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Più buia della notte (eLit): eLit
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E-book327 pagine4 ore

Più buia della notte (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Tra vivi e morti c'è una linea invisibile.



L'atollo è di quelli caraibici che vengono spesso definiti Paradiso. Ma qui, dove Markie Cross lavora come veterinaria, si ha più l'impressione di stare all'Inferno. Da qualche tempo, infatti, strane morti funestano l'isola. Markie collabora con il medico locale Declan Quinn su quella che sembra una strana epidemia. Si tratta forse delle conseguenze di qualche oscuro esperimento nucleare fatto al largo in quelle acque limpide e cristalline? O qualcosa di più sinistro e occulto si cela dietro questo mistero? Qualcosa che va al di là dell'umano?
LinguaItaliano
Data di uscita30 ott 2017
ISBN9788858978344
Più buia della notte (eLit): eLit

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    Anteprima del libro

    Più buia della notte (eLit) - Rachel Lee

    Prologo

    Fu Shadow a fiutarlo per primo. Era in soggiorno, sdraiato ai piedi del suo padrone, con un osso di pelle non conciata a distanza di un baffo dal naso. Ci aveva lavorato per un po', massaggiandosi le gengive, arrivando quanto più vicino poteva alla soddisfazione di masticare la carne ancora calda di una preda. Ora gli odori confortanti... l'osso mezzo rosicchiato; i piedi del padrone infilati nelle vecchie pantofole di pelle; il tappeto ancora impregnato dell'aroma del tabacco da pipa, benché lui avesse smesso da tempo di fumare; l'arrosto con patate, carote e vino rosso che cuoceva nella pentola; il debolissimo effluvio del profumo della moglie del padrone, anche se lei era uscita; l'onnipresente aria salmastra; i molteplici e intensi odori del mondo di Shadow... erano stati spazzati via da qualcos'altro.

    Più e più volte annusò con rapide fiutate, svuotando i polmoni quando non resisteva più, concentrandosi perché la sua agile mente escludesse gli odori familiari per percepire il nuovo. Freddo. Terra. Muffa. Decomposizione. Gelo. Morte. Male.

    Woof.

    Solo un breve latrato, per disperdere il tanfo così come per avvertire il padrone, ma l'odore non se ne andava. Il ringhio scaturì lento dalla sua gola mentre sedeva sul treno posteriore, senza smettere di fiutare l'aria.

    Vattene!

    «Qualcosa non va, vecchio mio?»

    Quasi non udì la voce dell'uomo, così acquietante e profonda. Con un gesto fluido, si alzò e trotterellò verso la finestra sul davanti, il fetore ancora nelle narici. Il padrone non lo avvertiva? Probabilmente no. Lui e sua moglie ignoravano talmente tanto del mondo.

    Le sue pupille si dilatarono mentre si accostava al vetro, oltre il quale si stendeva il mondo buio, pieno degli odori nuovi della notte. Ma quelli non gli interessavano. La cosa era là. Era proprio là fuori.

    Arrf-arr-arr-arr-arrf!

    Vattene! Questa è la casa del mio padrone! Non puoi entrare!

    La cosa non diede alcun segno di averlo udito o compreso. Ma lo sentirono i suoi amici delle case vicine e, comprendendo, ripresero il suo latrato.

    «Che c'è, Shadow?» chiese ancora il padrone, ora al suo fianco.

    Il cane guardò lui, poi la finestra, ringhiando un altro avvertimento.

    «Non c'è niente là fuori! Piantala una buona volta di fare chiasso.»

    Non la vedeva? Certo non poteva fiutarla, ma com'era possibile che non vedesse?

    Arr-Arr-Arr-Aruff-Arr-Arr-Arruff-Arruff!

    No! Non lo avrai! Morirò prima di lasciarti avvicinare a lui! Va' via! Male! Pericolo!

    Shadow alzò gli occhi, i denti esposti in un ringhio, quando la cosa penetrò attraverso il vetro... Come ci era riuscita?... Le si avventò contro, ringhiando e mordendo, artigliando il nulla.

