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Il passato remoto
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E-book224 pagine2 ore

Il passato remoto

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Info su questo ebook

La narrazione segue i sette anni vissuti nella grande casa all’ultimo piano di palazzo Pamphilj, in piazza Navona a Roma. I ricordi di bambina (dai due agli otto anni) si intrecciano con aneddoti di vita familiare e con descrizioni di una Roma scomparsa. Si è voluto fissare il ricordo di oggetti dimenticati (ad esempio la penna con il pennino e la carta assorbente), le abitudini di vita di quegli anni, i mestieri e le botteghe del centro, odori e sapori che non esistono più. Il testo è completato da immagini tratte dall’archivio di famiglia, da foto recenti e da immagini tratte da siti pubblici.

AUTORE

Maria Letizia Putti, laureata in Archeologia e Topografia medioevale all’università “La Sapienza” di Roma, per due anni scrittrice di testi radiofonici per la RAI, insegnante di scuola superiore, oggi lavora nella biblioteca di un Ente di ricerca. Si occupa del settore periodici e di un prezioso fondo di libri antichi di carattere scientifico. Dopo molti scritti tecnici, ha pubblicato il romanzo Un uomo tranquillo. Il passato remoto è il suo primo romanzo di carattere autobiografico.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2016
ISBN9788899394523
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    Il passato remoto - Maria Letizia Putti

    Maria Letizia Putti

    Il passato remoto

    EDIZIONI EVE

    Maria Letizia Putti

    Il passato remoto

    Edizioni Eve

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    Edizioni Eve è un marchio editoriale

    Di Editrice GDS

    www.edizionieve.it

    Maria Letizia Putti

    Il passato remoto

    piazza Navona, 1954-1960

    1. Felix Benoist (1818-1896) Rome dans sa grandeur, vues, monuments anciens et modernes: description, histoire, institutions. Dessins d'apres nature par Philippe Benoist et Felix Benoist; texte par Franz De Champagny... Paris, Henri Charpentier, 1865-1870.

    Place Navone inondée pendant les Dimanches et Fêtes du mois d’Août – Piazza Navona col suo lago nelle Domeniche e le Feste del mese d’Agosto (1870).

    [stampa, proprietà Putti]

    Prefazione

    I ricordi fanno parte di ognuno di noi, ci accompagnano silenziosi tanto che per la maggior parte dell’esistenza non ci accorgiamo di loro.

    All’improvviso un particolare, una frase pronunciata da qualcuno, un odore, un sapore li fanno tornare presenti, il pensiero li recupera, la memoria richiama dal passato vicende che sembravano ridotte in polvere dal tempo.

    Due anni fa, durante una serata tra amici, nel raccontare un episodio accaduto quando ero bambina mi sorpresi per il gran numero di dettagli che tornavano alla memoria. Chi mi ascoltava si stupiva di quel modo di vivere, non conosceva gli oggetti di cui stavo parlando perché non esistevano più; mi resi che stava ritornando alla luce un patrimonio scomparso, forse avrei dovuto fare qualcosa per non perderlo in modo definitivo, non volevo che quanto riaffiorato dalla nebbia degli anni scomparisse di nuovo e mi sono chiesta come fare.

    Di conseguenza, con la volontà di far rivivere quel passato, ho ricercato le vecchie foto, anche queste dimenticate, in disordine, insieme a tante altre scattate nel corso degli anni; riguardandole con attenzione, quasi con uno sguardo nuovo, ho recuperato un buon numero di informazioni, ho riscoperto dettagli che il ricordo ha colorato, profumato, rimesso in movimento. Non compongo canzoni o poesie, non so dipingere, l’unico strumento che mi è familiare e che posso usare per trasmettere questo patrimonio perduto e ritrovato è la scrittura.

    Sul palcoscenico della grande storia, dove la misura del tempo si calcola in secoli, cinquant’anni sono un’inezia; nella vita comune, quella che appartiene al presente, al contrario ritornare a fatti accaduti più di cinquant’anni fa costringe ad affrontare un potente sforzo di memoria per riportare all’attualità il mosaico di abitudini scomparse, mestieri scomparsi, oggetti scomparsi, odori e sapori che non si trovano più.

