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Venere Ericina
Venere Ericina
Venere Ericina
E-book244 pagine2 ore

Venere Ericina

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Info su questo ebook

Annachiara ed Elena vivono entrambe ad Erice, una piccola cittadina siciliana situata su un monte. Cresciute insieme fin dalla tenera età, sono divenute nel tempo amiche per la pelle. Annachiara viene soprannominata “Venere Ericina” per la sua straordinaria bellezza, ma al contrario di molte compagne di classe, Elena non ne è gelosa. Inseparabili trascorrono le giornate a scuola e sempre insieme passano gran parte del tempo libero, confessandosi segreti adolescenziali che nessun altro deve sapere. Come quello dell’amore liceale scoppiato improvvisamente tra Annachiara Castelli e Daniel Woodrow. La ragazza parla all’amica di tutti i suoi timori, della paura di essere ingannata, delusa. E poi c’è un altro particolare che la turba profondamente, un sogno o meglio un incubo che continua a tormentarla. Venere Ericina è un romanzo dalla trama avvincente, una storia di amore e di amicizia che all’improvviso si colora di giallo per un episodio che sconvolge le vite della comunità di Erice, avvolta da un’atmosfera magica e senza tempo.

Concetta Amato è nata ad Alcamo (TP). Si è laureata presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Palermo, e ha poi ottenuto l’abilitazione all’esercizio della professione forense e all’insegnamento di discipline giuridiche ed economiche. Per alcuni anni ha collaborato con una casa editrice svolgendo indagini a sfondo sociale. In seguito ha vinto un concorso presso un ente pubblico e, attualmente, si dedica ad attività nell’ambito della promozione, internazionalizzazione e imprenditoria femminile. Ama profondamente la Sicilia e Palermo, dove vive con la famiglia. Il suo romanzo d’esordio, Venere Ericina, con la sola pubblicazione su una piattaforma online della sinossi e di alcuni brani, ha suscitato l’interesse e il gradimento del pubblico.
LinguaItaliano
Data di uscita5 lug 2018
ISBN9788856793079
Venere Ericina

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    Anteprima del libro

    Venere Ericina - Concetta Amato

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2018 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-9307-9

    I edizione elettronica giugno 2018

    Che il mio romanzo possa regalarti emozioni.

    Questo è il mio auspicio per te. Grazie

    Ognuno ha in sé inferno e paradiso.

    Oscar Wilde

    1

    Il Borgo degli dèi

    Annachiara ed Elena nacquero l’una un mese dopo l’altra nell’estate dell’ottantatré. Per diciotto inverni di fila respirarono la stessa aria fredda di Erice. Divennero amiche appena ebbero la possibilità di guardarsi negli occhi, si tesero la mano cercando di toccarsi prima ancora di parlare o di camminare. Il primo litigio per un leccalecca gigante e la prima foto appoggiate alla parete della Matrice dell’Assunta con le croci precristiane di marmo sopra la testa.

    Erice, un luogo protetto dalle nuvole in un’atmosfera senza tempo. Qui, il figlio di Afrodite, Erice, morì per mano di Ercole. Omero nell’Iliade narra che Venere con la sua cintura strinse la vetta del monte:

    Dalla vita sciolse la cintura, ricamata e variopinta, dov’erano racchiusi tutti gli incanti; vi erano amore, desiderio, dolci parole e la seduzione che rapisce la mente….

    Qui Venere volle allevare il suo riccioluto Cupido, nello stesso luogo dove Annachiara ed Elena crebbero facendo a gara a chi riuscisse a mangiare più biscotti, turtigliuna e mustazzoli, perdendosi nell’infinito rincorrersi tra le viuzze strette e tortuose, nelle salite, nelle ripidissime discese, sicure sulla pavimentazione fatta di scivolose pietre, quadrangoli ed esagoni bacianti.

    Conoscevano a naso ogni angolo di strada, ogni possibile ostacolo, si tuffavano nella nebbia fitta e ridevano a crepapelle quando stentavano a rincontrarsi.

    D’inverno a Erice faceva buio molto presto, dopo pranzo giocavano fuori, ad attenderle c’erano la libertà, il meglio della vita, le risate, le corse per raggiungere il castello abitato dai fantasmi, le passeggiate fino alla piazza del paese, fino alla casa di Marco proprio accanto al municipio o verso Porta Spada dove si incontravano i ragazzi. Poi facevano ritorno verso casa ma si attardavano a chiacchierare.

    Era allora che il magico silenzio veniva rotto da Anniiiiiiiiina, "Eliuuuuuuuuu’.