    «Calmati, amico!» esclamò il padrone, anche se ora nel suo odore Shadow percepiva un primo accenno di inquietudine.

    Devi avere paura, padrone! Scappa!

    Shadow lo afferrò per i pantaloni, tirò.

    Scappa! Ti prego!

    L'uomo si chinò a spingerlo via. Shadow fece un ultimo balzo, si voltò verso il fetido orrore che gli pugnalava le narici come gli aculei di un porcospino ed emise un ringhio selvaggio, frapponendosi tra la cosa e il padrone.

    La cosa gli passò attraverso e fu nel corpo del suo compagno, lacerandolo dall'interno. L'uomo crollò a terra. Shadow lo toccò con il naso.

    Combatti!

    Posò la zampa sul braccio del padrone, poi sul suo viso, con dolcezza, così che solo la peluria soffice tra i polpastrelli sfiorasse la pelle.

    Non andartene!

    Ma la cosa malvagia non si lasciava dissuadere. Con un orribile grido di gioia, strappò qualcosa nel profondo. Un suono lacerante e Shadow vide la luce spegnersi negli occhi di lui.

    Noooo!

    Ma lo spirito dell'uomo non lo ascoltava più. Si allontanò fluttuando, lasciandosi dietro solo il guscio vuoto accasciato sul pavimento. Sazia, la cosa malvagia si ritirò, ma Shadow quasi non se ne accorse.

    Lo spirito del suo padrone se n'era andato per sempre.

    Non più passeggiate mattutine per chiacchierare con i vicini di casa.

    Non più il tocco delle sue mani ruvide dietro le orecchie, che accarezzavano pelo, pelle e carne, e la gioia danzava nel cuore di Shadow.

    Sollevò il muso e ululò all'anima del suo padrone.

    Ti prego, non lasciarmi!

    Ti prego, non andartene!

    Ti prego, no!

    Ti prego!

    1

    Kato aveva voglia di fare una passeggiata. Sembrava che i latrati dei cani delle case vicine, poco prima, lo avessero reso inquieto. Più lupo che siberian husky per natura, temperamento e aspetto, spesso camminava avanti e indietro per ore, imitando gli antenati che in un giorno potevano percorrere cinquanta o sessanta chilometri attraverso i boschi.

    Grazie al padre, un siberian husky, Kato era più piccolo di un lupo comune, e non pesava più di quaranta chili. In compenso aveva ereditato le zampe lunghe e i piedi enormi della madre, così come il mantello grigio carbone e gli occhi dorati. Non c'era da dubitare dell'ascendenza materna.

    Markie Cross, la sua padrona, poteva tenerlo con sé solo perché era veterinaria e non esistevano leggi locali che proibissero gli ibridi di lupo.

    Mezz'ora prima, quando fra i cani del vicinato era esplosa una frenesia di latrati, Kato non si era unito a loro. Abbaiava di rado. Seduto davanti alla porta scorrevole che si apriva sul giardino posteriore, contemplava l'oscurità, ascoltando la cacofonia di uggiolii che sembravano arrivare da ogni direzione.

    In un primo momento, Markie non ci aveva fatto caso. Come sempre, era cominciato con il latrato di un cane lontano, ma si era propagato rapidamente, fino a che tutti i cani che si trovavano fuori delle loro case si erano uniti al coro.

    A mano a mano che il frastuono aumentava, tuttavia, cominciò a sentirsi inquieta. Quello non assomigliava al consueto baccano che a volte i cani avviavano per pura socievolezza.

    Finalmente si decise ad alzare gli occhi dal libro e a prestare attenzione. Sì, quelli erano senza alcun dubbio latrati di avvertimento.

    Lanciò un'occhiata a Kato, il suo legame più stretto con l'universo canino, ma lui sedeva dandole le spalle, fissando fuori della porta. Non si era unito al coro, non si era neppure dimostrato impaziente di uscire. Se ne stava semplicemente seduto lì, le orecchie dritte. Guardando qualcosa che lei non poteva vedere.