    Con queste premesse il presente lavoro non è solo la cronaca di fatti personali, non vuole essere il recupero del passato di una generazione di sessantenni, timorosi di perdere i ricordi della fanciullezza, ma assume una valenza di racconto storico, diventa la narrazione di un sistema di vita radicalmente diverso da quello contemporaneo.

    Con affetto per quella casa e per chi ci ha vissuto mi accingo a raccontare i primi anni della mia esistenza, trascorsi in una famiglia non convenzionale; sono aneddoti personali che si agganciano alle descrizioni di oggetti luoghi personaggi e mestieri che non ci sono più.

    Roma. Giorgio e Margherita si sposarono nel 1951 e andarono a vivere in un piccolo appartamento vicino a piazza Zama, nel quartiere san Giovanni, poco lontano dalla casa dei genitori della sposa. L'anno dopo, in seguito alla mia nascita, si trasferirono in un appartamento più grande, in un altro quartiere di Roma, tra piazza Bologna e la stazione Tiburtina e lì nel 1953 venne al mondo mio fratello Paolo. Subito dopo papà si ammalò gravemente, morì nel 1954.

    Mia madre, che fino ad allora aveva fatto solo la moglie e la mamma, fu costretta a cercarsi un lavoro, lasciò l’appartamento di piazza Bologna e tornò in casa con i genitori, dove, tra nonni e zii, qualcuno avrebbe potuto occuparsi di noi mentre lei era fuori casa. Purtroppo la vicenda non andò secondo i programmi, ci si accorse presto che la casa di cinque stanze non avrebbe potuto accoglierci tutti. Ci abitavano ancora quattro dei sette fratelli, quelli non ancora sposati, più i nonni e la tata, a cui ci eravamo aggiunti noi piccoli e la mamma. Era una coabitazione troppo affollata, quindi qualcuno, non ho mai saputo chi, prese la decisione di trasferire solo me in casa dei nonni paterni a piazza Navona, forse perché ci si rese conto che Paolo, che aveva da poco compiuto un anno, aveva ancora bisogno di sua madre, mentre io, che di anni ne avevo ben due, potevo andare per il mondo senza pensieri.

    Suppongo fosse una scelta lacerante per mamma, che nel giro di pochi mesi aveva perso suo marito e doveva rinunciare alla vicinanza della primogenita; non sono riuscita mai a strapparle una sola parola al riguardo, chiudeva l’argomento con un’alzata di spalle e un mutismo assoluto. Casa Putti era molto più grande di quella dei nonni materni, otto stanze su due piani contro le cinque di casa Veronese, anche qui abitavano quattro dei sei fratelli e i nonni, ma non c’era la tata, dunque c’era spazio anche per me.

    Così cominciai la vita a piazza Navona; il primo periodo non posso ricordarlo, avevo poco più di due anni. A stento ricordo la nonna Giselda, molto malata, sempre seduta con coperte e scialletto in una poltrona di vimini sistemata in camera da pranzo vicino alla finestra. Personaggio austero, di poche parole, mai un sorriso, forse a causa della sua malattia o forse anche a causa dei molti dispiaceri, morì due anni dopo, all’inizio del 1956. Da ragazza, parecchi anni più tardi, seppi che nonno Urbano da tempo frequentava un’altra donna, (forse era stata questa consapevolezza, insieme alla malattia, che aveva definitivamente tolto il sorriso a sua moglie), così poco dopo la morte di Giselda andò a vivere dalla nuova compagna e a casa rimanemmo in sei, compresa Elena, di cui racconterò più avanti.

    Quelli che descrivo sono i primi anni nella nuova sistemazione. Divenni la mascotte dei quattro fratelli, tre maschi e una femmina; Gabriella, la maggiore dei quattro, mi adottò da subito come la figlia che non aveva, coccolandomi e viziandomi fino all'inverosimile. Mi traghettò attraverso gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza, con una pazienza sovrumana, che tamponava le mie irrequietezze e intemperanze e la poca voglia di studiare. Mi portò fino alla laurea e, già malata in modo irreparabile, fino al matrimonio, che lei, non sposata, considerava il traguardo più importante nella vita di una donna. Morì due mesi dopo.

