La via della femmina morta
Di Paolo Celin
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Info su questo ebook
La storia raccontata da Paolo Celin si inserisce in questa volontà di non dimenticare le donne vittime di violenza. Due giovani amanti appartati in una stradina che porta a Lendinara, in provincia di Rovigo, sono testimoni dell’apparizione del fantasma di una fanciulla, vissuta ai tempi della Serenissima Repubblica di Venezia, che fu vittima di soprusi e di violenza sessuale. Maria, così la chiameremo, amò riamata il giovane rampollo di una nobile famiglia e per questo pagò il prezzo estremo. Da allora ella appare nel luogo in cui fu straziata senza pietà e che viene ricordato come la via della femmina morta.
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Anteprima del libro
La via della femmina morta - Paolo Celin
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1
A metà degli anni Settanta del secolo scorso, quando era d’uso per i giovani della mia età appartarsi in auto con la propria ragazza a scambiarsi effusioni amorose, mi ritrovai per caso in una stradina sterrata, che attraversava i campi coltivati prospiciente le varie proprietà contadine.
Cercando un minimo di tranquillità e di intimità, imboccai quella stretta viuzza, lasciando alle spalle la provinciale che dalla Villa del Castello del Ghebbo porta a Lendinara. All’incrocio delle vie, vi era una piccola lampadina a piattello collocata su un palo di legno ormai logoro e marcito alla base, dal tempo e dalle intemperie. La fiammella lassù in alto avrebbe dovuto illuminare l’intersezione stradale, ma in realtà, ormai indicava solo la presenza del viottolo, a causa della sua fioca luce giallognola.
Percorrendo la via, lontano dalle abitazioni dei contadini frontalieri, mi imbattei in un piccolo spazio verde ai margini dello sterrato dove l’erba era più bassa e mi permetteva di sostare senza intralciare il transito. Questo posto era proprio nelle vicinanze di un ponticello delimitato da due spallette in cotto e pietra, di quelle che si costruivano una volta per rendere più sicuro il passaggio dei viandanti.
L’ora era tarda, ben oltre mezzanotte, i rintocchi degli orologi collocati sui campanili vicini avevano già solcato l’aria con la loro sorda musicalità.
Il cielo era stellato e mostrava il suo mantello tempestato da una miriade infinita di brillantini lassù, piccoli diamanti che nel buio pesto del luogo sembravano ancor più luminosi del solito.
Nonostante ciò, data l’assenza della luna, quella sera il buio d’intorno era quasi totale.
Neppure la magica luna in quella notte era venuta a illuminare la fredda e buia via. Né io, né la mia compagna d’avventura ci rendemmo conto del tempo che trascorreva. Era bellissimo, nonostante il freddo e l’umidità della notte che incombeva, stare assieme a scambiarci l’amore.
Ma a un tratto, sia a me che a lei parve di sentire in lontananza dei lamenti, degli strani lamenti. Inizialmente pensammo a dei gatti felici e in amore, che come noi in quella notte, avessero scelto quel posto per scambiarsi le loro effusioni. Tuttavia, eravamo sul chi va là temendo il guardone di turno, perciò ci sollevammo di scatto dai sedili dell’auto per sincerarci su chi o cosa provocasse quel mormorio.
Purtroppo, il buio come dicevo era pesto, solo le stelle brillavano nel cielo, mentre a destra e a sinistra della via in questione, alte piante ci impedivano la visione.
Quando a un tratto, in lontananza, in fondo alla viuzza vedemmo comparire una flebile luce. Impauriti, ci rivestimmo di corsa, mentre la fiammella si avvicinava, avanzando lentamente. Che cosa strana! Sicuramente non era una luce moderna; non era una luce dei nostri tempi, non era neppure una torcia elettrica, sembrava piuttosto una fiamma flebile e intermittente, sembrava ora che ci ripenso la luce emanata dalla fiamma di una candela o di un fanale a carburo o a petrolio.