    Di lì a poco i cani si azzittirono di nuovo. Kato rimase alla finestra per un po', quasi aspettandosi una risposta, poi spalancò la bocca in uno di quei larghi sbadigli che dicevano che non era del tutto sicuro a proposito di qualcosa.

    E riprese a camminare avanti e indietro.

    In quei casi, di solito Markie lo ignorava. Lo faceva spesso, e lei era propensa a lasciare che gli animali seguissero la propria natura.

    Quella sera, nondimeno, quell'andirivieni la disturbava. C'era qualcosa nell'atteggiamento di Kato, nel modo in cui si soffermava davanti a ogni finestra ad annusare, che non le permetteva di continuare la lettura.

    Alla fine mise giù il libro. «Passeggiata, Kato?» gli propose.

    Con un balzo e un raspare di unghie sul pavimento di legno, lui puntò verso il guinzaglio. Impossibile equivocare il messaggio.

    Sorridendo, Markie agganciò il guinzaglio, prese le chiavi e uscì nella profumata sera tropicale.

    Soffiava la brezza, simile a un bacio umido e leggero che trasportava i profumi e i suoni del Mar dei Caraibi, da cui Santz Martina era circondata. L'isola era un paradiso tropicale, dove i ricchi potevano nascondersi dal resto del mondo, in una privacy geografica che però non impediva loro di godere di tutti i vantaggi di trovarsi in territorio statunitense.

    A un'estremità dell'isola sorgeva Martina Town, che ospitava più della metà della popolazione locale. Tutti, tranne gli anziani e i giovanissimi, lavoravano. Le scuole erano eccellenti, le possibilità di fare shopping molteplici. Il meglio di tutto garantito dai migliori in tutto.

    Le abitazioni erano nella città vecchia, e il quartiere degli affari conservava il sapore dei vecchi Caraibi, con le porte aperte tutto il giorno, le imposte anti tormenta e cortili traboccanti di vegetazione tropicale. Le stradine strette creavano portici di unione che mantenevano la città sorprendentemente fresca anche nei giorni di maggior calura. La vita scorreva lenta. La vita era bella.

    All'estremità settentrionale dell'isola, sul fianco di Mount Cortez, le ampie tenute dei più abbienti si affacciavano sul mare baluginante, rivaleggiando con il meglio che Monterey Coast aveva da offrire.

    Quella sera, però, Markie e Kato si avviarono a ovest lungo la Second Avenue. Normalmente, lei avrebbe svoltato a sinistra per raggiungere la sua clinica, all'angolo con La Puerta, per poi proseguire fino ai giardini sul lungomare. Ma quella sera Kato non voleva saperne. La trascinò oltre uffici e negozi, oltre file di case, vicoli angusti e minuscoli cortili occupati da cani innaturalmente silenziosi.

    Quando era arrivata sull'isola, Markie aveva avuto la netta sensazione di essere finita in una sorta di Disneyland per adulti, dove tutto era, e si prevedeva che rimanesse, perfetto. La gente, d'altra parte, era amichevole, il clima straordinario e lo stipendio troppo alto perché potesse rifiutarlo. Veniva pagata regolarmente, aveva a sua disposizione le più moderne apparecchiature della medicina veterinaria, ed era in grado di eseguire qualunque prestazione, da un intervento chirurgico alla pulizia dei denti. Come avrebbe potuto lamentarsi? Non doveva neppure farsi pagare dai suoi pazienti.

    E per il momento, provare riconoscenza nei confronti della struttura elitaria locale non le risultava minimamente faticoso.

    Kato continuava a tirare, facendo intendere con chiarezza che non erano ancora arrivati alla destinazione prescelta. Con una scrollata di spalle, lei decise di lasciarlo fare. Capitava di rado che si comportasse in quel modo, e lei non aveva alcuna intenzione di discutere con quaranta chili di testardaggine lupesca. Non aveva impegni, e aveva imparato da tempo a scegliere con cura le sue battaglie quando si trattava di quel particolare esemplare canino.

