosa come: Se tu fossi il veritiero, quale serratura mi indicheresti?» aveva proposto M.E..

    «Esattamente», aveva ammesso Richard. «Ma non proprio in questa forma. Se ponessimo la domanda in questi termini ricadremmo nella prima situazione cui abbiamo pensato. Se la facessimo al veritiero, ovviamente quello ci indicherebbe la serratura giusta, perché sarebbe quella che effettivamente ci indicherebbe essendo il veritiero, cioè se stesso. Ma se ponessimo la domanda al bugiardo, quello ci indicherebbe la serratura sbagliata, volendo farci credere che il veritiero ci avrebbe indicato quella.»

    «Capisco», aveva detto M.E. «Analogamente, se ponessimo la domanda: Se tu fossi il bugiardo, quale serratura mi indicheresti?, avremmo la situazione inversa, suppongo.»

    «Esatto. Rimarremmo al punto di partenza. Non solo non sapremmo quale dei folletti dice la verità, ma proprio per questo non sapremmo neanche quale serratura sarebbe quella giusta.»

    «Sei sicuro che c'è una soluzione?» aveva domandato M.E., sospettosa, al proprietario del locale.

    «Sì, c'è», le aveva garantito Richard. L'attenzione di tutti si era concentrata su di lui. Con calma, teatralmente, dopo aver mangiato un'altra oliva, Richard aveva dichiarato:

    «La domanda da porre è: Se tu fossi l'altro folletto, quale serratura mi indicheresti?»

    Mentre tutti lo guardavano con curiosità, Richard aveva aggiunto: «Avuta la risposta, qualunque serratura vi sia stata indicata, utilizzate l'altra.»

    I presenti si erano scambiati rapide occhiate, poi avevano rivolto la loro attenzione al proprietario del Welcoming, il quale aveva sorriso e aveva confermato:

    «Sì, è proprio così. Come hai capito?»

    «Non si sa mai, esattamente, come si arriva a risolvere problemi di questo genere», aveva risposto Richard. «Dipende da un'intuizione, suppongo, alla quale ci si avvicina attraverso approssimazioni successive. In questo caso mi avete aiutato tutti a trovare la strada.»

    «Un momento», aveva detto Filomena. «Perché la soluzione sarebbe quella che dici tu?»

    Richard si era rivolto a tutto il suo piccolo pubblico e aveva risposto: «Pensateci: se ponessimo la domanda al veritiero quello ci indicherebbe la serratura fasulla, perché sarebbe proprio quella che l'altro folletto, il bugiardo, ci indicherebbe. A sua volta il bugiardo, se gli ponessimo la stessa domanda, ci consiglierebbe di usare la serratura fasulla, volendo farci credere che il veritiero ci indicherebbe quella. Di conseguenza, ponendo questa domanda, sapremmo con certezza che la serratura che ci verrebbe indicata, da qualunque dei due folletti, sarebbe quella fasulla. Quindi dovremmo utilizzare l'altra. Il che soddisfa il presupposto di fare qualche altra cosa dopo aver ottenuto la risposta.»

    C'erano stati alcuni istanti di silenzio, rotti solo dall'uomo seduto accanto a Richard, che aveva detto: «Beh... Complimenti», dopodiché Neri si era lamentato: «Ho mal di testa, portatemi a casa.»

    M.E. gli aveva versato dell'altro Cubalibre e gli aveva detto: «To', prendi un po' di medicina.»

    «Come? Io mi mando il cervello in acqua per rispondere ai vostri quesiti assurdi e lui si prende il premio?», aveva protestato Richard.

    M.E. aveva riempito anche il suo bicchiere per la seconda volta. «Tieni, continua a mandarti il cervello in acqua», gli aveva detto.

    «E poi sei stato tu a cominciare con queste domande», lo aveva accusato Filomena.

    «Chi è Tuidoldì?» aveva chiesto.

    «Tuidoldì?» aveva cominciato Richard, ma Neri li aveva interrotti: «No, no, vi prego! Non ricominciamo.»

    «A proposito, perché dicevi che con loro cascavo male, quando ho tirato fuori il quiz?» aveva chiesto a Filomena il padrone del locale. «Gli avevi detto tu la soluzione?»

    «No, figurati, non la sapevo nemmeno. Ma sembra che ne abbiano già risolto uno simile, però vero», aveva risposto la ragazza. Poi, rivolgendosi a M.E., aveva domandato: «Com'era quella storia dei due fratelli e dello zio assassinato?»

    Neri aveva guardato Richard, poi M.E. «Gliel'hai raccontata?», le aveva chiesto.

    «Sì.»

    «Ma è vera?», aveva domandato ancora Filomena a Richard.

    «Certo che è vera», aveva confermato M.E..

    «Cos'è questa faccenda? Un altro quiz», era intervenuto il vicino di Richard.

    «No, si tratta di una

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