E anche più lontano
Di Laura Salvai
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Anteprima del libro
E anche più lontano - Laura Salvai
Tavola dei Contenuti (TOC)
prima parte
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
seconda parte
1
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10
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12
13
14
15
golem / romanzo
©
2018
Miraggi Edizioni
via Mazzini
46
,
10123
Torino
www.miraggiedizioni.it
Progetto grafico Miraggi
Finito di stampare a Città di Castello
nel mese di febbraio
2018
da CDC Artigrafiche
per conto di Miraggi Edizioni
su carta Book Cream Avorio
80
gr
Edizione cartacea: febbraio
2018
isbn 978-88-99815-56-1
Edizione digitale: marzo
2018
isbn 978-88-99815-95-0
laura salvai
E anche più lontano
Alle mie sorelle e ai miei fratelli
Di aria buona ne abbiamo presa anche troppa, cavolo. Ora vogliamo vivere.
(Edna O’Brien, Ragazze di campagna)
prima parte
1
Appena mi ha avvistata tra la folla che si pigiava in via Garibaldi per gli acquisti di Natale, Valeria si è messa a gesticolare e ha urlato il mio nome. Non ce n’era bisogno, l’avevo riconosciuta da lontano: portava una giacca gialla e mi aspettava davanti al cinema Charlie Chaplin, esattamente come aveva detto al telefono.
«Anna Morra!» ha esclamato, stringendomi forte con le sue braccia sottili.
Mi sono scostata di un passo per guardarla. Era ancora molto magra: le gambe erano esili e lunghe come trampoli, le mani ossute, il corpo prosciugato sotto gli indumenti invernali, ma le guance avevano un bel colorito acceso e gli occhi scuri scintillavano di vita.
«Sono contenta di vedere che stai bene» ho detto con sollievo.
Ha risposto con uno sbuffo delle labbra e un’alzata di spalle, come se non le importasse. Ricordavo che a quattordici anni aveva un fisico da campionessa di ginnastica e due belle tette che le invidiavo sinceramente. Poi, di colpo, aveva deciso di smettere di mangiare. Riusciva a stare senza cibo per settimane intere; qualche volta mangiava una mela, poi correva in bagno a vomitarla. Tutti si aspettavano che avrebbe finito per cedere: un panino, una fetta di torta, un piatto di lasagne. E invece no, lei andava dritta per la sua strada. Aveva fame, ma non si arrendeva. Si era iscritta a una scuola per educatori e affrontava lezioni e tirocini senza niente nello stomaco, con la sola forza dei nervi. Ero ammirata dalla sua tenacia e spaventata da quella volontà inflessibile che la spingeva a diventare sempre più leggera, quasi volesse scomparire.
A un certo punto avevo perso le sue tracce. I suoi genitori avevano traslocato e lei era andata a vivere per conto suo. Non avevo né un indirizzo né un numero di telefono a cui chiamarla. Temevo che un giorno o l’altro mi sarebbe arrivata la notizia che era morta. E invece eccola lì, magra ma viva. Non osavo chiederle come ne fosse uscita. Sembrava indelicato sollevare l’argomento per strada, e lei non smetteva di fare domande. Voleva sapere di me, dei miei fratelli, dei miei studi.
Ferme davanti al cinema, parlavamo in fretta sovrapponendo le voci, come se in pochi minuti volessimo colmare il tempo trascorso dall’ultima volta che ci eravamo viste. La folla ci scorreva intorno, scansandoci e urtandoci con borse e pacchetti.
«Andiamo via di qui» ho detto. «C’è troppa gente.»
Valeria ha annuito, ricordando d’un tratto il motivo di quell’appuntamento: «Sì, voglio mostrarti subito la casa.»
Mi ha presa per il gomito e ci siamo incamminate insieme verso piazza Statuto. Ero impaziente di vedere dove mi avrebbe portata.
La domenica precedente mi aveva chiamata all’ora di cena, dopo due anni che non la sentivo. Eravamo tutti a tavola: mio padre accanto al televisore, mia madre di fianco ai fornelli, e noi che facevamo un baccano d’inferno. Siamo in sei, quattro femmine e due maschi, e parliamo tutti a voce troppo alta. L’unico che non dice una parola è mio padre, ma in compenso mette la tivù a tutto volume per sentire il telegiornale. Se squilla il telefono nell’ingresso, il più delle volte nessuno se ne accorge. Quella sera però l’avevo sentito. Ero andata io a rispondere.
