Belladonna. I Delitti Di Villa Rosa
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Anteprima del libro
Belladonna. I Delitti Di Villa Rosa - Pompeo Esposito
633/1941.
Una tranquilla località
Borgo Floreale è un piccolo centro non molto distante da Roma, caratterizzato dalla particolare morfologia del suo territorio.
Nella parte più bassa e pianeggiante, in piccole abitazioni accalcate lungo le sponde del lago Carpione, vivono famiglie di contadini, perlopiù i componenti sono anziani.
Un baretto è il principale luogo di incontro degli uomini che, terminate le fatiche giornaliere, si ritrovano prima del calar della sera a giocare a briscola e a bere del buon vino locale. Le donne lavorano nei campi alla mattina e, dall’ora di pranzo sino a tarda sera, si occupano delle faccende domestiche.
Si tratta di gente umile, lavoratori indefessi, sempre distanti da tutto ciò che accade al di fuori della propria località.
Dalla zona del lago, salendo per una serie di tornanti, si giunge alla parte di mezzo del borgo. Quest’area, alle pendici della montagna, un tempo caratterizzata da distese di terreno incolto, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale venne acquistata da sei rinomate famiglie, per costruirvi splendide ville destinate ai soggiorni estivi.
Il primo proprietario di una di queste abitazioni, Villa Rosa, fu il medico Rodrigo Ronfanti, professionista apprezzato e uomo conosciuto, in quanto membro di una famiglia dell’alta società romana.
Alla sua morte, la proprietà venne ereditata dal figlio Goffredo, anch’egli medico.
A ognuna delle ville venne assegnato un nome, ben visibile sulle targhette esterne, in base alla tipologia di fiore che ornava e continua a ornare la gran parte dei rispettivi giardini.
Nel lasso di tempo che va dall’autunno alla primavera, le abitazioni restano chiuse e la folta vegetazione crea, per effetto dei differenti colori, sei piccoli boschetti uniti l’uno all’altro.
Un’immagine ben visibile se ripresa dall’alto o alzando lo sguardo, dalla zona pianeggiante del lago.
In cima al monte Latebra, il punto più alto di Borgo Floreale, si trova il monastero delle suore di clausura, una struttura dalla forma rettangolare, fatta di tante piccole cellette nella parte superiore, da finestre più grandi nella parte centrale e da un possente portone d’ingresso nella parte più bassa.
In questo posto isolato vivono una madre superiora e dieci giovani suore.
Le loro giornate, scandite dalla ripetitività delle azioni, iniziano con le preghiere delle 5.00 del mattino, proseguono dalle 9.00 sino a mezzogiorno con lavori alternati a momenti dedicati a canti religiosi e, dopo interi pomeriggi di preghiera, si concludono alle 21.00 con il silenzio assoluto. Le suore non escono mai dal monastero ma, su appuntamento, accolgono uomini e donne bisognosi di aiuto.
Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che questo luogo, sconosciuto ai molti, adombrato da una fitta vegetazione, a breve sarebbe divenuto teatro di una intricata vicenda di cronaca nera.
Borgo Floreale, giugno 2008
La cantina della storica Villa Rosa, un tempo spazio di lavoro dei domestici al servizio della famiglia Ronfanti, si presentava buia e polverosa. Nelle ultime tre notti che precedevano l’inizio dell'estate, in un’atmosfera quieta, scandita dai canti melodiosi delle capinere che svolazzavano tra i cespugli e gli alberi, una misteriosa presenza si addentrò furtivamente nel locale sotterraneo dopo aver forzato con una zappa la finestrella rettangolare posta sul retro dell’abitazione.
Indossava una tuta nera con cappuccio e dei guanti bianchi, sulle spalle portava uno zaino rigonfio di rose. L’incappucciato raggiunse a passo agile il tavolo posto al centro della stanza, nonostante portasse ai piedi due pesanti scarponi da montagna. Con uno strofinaccio pulì la superficie del piano e posizionò ai lati dello stesso quattro candele bianche, per dar luce all'ambiente. Si sfilò lo zaino, lo svuotò e iniziò a togliere i petali dalla corolla, per poi spennellarli servendosi di un pennellino. In un secondo momento accese, con alcune cannucce e con foglie secche, un fuocherello all’interno di un caminetto che si trovava in un angolo della stanza. Creò una base con dei mattoni e vi pose un pentolone ricolmo di acqua. Quando il liquido raggiunse l’ebollizione, spense il fuoco, attese per circa dieci minuti e poi immerse i petali. L’intruso, con la stessa agilità con cui si era introdotto, scavalcò la finestrella e a passo veloce si inoltrò nel sentiero della montagna.
Il suo lavoro proseguì la notte successiva. Si occupò di strizzare i petali e di filtrare l’infuso, per poi metterlo nuovamente sul fuoco, aggiungendo dello zucchero e una buccia di limone. Una volta raffreddato versò il liquido in una brocca, la coprì con un telo e se ne andò. Durante la terza notte, posizionò sulla superficie liscia del tavolo tre bottigliette di vetro e vi versò il composto, servendosi di un imbuto e di un foglio di garza per filtrare. Riempì una quarta bottiglietta con un succo ottenuto dalla spremitura di bacche, fiori e radici di una pianta di belladonna.
Ripose le tre bottiglie, sigillate con tappi di sughero, nell’angolo più fresco della cantina, mentre la quarta la infilò nel suo zaino. Dopo aver preso tutta la sua roba, uscì dall’abitazione, si allontanò a passo spedito e scomparve tra la fitta boscaglia.
