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Quasi buio
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E-book174 pagine2 ore

Quasi buio

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Info su questo ebook

Teresa ha undici anni e ormai è grande, come le ripetono la mamma e il papà. Ma Teresa ha paura e la sua inquietudine si manifesta subito dopo il tramonto, quando deve uscire di casa da sola per andare a comprare il gelato; ha paura delle grate lungo i marciapiedi, dalle quali si affaccia il nero degli scantinati; prova paura e pietà per le persone che abitano la strada, custodi forse di un segreto. Teresa ha paura di qualcosa che ancora non ha un nome e che però sente insinuarsi nella sua vita, nella tranquillità delle sue giornate, minacciando persino la mamma, il papà e il fratellino Lucio.
Poi un giorno accade qualcosa che il papà le aveva giurato non sarebbe mai potuto succedere. In una quotidianità scombinata, Teresa scopre che a volte i genitori mentono. Non c’è nessuno a cui chiedere aiuto. Gli adulti sono soli, ma lo sono anche i bambini e le bambine.
Un romanzo di formazione e una moderna storia gotica che gioca con elementi perturbanti classici, come il buio, l’orco e la morte, per raccontare il difficile passaggio dall’infanzia all’adolescenza di Teresa, una bambina di undici anni, all’interno di una famiglia i cui rapporti sono viziati dall’incapacità di comunicare.

Finalista al Premio Italo Calvino 2022
Finalista al PPremio Letterario Fondazione Megamark 2023
 
LinguaItaliano
Data di uscita1 set 2023
ISBN9788899207663
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    Anteprima del libro

    Quasi buio - Siligato Rita

    Dalia Narrativa

    14

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    Dalia

    Prima edizione marzo 2023

    ISBN: 978-88-99207-65-6

    Prima edizione ebook settembre 2023

    ISBN: 978-88-99207-66-3

    © 2023 All rights reserved Dalia s.r.l.s. Terni

    Cura redazionale: Dalia s.r.l.s.

    Impaginazione e realizzazione del formato ebook: Dalia s.r.l.s.

    Immagine ed elaborazione grafica copertina: Emiliano Bertoldo (Analogie s.n.c.)

    www.daliaedizioni.it

    Finalista al Premio Italo Calvino 2022

    Finalista al Premio Letterario Fondazione Megamark 2023

    Il romanzo è da considerarsi opera di fantasia e ogni riferimento

    a persone realmente esistenti e a fatti accaduti è puramente casuale.

    Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow,

    Creeps in this petty pace from day to day,

    To the last syllable of recorded time;

    And all our yesterdays have lighted fools

    The way to dusty death. Out, out, brief candle!

    Life’s but a walking shadow, a poor player,

    That struts and frets his hour upon the stage,

    And then is heard no more. It is a tale

    Told by an idiot, full of sound and fury,

    Signifying nothing.

    William Shakespeare, Macbeth

    Tramonto

    Vai, – le diceva la mamma sorridendole fiduciosa – non c’è nessuno in giro, a quest’ora. Sono ancora tutti a tavola. Tutto sembrava molto tranquillo. Anche il papà le sorrideva, in piedi vicino all’acquaio. Lucio tirava la tovaglia verso l’angolo del tavolo ancora apparecchiato, sperando che i piatti già vuoti cadessero. La cucina era invasa dal raggio giallo che da ovest attraversava la finestra senza tende, scolpendo in chiaroscuro i tre visi rivolti verso di lei. La strada era sicura. Teresa non doveva aver paura del buio, aveva undici anni già compiuti, ormai, così le ripetevano il papà e la mamma. Cenavano presto, e alle sette di sera la luce era ancora forte.

    Non c’erano strade da attraversare: doveva soltanto seguire il marciapiede verso il giardinetto e la farmacia, e poi continuare in discesa fino all’angolo, dove si trovava la gelateria. Uscendo dal portone di casa avrebbe svoltato a sinistra, nella direzione opposta a quella che avrebbe presto percorso ogni mattina, da ottobre a giugno, per andare a scuola, la stessa strada che aveva avuto il permesso di fare da sola da ormai due anni.

    Dopo la farmacia, finito il blocco di brutte case anni ’60, c’erano il dieci e il dodici. Cercava di camminare in fretta, senza guardare alla sua sinistra, rivolgendo lo sguardo in alto o al marciapiede, ma le sue braccia scurite dal sole si coprivano di pelle d’oca per l’alito ghiacciato che usciva da quelle inferriate.