    Devo ringraziare chi mi ha aiutato a ricordare alcuni episodi e chi mi è stato prezioso per i suoi consigli:

    Pierluigi, il fratello più giovane di mio padre, con lui ho condiviso la casa di piazza Navona, mi ha fatto da fratello maggiore - nume tutelare, da lui ho ricevuto l’unico schiaffone della mia vita, sicuramente esasperato dalla mia saccenteria adolescenziale;

    Elena, la studentessa che viveva in casa con noi;

    zia Beatrice, sorella di mamma e testimone di tante vicende;

    zia Isabella, che qualche anno più tardi sposò zio Mario, uno dei fratelli che ancora abitavano nella casa di piazza Navona, insieme a Gabriella, Francesco (Franco) e Pierluigi;

    infine Paolo, amico da decenni, che è stato di grande utilità per la memoria puntuale sui dettagli di vita quotidiana.

    Tutti hanno collaborato a far riaffiorare e rendere nitidi i ricordi appannati di più di cinquanta anni fa.

    Un pensiero grato va alle persone che ho citato e che non sono più tra noi; mi piace pensare che il ringraziamento le raggiunga su una nuvola, dietro una stella o sedute su un arcobaleno a osservare la vita.

    Piazza Navona 14

    2. palazzo Pamphilj, a sinistra si intravede palazzo Braschi

    Palazzo Pamphilj è un edificio seicentesco permeato di storia, con sale affrescate e cortili spaziosi. A partire dagli anni Venti l’ambasciata del Brasile affittò una parte dell’edificio, il primo piano, quello che si definisce comunemente il piano nobile, mentre la restante parte era suddivisa in appartamenti dati in locazione alle famiglie. Nel 1960 i brasiliani decisero di comprare l’intero edificio per farne la sede prestigiosa dell’ambasciata e le famiglie che vi alloggiavano, tra cui la nostra, furono costrette a trasferirsi altrove.

    La casa dei nonni si vede nell’angolo in alto a sinistra del palazzo, occupava il quinto e il sesto piano dell’ala sinistra.

    Fino agli anni Cinquanta abitare agli ultimi piani degli edifici non era considerato un segno di prestigio, al contrario era una sistemazione scomoda, riservata a chi non poteva concedersi abitazioni più confortevoli; in assenza di ascensore arrampicarsi fin lassù richiedeva buon fiato e buone gambe, inoltre sotto il tetto faceva più freddo rispetto agli appartamenti dei piani inferiori. Tuttavia a due anni non facevo caso a tali dettagli, piuttosto mi interessava l’aria magica che sprigionava quella casa grande, con tante stanze e tante porte che si aprivano l’una dietro l’altra.

    Ai miei occhi di bambina l’elemento che la rendeva speciale era la disposizione su due piani, anzi su due e mezzo, con una scala di legno a forma di elle che collegava i livelli principali.

    Si entrava nel palazzo dal maestoso portone al numero 14 di piazza Navona, dove Telemaco, il portiere con la divisa grigia dai bottoni lucenti, era sempre pronto a elargire ai pochi bambini in transito un sorriso, una caramella, una carezza. A me quel portone pareva grande come una cattedrale, Telemaco lo apriva e lo chiudeva a ore stabilite.

    Qualche volta accadeva di dover uscire oppure di rincasare quando il portone era già chiuso per la notte. In quelle occasioni una porticina ricavata nel battente di destra consentiva il passaggio pedonale, ma aveva la soglia molto in alto rispetto al piano stradale, chiunque si trovava a passare da lì doveva scavalcare la porzione del battente compresa tra la porticina e il piano di calpestio. Per me quel passaggio obbligato era fonte di divertimento; non potendo scavalcare, le mie gambe minuscole non avrebbero superato l’ostacolo, ero aiutata dall’adulto che era con me a salire con i piedi sulla soglia e da lì mani sicure mi facevano volare fino al centro dell’androne, sotto la grande lanterna che spandeva una luce fioca. Le mie risate risuonavano sotto le volte del portico nel silenzio della sera, la lanterna attaccata alla catena robusta sembrava partecipare al gioco con un lieve dondolio.

     3-4. Palazzo Pamphilj, il portone, a destra particolare della porta pedonale

    Dall’androne, porticato e sorretto da pilastri, una porta a vetri sulla sinistra dava accesso all’ambiente che fungeva da guardiola, oltrepassato il quale, sempre a sinistra, iniziava il monumentale scalone marmoreo che conduceva agli appartamenti del piano nobile, riservato al personale dell’ambasciata. Attraversato l’androne si arrivava in un cortile quadrato, pieno di piante in vaso, che comunicava con il cortile gemello tramite un porticato poco illuminato. Le piante servivano ad abbellire l’androne e la scala monumentale in occasione dei ricevimenti all’ambasciata.

