La rivalsa dell'innocenza
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Chi è veramente Margherita? Un'aguzzina crudele, una folle incontrollabile o una vittima innocente che reclama la propria vendetta?
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Anteprima del libro
La rivalsa dell'innocenza - Laura Marina Caporali
cenere.
Uno
Anno 1740.
Gioioso era il villaggio in cui nessuno avrebbe desiderato nascere, se avesse potuto scegliere.
Il nome non era stato scelto a caso, ma volutamente e si ricollegava allo splendido sorriso, colmo di felicità, della figlia del proprietario terriero che, tre secoli prima, aveva vissuto in quei luoghi.
Contrastava, però, con l’aspetto del posto, cupo, umido e avvolto, costantemente, da una fitta nebbia spettrale.
Si trovava al centro di una grande pianura, isolata dal resto del mondo e consisteva in un unico gruppo di case in cui vivevano un centinaio di persone, tutte in grado di provvedere a se stesse allevando i propri animali da cortile e aiutandosi reciprocamente nella fabbricazione e scambio di oggetti utili per la vita quotidiana.
Ogni famiglia possedeva almeno un campo proprio, ma, a causa della scarsa presenza di sole, era ben misero il raccolto e tripla la fatica per ottenerlo.
Intorno al paese il nulla per ore e ore di cammino, solo campagna disabitata.
Nebbia, campi e un bosco.
Un po’anomala la presenza di un bosco in una pianura di tali dimensioni e caratteristiche, eppure era lì, come sorto dal nulla.
Si trovava a circa venti minuti a piedi dal piccolo paese ed era apparentemente uguale a tutti gli altri, ma non per gli abitanti di Gioioso, che fin da piccoli avevano imparato ad averne paura.
Un autentico terrore si insidiava in loro dai primi anni di vita, quando i loro occhi ancora ignari si posavano su quella macchia di alberi completamente nera. Crescendo, la paura si tramutava in un’autentica ossessione, giorno dopo giorno e, soprattutto, notte dopo notte. Era infatti con il buio che, alle undici in punto, i rintocchi di una campana provenivano dal bosco.
Non era uno scampanellio allegro di una chiesetta di paese, ma piuttosto una sequenza di suoni perfettamente uguali, freddamente scanditi, inquietanti, a pochi secondi di distanza uno dall’altro. I rintocchi smettevano dopo sette minuti precisi, ma a quel punto ne seguivano altri sette, i più angoscianti, costituiti essenzialmente da grida e urla.
Si trattava di voci strazianti, apparentemente umane, ma che, se ascoltate con maggiore attenzione, sembravano piuttosto le espressioni di tormento di dannati condannati a subire per l’Eternità le torture peggiori. In tutto quattordici minuti complessivi dall’inizio dei rintocchi alla fine delle grida. Un tempo relativamente breve, ma non per i paesani, nei quali l’oscura sequenza immetteva nell’animo una paura talmente potente da paralizzarli completamente.
Era l’eco di un antico terrore, qualcosa di profondo e inquietante che si ripeteva come una maledizione a cui nessuno poteva sottrarsi.
Un’eco impietosa che tornava ogni notte, puntuale e devastante come una sentenza di morte.
Perfino respirare diventava difficile in quei momenti.
Prendere sonno era divenuto quasi impossibile, la paura ormai dominava le persone e le teneva sveglie per ore, nonostante l’enorme stanchezza, per gettarle, quando finalmente cedevano al sonno, in un vortice innaturale di incubi differenti, ma, allo stesso tempo, legati dallo stesso filo.
Spesso piccoli gruppi di uomini si recavano fino al limite del bosco, per capire una volta per tutte cosa fosse la fonte di tutto ciò.
Prima delle undici giungevano fino a pochi passi di distanza, si fermavano, aspettavano e, al momento dei diabolici suoni, si spingevano fino all’ingresso della macchia cupa, dove si innalzavano i primi alberi, proprio dove pareva esserci la fine di ogni luce.
In quel momento accadeva la cosa più terrificante, ciò che li faceva indietreggiare e ritornare di corsa al villaggio: i rintocchi e gli urli non cessavano, ma non provenivano più dal fondo del bosco, bensì dal piccolo paese, proprio da Gioioso, dalle loro case, dalle loro famiglie. Era come se fossero gli abitanti rimasti al villaggio a gridare, a contorcersi nelle fiamme del dolore eterno. Una sensazione orribile, inoltre, li pervadeva, nel momento in cui si rendevano conto che da quel fitto, nero gruppo di alberi non proveniva nessun altro rumore. Nessun movimento di foglia, fuga di scoiattolo, canto di grillo, cinguettio di uccello o verso di animale alcuno. Perfino il tetro ululato di un lupo o l’urlo di un rapace notturno sarebbe stato meglio di quella totale assenza di suoni e avrebbe ridato un attimo di sollievo ai loro animi.
Ogni volta uno di loro spariva e non faceva più ritorno. Non si sapeva che fine facesse. Gli altri erano troppo impegnati a tornare di corsa verso il villaggio per preoccuparsi dello sventurato compagno rimasto indietro. Solo quando raggiungevano nuovamente le loro case, accorgendosi che tutto era come prima e nessuno era stato ferito, realizzavano che qualcuno mancava all’appello.