Le bottiglie rimaste nella cantina contenevano uno sciroppo alle rose, una bevanda che, in tempi passati, la moglie del signor Rodrigo Ronfanti, primo proprietario della villa, preparava nei pomeriggi estivi per i suoi familiari e per l’intero personale al suo servizio.
Un’usanza portata avanti da Ludovica, moglie del figlio Goffredo, che si interruppe bruscamente nell’estate del 1988 a seguito di un increscioso avvenimento.
Gli scomparsi
La mattina del 25 giugno, l’ispettore Panzana si recò al XVI distretto molto presto. Faceva caldo e in commissariato non c’era nessuno. Trascinò la sedia della sua scrivania fino a una finestra spalancata e dopo aver spento, in un posacenere di legno e metallo, il suo sigaro Montecristo No. 2, iniziò a leggere un quotidiano.
Quel filo di aria calda che entrava nella stanza e sfiorava il suo volto non faceva altro che aumentare la sua sudorazione. Immerso nella lettura, si rese conto della cosa nel momento in cui dalla sua fronte iniziarono a scendere gocce di sudore che, in pochi istanti, bagnarono il foglio e si mischiarono con l’inchiostro, rendendo illeggibili alcune righe.
Si alzò in piedi, con la camicia appiccicata al petto e alla parte bassa della schiena, e si sporse dalla finestra.
Sulla strada, a senso unico di marcia, un camioncino della frutta procedeva a rilento e l’assordante silenzio venne spezzato dalla voce amplificata dell’ambulante che iniziò a elencare, con un sottofondo musicale, la lista della merce che vendeva.
Sul marciapiede vide un agente del suo reparto camminare a passo spedito in direzione del commissariato e, una trentina di metri dietro, una donna dai capelli rossi che teneva per mano una bambina.
L’agente, giunto in sede, entrò nel suo ufficio.
«Buongiorno ispettore, sono appena le 8.00 e lei è già a lavoro?»
«Sì, Vitiello… stamattina ho fatto presto.»
«Ispettore, ci beviamo un caffè speciale?»
Panzana, che gradiva il famoso caffè preparato dall’agente campano, esclamò:
«Solo se utilizzi la caffettiera napoletana.»
Aniello Vitiello sorrise e in dialetto campano rispose:
«Certamente! Preparo ’a cuccumella e vi porto ’na bella tazzulella ’e cafè!»
«Prepara ’sta cuccumella, allora!» concluse l’ispettore.
Quando Vitiello uscì dal suo ufficio, suonò il campanello.
L’ispettore aprì la porta e si trovò di fronte la donna dai capelli rossi e la bambina che aveva visto dalla finestra.
«Buongiorno signora, sono l’ispettore Panzana, cosa posso fare per lei?»
«Sono la signora De Angelis e questa è mia figlia Giulia… Siamo qui per denunciare la scomparsa di mio figlio Leone.»
Panzana le fece accomodare nel suo ufficio e lasciò la parola alla donna.
«Ieri sera mio figlio è uscito di casa e non è ancora rientrato.»
L’ispettore le fece presente che erano passate poche ore per poter parlare di scomparsa o allontanamento volontario e, dopo aver tentato di rincuorarla, le domandò:
«Senta, è la prima volta che suo figlio passa la notte fuori casa?»
La De Angelis, con gli occhi intrisi di lacrime, rispose:
«Sì, Leone esce tutte le sere e rincasa al massimo alle 2.00 del mattino. Le rare volte che si è fermato a dormire da amici mi ha sempre avvisato in anticipo.»
«Prima di uscire non le ha detto nulla?»
La signora, scrollando ripetutamente le spalle, continuò:
«Non mi ha detto niente! So solo che è venuto a prenderlo il suo amico Brando Russo.»
«Ha provato a contattare questo amico?» domandò Panzana.
«Sì, ma non risponde!»
Nel frattempo arrivò Vitiello, poggiò sulla scrivania un vassoio con due tazzine e dalle tasca tolse una manciata di caramelle:
«Queste sono per la piccola. Il caffè per i signori.»
Giulia, dopo il cenno di approvazione della madre, allungò il braccio e ne prese una.
Panzana sorseggiava il caffè e, con l’altra mano, componeva il numero di Russo che la signora gli stava dettando.
Dopo una decina di squilli a vuoto, dall’altro capo del telefono il ragazzo con voce assonnata rispose:
«Pronto, pronto…»
«Brando Russo?»
«Sì… chi disturba a quest’ora?»
«Sono l’ispettore Panzana, del XVI distretto di polizia, devo farle un paio di domande.»
«Che domande? Ispettore, è sicuro di non aver sbagliato persona?»
«Se lei è Brando Russo, non ho sbagliato un bel niente!» esclamò Panzana.
«Sì, sono io… mi dica.»
Il poliziotto mise in vivavoce e chiese notizie di Leone De Angelis, mentre la madre e la sorellina del presunto scomparso ascoltavano con attenzione.
Brando riportò una versione completamente diversa rispetto a quella della De Angelis.
Alla domanda se avesse trascorso la serata precedente assieme al suo amico Leone, rispose così:
«Ieri sera non ho visto né sentito Leone, ho trascorso l’intera serata in compagnia di una ragazza. Se vuole le dico anche il nome.»
La signora, sentendo le menzogne, iniziò a inveire contro di lui:
«Bugiardo, cos’hai da nascondere? Ieri sera,