    Le rispettive nonne intonavano la ritirata all’unisono. Appena una di loro sentiva l’altra chiamare, attaccava subito con la controvoce creando una melodia altalenante. Le due voci erano perfettamente in sintonia, un perfetto duetto di soprani accompagnato dal quartetto d’archi del Maestro dei venti.

    Le loro case erano vicinissime, davanti ad una porta d’ingresso piccina piccina, in una traversina di via Scuravalle, due piccolissimi gradini di marmo.

    Annachiara Castelli stava lì con i suoi genitori. Una piccola casetta di cinquanta metri quadrati al piano terra e cinquanta metri quadrati al piano superiore adibito a zona notte.

    Il bagno era a piano terra, quando di notte scappava la pipì bisognava scendere giù cercando di non ruzzolare dalla ripida scala interna. L’arredamento era color ciliegio scuro modernissimo e minimale, niente suppellettili inutili, tutto in quella casa era funzionale: armadi, librerie, stereo, una televisione grandissima, comodi divani.

    L’unico vezzo era un’enorme tela che ritraeva un mare in tempesta, tante barchette mosse dalle onde del porticciolo e un pesce spada che faceva capolino indisturbato.

    La cornice era enorme, di legno scuro scolpito a rosoni, creata con l’intento di soggiogare qualsiasi dipinto.

    Cuncittina, la nonna materna, viveva accanto; la porta d’ingresso era ancora più piccola e dava accesso a una scaletta stretta di marmo che odorava sempre di detersivo e portava direttamente alla zona pranzo, il pavimento di mattonelle celesti e bianche con disegni geometrici e la cucina in muratura con piccole decorazioni celesti e arancio, gli stipetti con le tendine di stoffa al posto delle ante e le pentole di rame splendenti appese al muro.

    In fondo allo stanzone una porta di legno laccata bianca con un vetro colorato conduceva alla stanza da letto, enorme, arredata stile rococò, da cui si accedeva ad un minuscolo gabinetto con wc, lavandino, bidet e una vasca piccolissima.

    La vasca veniva usata raramente perché la casa era riscaldata solo da una stufa e Cuncittina nel lungo inverno sentiva freddo a spogliarsi tutta nuda, preferiva lavarsi a pezzi, per la schiena si aiutava con la spugna di mare e riusciva a raggiungere in modo approssimato il tutto. Al termine della pulizia di ogni singola parte c’era il rito della benedizione con il borotalco che sanciva l’igiene. Alla fine, dopo essersi vestita, prendeva una grossa bottiglietta di vetro e si concedeva una goccia di zagara.

    Tutte le tende erano di lindo lino bianco sfilato a mano con i bastoni in rame rosso scuro. Il balcone era stretto, per metà riempito da tante varietà di piantine grasse; l’altra metà restava libera per permettere di avvicinarsi alla ringhiera e ammirare la processione dei Misteri e quella di Maria SS. di Custonaci.

    La figlia Flora, mamma di Annachiara, insegnava lettere nella scuola media a Valderice, era un po’ con la testa fra le nuvole, la sua passione era la letteratura inglese, aveva modi garbati e parlava a bassa voce.

    Pierino, il papà, era il commercialista tutto fare della più grossa società edile del trapanese, aveva un gran vocione e scherzava sempre con metafore calcistiche, destinato in casa a ridere da solo visto che in famiglia era l’unico ad avere la passione per il calcio.

    Entrambi adoravano la loro unica figlioletta e cercavano di accontentarla sempre.

    Spesso e volentieri la nonna cucinava per tutti.

    Madre e nonna di Annachiara erano belle, biondissime.

    La bellezza faceva parte di loro, ma la bellezza è qualcosa di indefinito, soggettivo.

    A seconda di chi osserva, la bellezza può essere riconosciuta in donne appariscenti che per altri sono assolutamente volgari, oppure in donne nature che da altri vengono considerate sciatte. Ecco perché sulla bellezza si discute tantissimo, c’è chi la percepisce ovunque, chi la riesce a vedere eccezionalmente.

    Raramente prende forma la bellezza assoluta che viene riconosciuta da tutti perché non concede altra possibilità che la resa. Chi possiede tale bellezza ha in sé un potere infinito e spesso senza rendersene conto ferisce per il solo fatto di esistere.

    Tale bellezza era in Annachiara Castelli, bambina splendida dagli occhi color nocciola, grandissimi, folti capelli d’oro mossi come il mare in tempesta e due fossette sulle guance eteree. La bellezza era unita ad un carattere gioviale e brillante: rideva, saltava, cantava, emanava energia ovunque.

    La sua amichetta Elena Mistretta aveva gli occhi di un verde trasparente come i frammenti di vetro che si trovano in riva al mare, la carnagione rosea e un’immensa cascata di lunghi ricciolini neri.