    Eppure era costretta a passarci davanti almeno due volte alla settimana, da sola, al tramonto, con le quattro monete strette nella mano. Non sarebbe mai riuscita a spiegare né a sé stessa né ai genitori perché non le piacesse andare a comprare il gelato. Si fidavano di lei.

    ****

    Al piano interrato dell’isolato, subito dopo l’incrocio, c’erano quattro feritoie che davano aria a una cantina. L’ultima, la più grande, era quella che la faceva rabbrividire: e non soltanto perché oltre la rete di rame ossidato a trama larga che la chiudeva si vedevano sagome nere e ragnatele impolverate.

    Quasi dipinte sulla facciata del dieci, prima dei due portoni gemelli, su quella strada in discesa che andava in direzione della gelateria, erano inserite nella parte più bassa del muro, con la base, sembrava, appoggiata al marciapiede. Le pietre bugnate che le circondavano su tre lati erano grigie, sporgenti quel tanto da inquadrare in modo simmetrico le piccole finestre. Erano quattro aperture sbilenche ma ben progettate, dalle quali anche in estate usciva un’aria freddissima: il primo finestrino era un triangolo alto pochi centimetri, il secondo si deformava ad assumere una forma trapezoidale, il terzo diventava un quadrilatero ampio e appena sghimbescio. Dentro alle tre feritoie più piccole c’era un traliccio sottile, una specie di garza di rame che rifletteva la luce e impediva di vedere nella cantina: parevano una introduzione alla quarta, quella con il baratro.

    L’apertura che avrebbe incontrato per ultima, più grande e larga – proprio perché la strada era in discesa – era un parallelogramma appena accennato, quasi un rettangolo, alto poco meno di un metro. Sotto la grata si intravedeva il buio, una scura voragine che non aveva colore: da quel baratro arrivava potente a folate ritmiche una brezza gelida, dall’odore di polvere umida, che faceva oscillare le ragnatele contro la rete interna.

    Il papà glielo aveva fatto notare quando ci erano passati davanti per andare a comperare il gelato, forse proprio per farle superare la gran paura che ne aveva. Non vedi come sono belle? Hanno una grazia particolare le aveva detto. Certo, da lontano avevano una loro bellezza. Rifinite in modo impeccabile, come ciascuno dei particolari che componevano le case costruite nell’Ottocento, tutte le quattro aperture erano contornate da un’asta di ferro battuto a sezione rotonda, più o meno del diametro dell’indice di una mano, con i suoi bei riccioli ai lati, dove le volute s’incontravano con un grazioso aggancio, quasi un cuore. I tondini di ferro più sottili che invece si intrecciavano a formare la scacchiera a rombi erano uniti in anelli che si avvolgevano attorno al proprio compagno, senza fatica apparente, come se fossero dei viluppi vegetali. Non c’era niente di lasciato al caso, in quelle inferriate.

    Sia il papà che la mamma le avevano ripetuto più di una volta: Ci si vede lo studio di chi le ha progettate. Si poteva immaginare il disegno fatto a mano a china, su un bel foglio di cartoncino color avorio, con le misure, le sporgenze, le proiezioni. Si intuiva che, prima di poggiarle, l’operaio che le aveva poste in opera aveva provato in luogo con una dima, per verificarne gli ingombri e la resistenza delle pietre bugnate che le avrebbero sostenute.

    Guarda come sono interessanti! Lavoravano bene, allora. – le aveva detto la mamma – Considera anche la scelta del colore, che all’epoca era importante. Era suggestivo il contrasto cromatico tra il ferro nero degli intrecci e il grigio naturale delle pietre, la cui disposizione raggiungeva l’altezza di un metro, sfalsato dall’inclinazione della strada. L’edificio, al di sopra, era di un grigio sporco, senza colore. Si intravedeva, nascosto attorno alle tubature dei pluviali, nere anch’esse, lì dove l’intonaco originale non era stato sbiancato da tanti anni di esposizione alla luce, alla pioggia, al vento, un giallino pallido.

    Dopo le quattro inferriate c’era un portone con il numero dieci impresso in numeri grandi e bianchi su una targhetta blu avvitata alla pietra degli stipiti in alto, quasi al colmo, a destra delle due ante. Per entrare, bisognava salire tre gradini, ma Teresa non aveva motivo per entrare al numero dieci. Non conosceva nessuno che ci abitasse, in quella strada. E accanto al portone del dieci c’era quello del dodici, con quattro gradini, per mantenerne l’altezza in relazione al marciapiede. Era il gemello speculare del dieci: la targhetta con il numero a sinistra, la maniglia – scomodissima – a sinistra.