«Pronto?»
«Vorrei parlare con Anna.»
«Sono io.»
«Anna! Sono Valeria, ti ricordi di me?»
Era stata lei a trovarmi, alla fine. Mi aveva detto che da due anni lavorava in una comunità per minori ed era costretta a vivere lì notte e giorno, compresi i turni di riposo, perché non aveva nessun posto dove andare. Così aveva comprato una casa e poi aveva pensato a me. Si ricordava che una volta le avevo detto che aspettavo solo l’occasione giusta per trasferirmi in città; era passato molto tempo da allora, però non l’aveva dimenticato e mi proponeva di andare a vivere con lei. Non voleva che pagassi l’affitto, solo che l’aiutassi a sistemare la casa. Per questo ci eravamo incontrate in via Garibaldi.
«Di qua» ha detto Valeria svoltando a destra.
Ho letto il nome sulla targa: via Piave. All’angolo c’era un palazzo malandato con quattro o cinque marocchini in ciabatte sul marciapiede. Valeria si è stretta nelle spalle, come a esprimere il suo dispiacere per le pessime condizioni abitative degli immigrati. Ci siamo fermate davanti allo stabile successivo, che non sembrava messo meglio. Il portone dava su un androne scuro che si apriva su un piccolo cortile occupato in parte da un edificio basso. Le scale puzzavano di olio rancido, di piscio di gatto e di muffa. Su un pilastro spiccava un cartello con la scritta: «Vietato giocare a pallone e fare schiamazzi».
Siamo salite al primo piano. Al fondo del lungo ballatoio Valeria ha detto: «È qui», e ha tirato fuori una chiave dalla tasca della giacca. La porta si è aperta di fronte a noi con un lamento, lasciando intravedere una stanza piccola, buia, divisa a metà da un tramezzo in muratura, con un lavandino di cemento in un angolo. Ho vacillato sulla soglia come se mi avessero sparato. Non che mi aspettassi una reggia, ma quello che mi stava di fronte era esattamente ciò che si definisce una topaia. Ho immaginato la faccia di quel volpone di agente immobiliare che era riuscito a rifilarla a Valeria.
Siamo entrate. Faceva freddo e c’era una puzza strana, di chiuso e di vestiti smessi. Dalle due porte che si affacciavano sul ballatoio non filtrava neppure un raggio di luce, anche se era una mattina di sole. Le pareti erano rivestite di carta da parati beige che si scollava da tutte le parti. Ho provato a strapparne un pezzo e ho visto che sotto ce n’erano almeno altri due strati. «Preparati al peggio» ho detto a Valeria. C’era carta da parati anche sul soffitto. Ma lei era contenta come una pasqua: saltava di qua e di là indicando dove sarebbero andati i letti, il tavolo e la stufa, come se ci trovassimo a Villa Borghese e non ci fosse altro da fare che scegliere l’arredamento. Mi ha portata sul ballatoio per vedere il bagno: dietro una porta di legno chiusa con un gancio, in una nicchia scavata nel muro, c’era un water incrostato di sporcizia. Ho tirato la catena: lo scarico, se non altro, funzionava.
«Che te ne pare?» ha chiesto Valeria con un sorriso raggiante.
Che potevo dire? Ero disorientata. Tutto quello squallore mi aveva messo addosso una voglia matta di rifugiarmi in un posto caldo e ben illuminato.
«Andiamo al bar, ti va?» ho supplicato.
Ci siamo sedute in un bar di via Garibaldi e abbiamo ordinato due caffè. Valeria mi spiegava per filo e per segno come avrebbe voluto sistemare la «casa», e io la ascoltavo come ipnotizzata, reggendomi il viso tra le mani per non crollare con la faccia sul tavolino.