    Superarono un altro isolato. Kato teneva la testa alta, come se fiutasse qualcosa al di sopra di lui. Quanto al di sopra, la sua padrona lo ignorava. I cani erano capaci di distinguere deboli odori fino a cento metri di altezza, ed era probabile che Kato, con i suoi ascendenti, potesse fare perfino di meglio.

    La sua mente aveva ripreso a divagare, ed ecco che erano arrivati in fondo alla Second Avenue e Kato tirava verso sinistra e Harbor Street. Cinquant'anni addietro, prima che urbanisti e imprese aggiungessero aree lottizzate, e prima dell'espandersi dei quartieri suburbani, quella strada aveva segnato il limite occidentale della città. Più oltre, il fascino caraibico lasciava il posto alla perfezione pianificata.

    Non quella sera, tuttavia.

    Davanti alla casa erano ferme un'ambulanza e due autopattuglie, le luci vorticanti sui tettucci. Era successo qualcosa di brutto. Lei avrebbe voluto proseguire, ma ancora una volta Kato dimostrò di avere altri progetti.

    Quando raggiunsero il limite del cortile, si sedette e piantò con decisione le zampe per terra. La sua postura diceva che non avrebbe più fatto un solo passo, qualunque cosa succedesse. Markie era imbarazzata. Non voleva restarsene lì come una maniaca dell'orrido, ma neppure gli strattoni più energici persuasero Kato a muoversi.

    Si stava avvicinando un agente di polizia. Lei riconobbe Tom Little, proprietario di uno dei suoi pazienti più assidui, un barboncino toy con problemi di digestione. Giamaicano, Tom parlava con un accento che era a un tempo inglese e cadenzato, e la sua carnagione era di una bellissima tonalità caffè. «Ciao» lo salutò Markie.

    Lui rispose con un cenno. «Salve, dottoressa. Kato le sta dando problemi?»

    «Sembra deciso a restare qui.»

    Tom ridacchiò. «Be', lo lasci fare. Non c'è niente di raccapricciante da vedere. È probabile, però, che senta l'odore.»

    «L'odore di che?»

    L'agente indicò la casa con il pollice. «Carter Shippey è morto poco fa. Lo ha trovato la moglie. Sembrerebbe un attacco cardiaco.»

    «Mi dispiace.»

    «È triste. Aveva solo sessantatré anni.»

    Un'età a rischio per gli attacchi di cuore, considerò Markie con tristezza. «Qualcuno si sta prendendo cura della signora Shippey?»

    Tom annuì. «Certi vicini l'hanno portata a casa loro. Stanotte non resterà sola.»

    «Bene.»

    Markie abbassò gli occhi su Kato, ma il cane ancora non si mosse. Ogni fibra del suo essere sembrava puntare verso la casa.

    «Non si preoccupi per lui, dottoressa» disse il poliziotto, chinandosi per una rapida grattatina dietro l'orecchio di Kato. «Si muoverà non appena avranno portato via il corpo.»

    «Lo spero. Non voglio restare qui tutta la notte...» borbottò lei.

    In quel momento si avvicinò un'auto, una BMW che Markie riconobbe. Declan Quinn, uno dei dodici o giù di lì medici dell'isola. Lei non aveva ancora avuto la necessità di rivolgersi a loro, ma li conosceva di vista, così come stava imparando a conoscere quasi tutti, un po' alla volta.

    Il dottor Quinn scese dalla macchina. Indossava un paio di pantaloni di cotone beige e una polo celeste che enfatizzava la sua avvenenza di irlandese scuro: capelli neri, splendenti occhi azzurri. Markie lo vide avvicinarsi al cordone di polizia e far balenare un distintivo.

    Dunque era lì nelle vesti di medico legale, pensò, sorpresa. Qualcuno non credeva che quello fosse un normale attacco cardiaco.

    Alla porta, Declan firmò, altro segno che quella era a tutti gli effetti la scena di un crimine, poi entrò.