    Erano identiche però le belle cornici intagliate di legno biondo, mentre i delicati lavori in ferro battuto che proteggevano il vetro sulla parte superiore dei battenti erano, secondo Teresa, sbagliati. Non avrebbe saputo spiegare a un adulto il suo disagio nei confronti di quei viluppi vegetali, foglie di vite e grappoli, che correvano tutti nello stesso verso, innalzando tralci e rami verso sinistra, senza alcun rispetto per la specularità che veniva invece rispettata negli altri particolari.

    Ma guarda le porte e gli stipiti, – le avevano detto – guarda che rifiniture! Non se ne fanno più, di lavori così, al giorno d’oggi. Gli artigiani, allora, erano degli artisti! Questo però non le aveva mai fatto cambiare idea sul fatto che quei due portoni fossero stati concepiti da qualcuno che non ci aveva pensato su più che tanto.

    Dopo il portone del dodici la casa, che continuava fino all’angolo della stretta strada trasversale, era di nuovo simmetrica con la sua gemella: al primo piano le finestre restavano fedeli al ritmo definito dal dieci, al secondo piano i balconcini erano due per numero civico – quelli centrali più ravvicinati – e ai piani superiori continuavano le finestre, molto più piccole all’ultimo piano, con delle minuscole grate bombate, quasi dei portafiori. Mancavano però, al piano interrato, le inferriate delle cantine, che per il dodici si trovavano sul lato posteriore della casa, la facciata non nobile, meno curata, dove c’erano anche dei magazzini.

    Le case che precedevano e seguivano l’isolato del dieci e del dodici erano state costruite invece di recente, sgraziate palazzine anni ’60, squadrate e senza particolari rilevanti, di un bianco panna ormai sporco per il fumo dei gas di scarico, ognuna con il suo numero civico e i suoi identici balconcini rettangolari con le divisioni di vetrocemento opaco e grigio fra appartamento e appartamento. Teresa ricordava di aver visto gli scavi per le fondamenta, le gru nel fango e i cantieri, quando era molto piccola e Lucio non c’era ancora. Nessuna di quelle case aveva il capriccio di due portoni affiancati, né feritoie e inferriate.

    Sulla strada breve e in discesa non c’erano negozi. E il lato di fronte era un muraglione di pietra grezza, coperto di parietaria nella parte sommitale, esposto a sud. Era altissimo, e terminava quasi di fronte alla gelateria, creando l’arco del ponte sopra la ferrovia. Da quella parte non c’era il marciapiede: le pietre sbozzate erano appoggiate sulla sede stradale, racchiuse alla base dall’asfalto scuro, rugoso, simile alla pelle di un elefante. Il muro rimandava, di sera, il suo calore verso le facciate delle case, che rimanevano in ombra per la maggior parte della giornata.

    La tana

    Teresa, vuoi andare a prendere il gelato?

    Temeva quella richiesta, e ogni volta avrebbe voluto spiegare perché non voleva andarci: eppure, non c’erano motivi che sapesse chiarire, neanche a sé stessa. La strada era breve, non faceva ancora buio perché d’estate cenavano molto presto; in genere verso le sei e mezzo la mamma aveva già lavato le pentole e i piatti e il papà si era dato da fare con lo strofinaccio per asciugarli, sotto lo sguardo distratto di Lucio che si sfregava gli occhi, cercando di rimanere sveglio nell’attesa del gelato prima di andare a dormire. Ci sarebbe stata la gioia di entrare nella gelateria con i soldini contati nella mano e di recitare i gusti – crema e cioccolato per la mamma e per il papà, frutta per lei e Lucio – e la soddisfazione differita di un quarto d’ora, quando sarebbe rientrata con il pacchettino avvolto nella carta bianca e dorata, legato con il nastrino a gancetto per infilarci l’indice o il mignolo, come le era stato insegnato. L’importante era trasportarlo senza toccare le parti già inumidite dal vassoietto che reggeva i bicchierini di carta cerata: l’involucro poteva rompersi. Al ritorno riusciva a non pensare alle inferriate, impegnata com’era a portare nel modo corretto il pacchetto e a non farlo cadere. Ad aprirlo ci avrebbe pensato la mamma, che avrebbe conservato il nastrino e la carta ripiegandola, non ancora del tutto asciutta, nel vecchio contenitore cilindrico di detersivo, pieno già di carte da regalo, nascosto in alto, sopra l’armadio nella stanza dei

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