    Viveva in un’abitazione antichissima.

    Sulla strada principale del paese, una piccola arcata di pietra bianca con una porta in legno scuro sempre aperta conduceva dentro un enorme baglio. Nessun ragazzino riusciva a resistere alla tentazione di giocare con l’antica barra di ferro di chiusura posta al centro del portone.

    Il cortile era quasi interamente lastricato con ciottoli grigiastri, tranne la parte centrale dove c’era un ampio spazio verde, alberi di alloro e di fico, un abete nano, un’altissima palma un po’ storta e un inconsueto albero, colorato da rami di limoni e rami di arance, che faceva ombra ad un antico pozzo.

    L’abitazione era enorme e girava tutto intorno al baglio quadrangolare, i rampicanti che si diramavano sui muri erano strade per i gechi, sui tetti grosse tegole rossastre.

    Davanti ad ognuna delle quattro porte, due frontali e due laterali, erano disposte delle antiche anfore stracolme di gerani lilla e, tra una porta e l’altra, sedili in pietra grezza.

    Un gattino dal pelo rosso adorava raggomitolarsi dentro una grande pianta di fiori gialli.

    Sui fili della luce elettrica una parata di uccellini dalla testina tonda, fermi, assorti a riflettere sul futuro meteorologico.

    Entrando, la casa aveva il tetto con le travi in legno e nel pavimento nessun tappeto aveva la presunzione di coprire le fiabesche maioliche antiche. Le mattonelle bianche racchiudevano foglioline e fiorellini celesti, barchette e pavoncelle.

    L’arredamento era superbo, salotti rivestiti di broccato di raso, cuscini di velluto di seta, tende in macramè, lampadari in cristallo rosso di Boemia.

    Nel salone per le feste c’erano vetrine piene zeppe di argenteria, poltrone e mobili tardo barocco, sulla parete più ampia una tela ritraeva una donna nuda con un grande fondoschiena.

    Quando qualcuno si fermava un po’ troppo ad ammirare le forme che parevano muoversi, la nonna di Elena ci teneva a precisare: «Non è una femmina nuda… è un Guttuso».

    Dentro la stanza di Elena veniva nascosto da occhi indiscreti il mobile più prezioso, uno scrittoio secretaire con pietre dure.

    Le pietre luccicanti e intense rapivano gli occhi… chi entrava non prestava attenzione alle meraviglie come il letto con il baldacchino, lo specchio ovale con la cornice dorata, la cassapanca spagnola, la toletta con le bottigliette dei profumi, il lampadario con gli angioletti, la tenda di velo bianca con le calate in velluto rosa, nella stanza c’era solamente un mobiluccio blu di lapislazzuli con striature d’oro e il bianco dell’opale e il rosa del quarzo si fondevano con il verde della malachite. Il secretaire dei sogni.

    Il papà di Elena, Gaspare, aveva in via Vittorio Emanuele il più grande e famoso negozio di ceramiche con un retrostante laboratorio dove creava vasi, piatti, tazze, centrotavola, mattonelle, tutto ciò che il guizzo creativo gli suggeriva.

    A volte impartiva lezioni a ragazzi apprendisti che venivano da tutta la Sicilia per seguire i suoi corsi di formazione.

    Era uno dei tanti primi giorni di lezione.

    Gaspare: «Perché volete lavorare qui?».

    Allievo: «Per rubargli il mestiere, maestro».

    Tutti a ridere.

    Gaspare: «Ragazzi, potete imparare la tecnica, l’arte non si può rubare. Osservate come si lavora la terracotta, la ceramica, vi potrà essere utile. Se volete fare un busto, una grande opera, dovete fare prima un bozzetto, se invece volete creare un semplice vaso non dovete impegnare troppa energia nel pensare quale forma dovrà avere, quali dimensioni, quali colori, vi stanchereste inutilmente. Dovete rilassarvi, quando il vaso si plasmerà dovete immergere i pennelli nei colori d’istinto senza ragionare e posare il pennello dove esso vorrà andare. Potreste voi riuscire a mettere il collare ad una pantera e portarla a passeggio? L’estro è la vostra pantera che esige libertà».

    Un allievo: «Maestro, lei dipinge fiori che io non ho mai visto così».

    Gaspare: «Così belli o così brutti?».

    Allievo: «Diversi da quelli veri».

    Gaspare: «Tutto ciò che pensi, può essere qualche cosa di bello o di brutto, esiste perché lo hai pensato. Non mettere limiti alla tua mente, dimentica tutto ciò che ti hanno insegnato, non vedere in me un folle artista o un umile artigiano perché gli altri mi hanno etichettato in un certo modo, vedi in me ciò che vuoi. Non devi dipingere fiori belli ma i fiori che la pantera vuole, rinasci di nuovo… fai rinascere intorno a te un nuovo universo!».