    Forse si trattava di una procedura standard, si disse Markie. Forse tutte le morti improvvise venivano inizialmente gestite in quel modo. Sembrava logico.

    Guardò Kato: le sue orecchie non erano semplicemente diritte, ma vibravano, quasi scandagliassero l'aria alla ricerca di qualcosa.

    Poi fece qualcosa che lei non gli aveva mai visto fare in precedenza: arricciò le labbra, scoprendo i denti. Fu un gesto appena accennato, ma ugualmente inquietante che le strappò un brivido.

    Una parte di lei avrebbe voluto prenderlo tra le braccia e avviarsi, un po' barcollante per il peso, verso casa. Un'altra parte, invece, pensava con apprensione alle strade deserte. Il cane percepiva una minaccia di qualche tipo e la vicinanza di Tom Little era rassicurante. Ma a un isolato di distanza, lei e Kato si sarebbero ritrovati soli.

    «Kato.»

    Lui la guardò, le pupille così dilatate che gli occhi dorati sembravano quasi neri.

    «Casa?»

    Evidentemente no. L'animale tornò a guardare la casa e lei se ne restò lì, da quella docile proprietaria di cane qual era. In altre circostanze, lo avrebbe trovato divertente. Non quella sera, però.

    Be', che cosa ti aspettavi dalla mescolanza tra due tra le razze più indipendenti del mondo? Non certamente un cane da grembo. Il lupo era un animale selvatico che poteva essere addomesticato solo fino a un certo punto, e il siberian husky non distava molto da lui nella catena genetica, un cane creato perché pensasse a se stesso, percepisse pericoli di cui l'uomo era inconsapevole e proteggesse la slitta e i compagni, fino al punto di ignorare gli ordini del conducente.

    Risultato: Markie Cross era bloccata in strada in piena notte, simile a un avvoltoio in attesa di recuperare le ossa, perché il suo maledetto cane non voleva saperne di muoversi.

    Ci riprovò. «Kato, è ora di andare a dormire.»

    Lui sbuffò con palese disgusto. Non ancora.

    Sulla porta comparve una barella, il suo carico avvolto in un sacco nero. D'impulso, Markie si segnò e mormorò una breve preghiera per l'anima di Carter Shippey. Lo sguardo fisso, imperturbabile, Kato seguì la barella che puntava verso l'ambulanza. Lo sportello si chiuse e il veicolo si mise in moto. Niente luci, niente sirena; il silenzio parlava da solo.

    Uscì Declan Quinn. Scambiò qualche parola con due agenti, ma a voce troppo bassa perché lei potesse sentire.

    Fu allora che la scorse. Senza sapere perché, Markie non fu contenta di vederlo avvicinarsi. Non era il modo con cui si muoveva, con aggraziata scioltezza, quanto la sua espressione. La guardava come se la considerasse colpevole di qualcosa.

    Kato, nondimeno, scelse giusto quel momento per assumere la sua miglior posa, quella che sembrava voler comunicare: Sono un cagnolino tanto simpatico, sdraiandosi col muso tra le zampe ed esibendo uno sguardo tenero. A quel punto lei gli avrebbe ringhiato volentieri contro.

    «Dottoressa Cross...» mormorò Declan tendendole la mano.

    «Sì. E lei è il dottor Quinn.»

    Lui ebbe un sorriso vagamente malizioso. «Proprio così.»

    Sorprendentemente, Markie si scoprì a ricambiare il sorriso.

    Quello del medico, tuttavia, era già scomparso. «C'è un motivo per cui si trova qui? C'è qualcosa che deve dire?»

    La faccenda si faceva imbarazzante. «Mmh... no» farfugliò lei. «Mi ci ha trascinato il cane e ora rifiuta di muoversi. È testardo.»

    Declan si accovacciò davanti a Kato. «Come si chiama?»

    «Kato.»

    «Ciao, Kato.» Tese la mano, il palmo rivolto verso l'alto. Il cane la annusò tenendosi a distanza, le orecchie appiattite sulla testa.