Non ne rimaneva nessuna traccia, nemmeno le impronte.
Come se non fosse mai esistito.
Come se il bosco lo avesse inghiottito.
Con il tempo persero la speranza di scoprire la causa di quei sinistri battiti di campana e di quelle voci che seguivano: semplicemente aspettavano che finissero, con il cuore gelato dallo spavento che ogni volta li prendeva più forte, devastando la loro mente provata.
Nemmeno evitare di avvicinarsi al bosco serviva a far cessare le sparizioni. Non importava che si trattasse di un uomo, di una ragazza o di un bambino. Puntualmente qualcuno scompariva, come dissolto nel nulla.
Le vecchie generazioni lasciavano spazio alle nuove, gli anni passavano, ma niente cambiava. Ogni nuovo nato riviveva la stessa paura che i genitori e i nonni avevano conosciuto prima di lui.
Il fatto che il piccolo villaggio fosse isolato dal resto del mondo, contribuiva ad aumentare l’angoscia, così come la sensazione costante di essere osservati da un’entità sconosciuta, forse malvagia, sempre presente e percepita da ognuno come una minaccia invisibile, ma avvertita distintamente come se ben riscontrabile dai sensi di tutti.
Nessuna ricerca compiuta in tanti anni diede mai esiti positivi, così come non fu possibile spiegare in che modo la gente sparisse senza lasciare traccia.
Come tutti a Gioioso,Daniele capì molto presto cos’era la paura.
Aveva solo tre anni quando, per la prima volta, chiese ai genitori cosa fossero quelle angoscianti sequenze di rintocchi e urla che gli suscitavano una sensazione così negativa, anche se ancora non ben chiara.
Quella notte fu svegliato dal secondo, cupo battito.
Si destava sempre per lo stesso motivo, ma il timore di trovarsi di fronte un pericolo sconosciuto lo spingeva a rimanere immobile, nascondendo la testa sotto le coperte. Quella volta, invece, decise di scendere dal proprio giaciglio per cercare mamma e papà. Li trovò in un angolo, vicino al camino. I loro volti erano lividi, paralizzati in una maschera di terrore puro. I loro occhi lo guardavano, ma sembravano non vederlo, tanto i suoi cari erano in preda al panico. Daniele corse da loro, cercò di scuoterli con le sue piccole mani di bimbo, ma si rese presto conto che a nulla valevano i suoi sforzi. Fu in quel momento che il suo cuore cominciò ad ascoltare più attentamente quei suoni sinistri che dai primi giorni turbavano il suo sonno innocente.
Quando cessarono, i genitori si ripresero e lo abbracciarono ed egli fece la domanda che temevano, curioso di sapere cosa fossero quei rintocchi e quelle grida che lo spaventavano.
Vide i genitori guardarsi, lesse solo angoscia nei loro occhi e non chiese più niente.
Succedeva a tutti i bimbi nel villaggio.
Domandavano una sola volta e poi non osavano più chiedere.
Alcuni di loro facevano parte di quella minoranza che, raggiunta l’età adulta, si spingeva verso il bosco, per poi tornare ancora più preda del terrore, mentre altri fingevano indifferenza e convivevano con la paura senza mai parlarne in tutta la loro vita.
Per venticinque anni Daniele fece parte del secondo gruppo. Era un bel giovine, alto, robusto, capelli un po’ mossi color grano, occhi azzurri e sinceri. Piaceva molto alle ragazze che non avrebbero certo disdegnato un futuro al fianco di un così bravo e giudizioso giovanotto. Inoltre era dotato di una sensibilità rara e tanta delicatezza d’animo non si trovava in nessun altro al villaggio. Eppure egli non andava molto fiero di se stesso. Avrebbe voluto essere coraggioso, intrepido. Gli sarebbe piaciuto appartenere a coloro che, incuranti del pericolo, si avvicinavano al bosco per scoprirne il mistero.
Non era così, purtroppo. Gli mancava totalmente il coraggio e si sentiva fragile nonostante il fisico prestante.
Introverso, teneva tutto quanto per sé e non voleva affrontare l’argomento che lo spaventava con nessuno, nemmeno se si trattava solo di parlarne.
I suoi genitori erano fieri di lui: il loro unico figlio era un gran lavoratore, infaticabile e onesto. Inoltre aveva un cuore immenso e quella era per loro la dote più importante. Daniele, però, non si rendeva conto di quanto lo apprezzassero. Avrebbe voluto saperli orgogliosi di lui per il suo coraggio, la sua audacia, la sua decisione. Non riusciva a non considerare se stesso un vile e la sua mancanza di autostima lo precipitava in un abisso di pensieri negativi che avevano come conclusione comune l’effetto di renderlo ancora più timoroso.
Finché una notte sentì di non resistere più.
Si era seduto per terra, con la testa sotto un telo e aspettava quei terribili momenti che seguivano le undici.
Percepiva crescere l’angoscia dentro di sé e desiderò perfino morire piuttosto che sentire di nuovo il cuore fermarsi, la gola chiudersi e il respiro mancare.