    Si trovava a passare Antonio, l’anziano suocero che si era fermato giusto appunto per ascoltare esterrefatto e gesticolando:

    «Tutte stupidaggini, tu sei rinato con i soldi della mia cava di marmo, se non fosse stato per me altro che artista!».

    Nell’imbarazzo generale, il genero fece finta di non sentire continuando con calma:

    «Non dovete rincorrere il vile denaro perché altrimenti diventerete dei mercenari, dei meri esecutori di ciò che è commerciale, fa vendere e incassare con facilità».

    Antonio, sentitosi ignorato, decise di intervenire in modo più incisivo:

    «Picciotti, non ascoltatelo, che vi rovina il cervello, anzi, fate proprio il contrario di ciò che dice».

    Allievo: «Maestro, anche mio padre la pensa così ma io voglio sognare e credere di poter fare il lavoro che mi piace».

    Gaspare: «Bravo, Bravo, Bravissimo! Chi smette di sognare smette di vivere».

    Antonio: «Sì, sì, continua a rovinare questi bravi picciotti riempiendo loro la testa di cavolate, diventate tutti degli artisti come mio genero, poi, quando vostra moglie vi dice che cosa mangiamo oggi, voi risponderete "Fai bollire l’acqua nella pentola e ci cali i sogni". Parliamoci chiaro, con questo lavoro, se non trovate un suocero come a mia che lavora seriamente e guadagna pure per voi finirete a fare la fame».

    Gaspare: «Caro suocero, ora che mi ha per l’ennesima volta rinfacciato il generoso sostegno economico all’inizio della mia impresa…».

    Antonio: «All’inizio? All’inizio di ogni santo giorno».

    Gaspare: «E mortificato davanti ai miei allievi, la invito ad allontanarsi per utilizzare il suo preziosissimo tempo in attività più redditizie».

    Antonio diede un colpo di spalla per scrollarsi di dosso le stupidaggini del genero e si allontanò a braccetto con la nipote Marzia nel frattempo arrivata, la sorella di Elena che aveva appena diciotto anni e già collaborava con il nonno nell’amministrare la cava e l’impresa di lavorazione del perlato.

    Marzia: «Ciao papi, vado con il nonnino».

    Gaspare: «Te lo raccomando».

    Marzia era nove anni più grande di Elena, aveva capelli lunghi lisci e neri, labbra carnose, occhi stretti e allungati, seno e fianchi prorompenti. Camminava ancheggiando.

    Antonio: «Devi cadere con questi tacchi?».

    Marzia: «Nonno, sono femmina, non te lo dimenticare».

    Antonio: «Come potrei scordarmelo, tesoro, sei una ragazza, ma le femmine troppo alte fanno venire il torcicollo».

    Marzia: «Nonnino, l’altezza è un tuo personale problema, non generalizzare, ai maschi può venire il torcicollo perché quando passo si sentono in diritto di farmi l’ecografia al sedere».

    Antonio: «Chi sono questi mascalzoni? Alla cava?».

    Marzia: «È un modo di dire».

    Antonio: «Mi pareva più un modo di fare».

    Nonno e nipote si adoravano, si punzecchiavano all’infinito, litigavano, poi si abbracciavano, insieme non si annoiavano mai.

    Marzia odiava scervellarsi sui libri tanto quanto dilettarsi in pupi di ceramica, preferiva lavorare insieme al nonno. Amava usare la calcolatrice, dare ordini, partire per l’estero, partecipare alle riunioni d’affari immergendo il più possibile il naso nel profumo del denaro.

    Il nonno per incoraggiarla la lasciava fare, quando l’inesperienza unita con la testardaggine la bloccavano in una assurda convinzione, pubblicamente gliela dava vinta, poi impartiva ordini diversi.

    Sapeva che non era giusto e prima o poi avrebbe dovuto cambiare atteggiamento, ma aspettava di esser certo che Marzia fosse innamorata persa del marmo. Ancora pareva esserne soltanto invaghita, quando il flirt giovanile sarebbe diventato un amore viscerale prendendo possesso della sua anima, a quel punto avrebbe potuto trattarla alla pari.

    Marzia, pensava con soddisfazione Antonio, era nata imprenditrice, determinata, lucida, con l’obiettivo di ricavare lauti profitti, al contrario degli altri componenti della sua famiglia che preferivano aiutare il genero artista – si sentiva ribollire il sangue nelle vene quando pensava al genero; e poi, altra delusione, sua figlia Maria non solo gli aveva portato l’artista in casa, lo aiutava pure, si occupava

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