    Durante gli eventi speciali il portone e l’androne erano illuminati a festa, la grande fioca lanterna scompariva sotto lo sfavillio di fiaccole e lampadari dorati, il travertino dello scalone, lustrato a dovere, sfoggiava il suo biancore a contrasto con il rosso della passatoia srotolata sui gradini fino al lastricato del piano terra. Lo stesso Telemaco assumeva un aspetto solenne e ai miei occhi tutto si trasformava in una scena da fiaba: l’alta uniforme da portiere d’ambasciata era formata da un cappello con visiera, una livrea decorata da galloni d’oro e un paio di guanti immacolati. Ma Telemaco non dimenticava di essere il portiere di tutti e, seppure paludato nell’alta uniforme, era pronto a elargire un sorriso o un’amichevole strizzatina d’occhio.

    Un’apertura ad arco nel lato sinistro del cortile introduceva in un corridoio poco illuminato. Questo passaggio mi sembrava largo e alto, ma lo ho rivisto pochi anni fa in occasione di una visita al palazzo ed è risultato invece piuttosto angusto; quando ero piccola anche il cortile mi sembrava una piazza d’armi e invece occupa una superficie contenuta. In fondo al corridoio c’era il lavatoio con le vasche per i panni.

    Gli ambienti di uso comune, lavatoi stenditoi e serbatoi per l’acqua, negli edifici di recente costruzione si trovano in alto, al contrario nei palazzi storici costruiti qualche secolo fa l’acqua era disponibile solo al piano terra, portata dagli acquedotti costruiti dai Romani. All’interno di queste opere di raffinata ingegneria idraulica, l’acqua proveniente dai monti o dai colli circostanti scorreva per molte decine di chilometri in direzione di Roma, sfruttando una pendenza minima e costante; i Romani erano riusciti a portare l’acqua al centro della città e a distribuirla in modo capillare, ma i progressi in idraulica si erano fermati con loro e molti secoli dopo, quando furono costruiti i grandi palazzi nobiliari, i sistemi idraulici per sollevare l’acqua fino ai piani alti delle case erano ancora piuttosto rudimentali.

    A metà del corridoio a sinistra si apriva un grande spazio vuoto, cubico, in cui alcune rampe di scale in muratura ancorate alle pareti si arrampicavano verso l’alto come una spirale. Di seguito altre rampe, cambiando più volte direzione, terminavano in un ballatoio che portava dritto alla porta di casa; durante l’ascensione fino al quinto piano del palazzo si salivano 127 scalini.

    Il piano di sotto

    La porta di casa nel mio ricordo era altissima, chiusa da due battenti di legno massiccio. Si entrava in un ingresso piuttosto buio, senza finestre, illuminato solo da una vetrata sopra la porta: ancorata alla parete di fronte una scala di legno scuro saliva al piano superiore, a sinistra invece si apriva la prima di quattro stanze in sequenza, comunicanti una con l’altra attraverso porte ottocentesche.

    5. Palazzo Pamphilj particolare della facciata

    Era il salotto da ricevimento, arredato con divanetti, poltroncine e un pianoforte nero che, sopravvissuto a tutte le vicissitudini della famiglia, è stato per qualche anno in casa mia e ora riposa tranquillo in casa di Pierluigi, all’ultimo piano di un palazzo moderno nella zona est di Roma.

    In fondo alla stanza una porta finestra permetteva l’accesso al terrazzo che affacciava su piazza Navona. Nella foto è la prima, a sinistra del corpo centrale del palazzo, sopra il cornicione che segna la rientranza degli ultimi due piani.

    La sezione di palazzo che comprendeva la nostra abitazione, come quella speculare dall’altro lato dell’aggetto centrale, furono dovute a un ampliamento deciso e realizzato probabilmente tra il XVIII e il XIX secolo.

     6. palazzo Pamphilj nel 1926

    Il terrazzo visibile in facciata è piuttosto profondo, lungo fino all’angolo prospiciente palazzo Braschi; apparteneva a casa nostra solo la superficie che inglobava le quattro finestre più a

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