Di scatto accesi i fari dell’auto per illuminare nella via il punto preciso dove avevamo visto, o ci era parso vedere, la fiammella.
Ma nulla!
Con nostro immenso e profondo stupore però, come d’incanto la luce era sparita nel nulla, e anche gli strani lamenti erano cessati.
La nostra paura, a quel punto, ci fece desistere dal restare.
Scambiandoci l’ultimo bacio, decidemmo di abbandonare quel luogo, ma solo per quella sera.
Presi dalla curiosità o forse attratti dalla tranquillità del posto, qualche sera più avanti decidemmo di ritornare.
Tutto sembra tranquillo, il fiumiciattolo scorreva placido sotto il ponticello, nessun intruso era o pareva essere presente. Finalmente le gioie del nostro amore segreto potevano aver seguito e sfogo.
Ma di lì a poco, saranno trascorsi sì e no una decina di minuti o poco più, alla stessa ora dell’incontro precedente, udimmo distintamente questa volta dei veri e propri lamenti, senza dubbio alcuno umani.
Non erano affatto gatti in amore ma neppure i lamenti o le grida di gioia di qualche altra coppietta lì appartata.
Stessa scena: la fiammella sempre più vicina, i lamenti, noi che ci rivestimmo di tutta fretta tenendo d’occhio il viottolo d’innanzi a noi. A dire la verità, questa volta oltre alla lucina a me parve vedere un’ombra, una figura femminile che reggeva in mano una lampada a olio, di quelle che si usavano nei secoli passati. Anche a Anna, la mia compagna, parve di vedere una sagoma, una figura di donna che teneva in mano una lanterna, una di quelle che si usavano quando ancora la luce elettrica era di là da venire, specialmente nei casoni di campagna. La figura in questione avanzava con incedere incerto verso di noi, quasi avesse timore nell’essersi palesata.
Noi restammo in silenzio all’interno dell’auto, pietrificati, ma con le portiere ben chiuse e al buio, quasi mimetizzandoci con la tappezzeria dei sedili. Il cuore batteva a mille o forse più, la salivazione era quasi a zero e nonostante il gelo sulla nostra pelle iniziò una strana fredda sudorazione.
La paura ci impediva di compiere qualsiasi gesto.
Quell’immagine di donna, quasi un ideogramma, giunta a poche decine di passi dalla mia vecchia utilitaria sparì nel nulla, tanto velocemente quanto era apparsa.
Si era dileguata, disciolta nell’aria, non sapevamo se fosse frutto della nostra immaginazione o se abilmente la figura si fosse nascosta tra i filari di granturco ancora da trebbiare.
Presi dall’angoscia per quanto accaduto, Anna e io ci guardammo in faccia e poi senza dire nulla facemmo velocemente ritorno a casa. Un misto di terrore e curiosità stava invadendo le nostre menti.
Non sapevamo se parlando con qualcuno dell’episodio accadutoci saremmo stati presi per pazzi o peggio per i consumatori di chissà quale allucinogeno.
Eppure, sentivamo che quanto visto era veramente accaduto, che non avevamo vaneggiato. Eravamo lucidi, presi forse dalle effusioni amorose, ma lucidi, sicuri rispetto a quanto ci era accaduto e a quello che certamente avevamo visto.
La nostra testa era piena di domande. Chi era quella donna? Perché si era mostrata proprio a noi? Forse eravamo le vittime inconsapevoli di uno scherzo di cattivo gusto?
Curiosi e increduli, pieni di paura, poche sere dopo decidemmo di tornare di nuovo in quel luogo, sperando di rivedere quella immagine e di capirne qualche cosa di più.
Eravamo stati colpiti forse dalla sindrome dell’assassino che lo fa ritornare sempre sul luogo del delitto. Evidentemente la nostra curiosità era assai più forte della paura, e questa volta volevamo però capire oltre che vedere, anche se sapevamo a priori che sarebbe stato assai difficile.
C’era ben poco da capire, io non avrei mai pronunciato la parola fantasma, ma Anna