Quando il primo suono lo fece sussultare come mai prima d’ora, realizzò che sarebbe stato sempre peggio. Capì che, notte dopo notte, la paura che lo divorava sarebbe diventata sempre più grande, fino a condurlo alla pazzia. In quel momento promise a se stesso che avrebbe posto una fine a tutto ciò, in un senso o nell’altro, anche a costo di essere il prossimo a sparire nel nulla.
La notte seguente, verso le dieci, Daniele si sedette a cento metri dal bosco ad aspettare. Il suo stato d’animo in quegli interminabili sessanta minuti di attesa fu un misto di terrore, angoscia, inquietudine, indecisione, esitazione e oscillazione tra coraggio e ripensamento.
Al primo rintocco scattò d’impulso e in pochi attimi si ritrovò davanti a quel luogo oscuro al quale mai prima d’ora aveva avuto il coraggio di avvicinarsi.
Un grido gli si strozzò in gola quando si accorse che il secondo rintocco non proveniva più da lì, bensì dall’antico villaggio e così il terzo, il quarto e via dicendo.
Non capì più niente, né cosa stesse facendo, né cosa avrebbe dovuto fare. Sapeva solo che stava correndo verso casa, sorretto dalla forza della disperazione e da un senso di terrore ancora più forte di quello che aveva provato fino ad allora.
Voleva solo tornare a Gioioso e chiudersi a chiave dentro casa. Serrare tutte le finestre e abbracciare i genitori.
Non poté stringere a sé né padre, né madre quella notte, perché al villaggio non c’era più nessuno.
Erano spariti tutti.
Daniele rimase impietrito per alcuni istanti, poi cominciò a urlare con tutta la forza che possedeva. Chiamò la madre, il padre, gli amici e tutti coloro che fino a poche ore prima vivevano con lui al paesino. Nessuno rispose ed egli sentì un nodo legargli la gola. Niente di ciò che aveva provato finora era minimamente paragonabile all’angoscia che stava patendo in quel momento.
In preda al panico cominciò a correre per le strade, per gli angoli bui del villaggio, sempre chiamando a squarciagola le persone care, urlando i nomi di tutti.
Non era possibile!
Fino a qualche ora prima erano tutti lì. Aveva cenato con i genitori come tutte le sere.
Si chiese se fosse un incubo quello che stava vivendo. Non di rado i suoi sonni erano costellati da sogni terribili, ma quella era la realtà e lo terrorizzava. Non riusciva a riflettere coerentemente.
Correndo ininterrottamente, si diresse verso le rovine dell’antico palazzo, quello in cui, tre secoli prima, viveva la ragazza dal cui sorriso prese nome il villaggio.
Di lei si sapeva ben poco e ciò che nei secoli era stato riportato, giungendo fino ad allora, forse univa verità e leggenda.
Si diceva che la dolcezza di lei contrastasse con la freddezza del padre, l’avaro padrone di tutte le terre circostanti. Se ne parlava come di un uomo crudele e impietoso, che vessava i contadini, costringendoli a lavorare le sue terre per pochi soldi e ridendo delle loro fatiche. A quel tempo non conoscevano la nebbia da quelle parti. Il sole splendeva e, alternandosi con piogge cadute al momento giusto, faceva sì che i raccolti fossero ricchi e abbondanti. Erano almeno un migliaio gli abitanti e Gioioso era un bel villaggio di notevoli risorse. Eppure pareva che nessuna ricchezza placasse mai l’avidità di quell’uomo. Arrivò a detenere qualsiasi potere grazie ai propri averi e comprò perfino la giustizia. Condannava a morte coloro che si rifiutavano di consegnargli la maggior parte dei propri proventi. Era odiato da tutti, ma nessuno aveva la forza di opporsi alla sua tirannia.
Della figlia era noto solo che morì giovane, in un incendio scoppiato nella chiesa del villaggio, proprio quando era al culmine della bellezza.
Del lussuoso palazzo in cui vivevano, ormai non vi era che un rudere, nero come le ortiche che gli erano cresciute intorno, buio come il bosco. Solo una luce proveniva da quelle macerie color notte e Daniele si illuse di aver trovato qualcuno nascosto lì.
Incurante dei rovi e delle spine che gli laceravano i vestiti e ferivano gambe e braccia, si fece strada e raggiunse quel bagliore, ma purtroppo non vi era anima viva.
Ciò che lo aveva ingannato, facendogli credere che si trattasse di una luce, proveniva da un antico ritratto, straordinariamente sopravvissuto ai secoli. Lo sfondo era chiaro e rappresentava cascate, frutti e fiori. Il cielo era limpido, di un azzurro come mai né lui, né i suoi compaesani, per i quali il grigio della nebbia era il solo colore che ricordavano da sempre, lo avevano potuto vedere.
In primo piano era ritratta una fanciulla di incantevole bellezza, con capelli lunghissimi e biondissimi, occhi verde intenso e un sorriso che è impossibile descrivere. Daniele si perse in quel sorriso, gli sembrò che davanti a lui la terra