    «È in parte lupo» spiegò Markie. «Non fa amicizia facilmente.»

    «Lo vedo» commentò Declan. «Dovrei preoccuparmi?»

    «No. Appiattire le orecchie in quel modo è un segno di sottomissione. Significa che è consapevole della sua forza.»

    Quando Quinn gli sfiorò la testa con la punta delle dita, il cane accettò la carezza, ma Markie lesse la tensione nel suo atteggiamento.

    «È meglio che sia lui a prendere l'iniziativa» spiegò. «Quando sarà pronto.»

    Declan si alzò e subito Kato lo imitò. Dopo aver fiutato nuovamente l'aria, emise un lungo ululato lamentoso. Markie sentì un brivido lungo la schiena.

    Anche Declan parve percepire qualcosa, perché indietreggiò. «Lo fa spesso?» volle sapere.

    «No. Solo quando cerca di dirmi qualcosa.»

    Gli occhi azzurri erano fissi su di lei. «E che cosa sta cercando di dirle?»

    «Non ne ho la benché minima idea. Ha sentito i cani abbaiare, poco fa?»

    «Più o meno. Non ci ho fatto molto caso.»

    «Sembrava che ci si fossero messi tutti i cani dell'isola. Lui si è innervosito, così ho deciso di portarlo a fare un giro.»

    «E si è ritrovata qui?»

    «Lui mi ha trascinata qui. E non ha più voluto muoversi.»

    Declan le lanciò una lunga occhiata, quasi a misurare la sua sincerità. Apparentemente soddisfatto, tornò ad accovacciarsi. Kato incontrò il suo sguardo e lo sostenne.

    «Che cosa sai, amico?» chiese gentilmente lui. «Sai qualcosa?»

    Markie si sentì gelare. «Non è stato un attacco cardiaco?»

    Il medico la guardò. «Non lo saprò con certezza fino all'autopsia.» Aveva risposto senza esitazioni, ma lei ebbe la netta sensazione che ci fosse dell'altro. E se era così, era evidente che non intendeva discuterne.

    «Posso darvi un passaggio?» propose lui.

    «Dipende da Kato.»

    Declan mosse un passo in direzione dell'auto. «Vieni, Kato, è ora di andare a casa.»

    Con sorpresa di Markie, il cane lo seguì.

    «Mi hai fatto fare la figura della bugiarda...» sibilò lei tra i denti.

    Il lupo la guardò, poi sbadigliò.

    Dall'altra parte della città, un telefono squillò. Tim Roth pigiò il pulsante di pausa sul telecomando del DVD e prese il cordless. «Sì?»

    «Carter Shippey è morto» disse Steve Chase.

    «E...?»

    «Casa sua brulica di poliziotti.»

    «E con questo?»

    «Se trovano la buca...»

    «Se trovano la buca, non succederà proprio niente. È sotto la casa.» Tim si interruppe. «Com'è morto?»

    «Pare per un attacco di cuore.»

    «Cose che succedono.»

    «E se non fosse così? Se lei fosse tornata?»

    Tim sospirò. «È solo un mito, una leggenda locale. Carter era anziano, non stava bene. Non ha più fatto esercizio fisico da quando ha venduto il peschereccio. Non esattamente la formula ideale per la longevità.»

    «E sua moglie?»

    «Non è cambiato niente. Crede che stiamo cercando una perdita nella conduttura idrica centrale.»

    «Va bene. Va bene.»

    «Rilassati. Non stiamo facendo nulla di illegale.»

    «Lo so, ma...»

    Tim sospirò di nuovo. «Niente ma. Manda dei fiori alla signora Shippey, con le più profonde, le più sentite condoglianze da parte del Senato. Poi rimettiti al lavoro.»

    Riappese scuotendo la testa e tornò al suo film. C'era gente che si lasciava prendere dal panico per qualsiasi cosa. Non aveva gusto per la vita.

    Né per la morte.

    2

    Alle sei del mattino seguente, Declan era all'obitorio dell'ospedale in attesa dell'arrivo del suo assistente.