«Dipingeremo di bianco le pareti, e di rosso gli infissi. Poi faremo una tenda a righe bianche e rosse, e i copriletto rossi» diceva, tracciando ampi gesti nell’aria con le dita lunghe e magre. Io mi immaginavo tutto quel rosso stipato in poco più di venti metri quadrati di stanza e già mi girava la testa. Ma non era quello il punto. Fra tutte le cose che mi premeva definire, una mi sembrava assolutamente inderogabile: chi ci avrebbe aiutate a fare i lavori? Ho pensato ai tre strati di carta da parati e ho pregato che non fosse necessario rifare l’intonaco; l’impianto elettrico, tanto per cominciare, era defunto: avevo visto i fili penzolare lungo i muri.
«Oh, gli amici della comunità ci aiuteranno. Hanno promesso tutti di venire» ha detto Valeria con noncuranza, senza preoccuparsi di approfondire chi fossero questi «amici della comunità» e cosa sapessero fare. Abbiamo scritto su un tovagliolo di carta le cose essenziali da acquistare: un lavello, una stufa a metano e un boiler a gas. Valeria è saltata in piedi: «Andiamo a comprarli subito». Io ero al verde, ma lei ha detto: «Non ci pensare. Tu metti la forza lavoro, come d’accordo».
«Ohimè» ho gemuto, in preda a un brutto presentimento. I guai si ammassavano all’orizzonte come una perturbazione in arrivo.
«Che fai? Vieni?» ha chiesto Valeria, con la giacca già allacciata fino al mento.
Sono rimasta seduta, con i gomiti appoggiati al tavolino, e l’ho guardata senza rispondere. Mi chiedevo se non fosse meglio rinunciare subito, prima che quella stamberga da sistemare cominciasse a divorare il mio tempo e le mie energie. Ci sarebbero voluti mesi di lavoro e chissà quanta fatica per renderla abitabile. E poi non c’era neanche il bagno, soltanto un cesso gelido sul ballatoio.
Ho pensato che non ero costretta ad accettare; potevo ancora dire di no. Non ero obbligata per niente. Sarei rimasta con la mia famiglia in attesa che si presentasse un’occasione migliore. Valeria avrebbe capito. Mentre lo ripetevo a me stessa vedevo scorrere le immagini del paese in cui ero cresciuta: le case rannicchiate intorno alla chiesa, la campagna punteggiata di cascine, il lungo viale di tigli davanti alla scuola, la piccola biblioteca pubblica con i pochi libri che avevo già letto e riletto.
«Allora?» ha domandato Valeria, ticchettando con un piede sul pavimento.
Mi sono alzata in piedi. «Andiamo» ho detto. Di colpo, non so come, ho capito che per nessuna ragione al mondo mi sarei tirata indietro; volevo vedere come andava a finire.
2
«Mi trasferisco a Torino» ho annunciato quella stessa sera alla famiglia riunita per la cena. Mi tremava la voce. Tutti si sono zittiti di colpo, tranne la tivù. I miei fratelli si sono voltati a guardarmi con curiosità mista a spavento. Mio padre, che stava sbucciando una mela, ha alzato uno dei suoi sopraccigli cespugliosi. Ma è stata mia madre a parlare: «Come sarebbe a dire?» ha domandato in tono secco.
Ho raccontato dell’incontro con Valeria e della casa sul ballatoio. Nessuno fiatava. Io tenevo d’occhio mio padre. È l’uomo più silenzioso del mondo, ma a volte si arrabbia in modo mostruoso per una cosa da niente. I suoi scoppi di collera sono memorabili. Mia sorella Elisabetta una volta ha scritto in un tema: «Mi piace la mia famiglia, però ho paura di mio papà quando va fuori di testa». Chissà che cosa avrà pensato la maestra.
Aspettavo la sfuriata, ma mio padre non ha detto niente. Ha ripreso a pelare la mela nel solito modo, facendo una spirale continua con la buccia. Mia madre si è alzata, è andata davanti al lavello e si è messa a sbattere pentole e coperchi.
«E come ti manterrai?» ha chiesto dopo un po’.
Bel colpo
ho pensato. Secondo la legge non scritta di casa nostra, dopo la scuola dell’obbligo tutti sono tenuti a contribuire al bilancio familiare. Qualche anno prima mio padre era stato messo in cassa integrazione a zero ore. Era stato