    Sopra la porta campeggiava un cartello su cui era scritto in eleganti caratteri bianchi e neri: Rue Morgue. Più sotto, un altro avviso, questo intagliato nel legno, diceva: Lasciate ogni speranza o voi che entrate.

    Era stato lui a montare i cartelli otto mesi prima, al suo arrivo sull'isola. Aveva appena lasciato il suo incarico di primario chirurgo in traumatologia presso un grande ospedale di città per trasferirsi in quell'isola di paradiso, e a causa della sua precedente esperienza era stato nominato medico legale. Aveva quindi un lavoro e mezzo, una situazione nel complesso infinitamente meno stressante del suo incarico di un tempo. E nessuno si era mai lamentato del mordace umorismo dei due cartelli.

    Né avrebbero dovuto, pensò ora. Che diavolo, era l'unico medico di Santz Martina ad avere anche la qualifica di patologo, posizione che aveva accettato facendo buon viso a cattivo gioco.

    Arrivò finalmente il suo assistente, un infermiere di nome Hal Devlin. Portava due tazze di plastica.

    «Caffè per lei» spiegò. «Cappuccino per me.»

    «Grazie mille, Hal...» mormorò lui.

    Entrarono nella piccola anticamera, poi Declan aprì la porta del suo ufficio. L'assistente lo seguì.

    La stanza era grande quanto bastava per ospitare una scrivania e diversi scaffali rigurgitanti di tutti i testi possibili e immaginabili di patologia, procedura autoptica e indagini su omicidi. Declan era l'unico ad averli aperti. Le foto, dettagliate ed esplicite, erano peggiori di qualsiasi fantasia hollywoodiana.

    «Che cosa abbiamo, oggi?» volle sapere Hal, lasciandosi cadere pesantemente sulla sedia di fronte alla scrivania.

    «Maschio sessantenne, decesso improvviso. Nessun segno di violenza.»

    «Attacco cardiaco» decretò l'altro, con la sicurezza di chi lo ha già visto accadere.

    Declan scosse la testa. «Non credo.»

    L'infermiere aggrottò le sopracciglia. Era un giovane snello prossimo alla trentina, con la carnagione dorata e gli zigomi larghi tipici dei nativi. «Sta dicendo che abbiamo un mistero?»

    «Non sono sicuro di sapere che cosa abbiamo tra le mani. Quando ho visto il corpo, stanotte, era stranamente molliccio.»

    Hal si strinse nelle spalle. «Insufficienza cardiaca congestiva. Il corpo trattiene quindici, venti litri di acqua in eccesso.»

    «Le caviglie non erano gonfie.»

    A quel punto il giovane parve recepire il messaggio. «Che cosa sta cercando di dirmi?»

    «Non lo so con esattezza. Potrebbe trattarsi di edema, ma se lo è, è il peggiore che abbia mai visto. Direi che la consistenza era spugnosa.»

    «Che delizia. Chi è il morto?»

    «Carter Shippey.»

    «Oh, Gesù.»

    Declan annuì. «L'ho visitato un mese fa. Stava bene.»

    Posò i piedi sulla scrivania mentre sorseggiava il caffè e fingeva di non sentirsi inquieto. Trasferendosi sull'isola, aveva voluto lasciarsi alle spalle la tensione che quasi lo aveva ucciso. Sfortunatamente, gli incubi lo avevano seguito, e gli avvenimenti spiacevoli gli ricordavano la sua naturale tendenza all'apprensione.

    Né lo aiutava il fatto che Carter Shippey non avesse l'aspetto degli altri infartuati in cui si era imbattuto.

    Hal stava ancora scuotendo la testa, incredulo.

    «Naturalmente» riprese il medico, «un'aritmia fatale può colpire anche senza avvertimenti. Ecco perché l'ho definito un decesso improvviso. Ma dallo stato del cadavere...»

    I corpi sono sempre flaccidi prima dell'instaurarsi del rigor mortis, ma nel caso di Carter Shippey c'era

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