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L'età difficile
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E-book217 pagine2 ore

L'età difficile

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Info su questo ebook

Lenuccia, una ragazza fragile e spavalda, in cerca dell’amore di cui ha bisogno per riempire il vuoti interiore.
La sua è una storia facile da leggere, difficile da dimenticare.
Lenuccia, che vive su quel confine difficile e a volte pericoloso fra adolescenza ed età adulta, risponde alla rottura di alcune relazioni sulle quali aveva puntato rifugiandosi in rapporti occasionali e fugaci con sconosciuti.
La sua non è però la storia di una giovane ninfomane ma quella di una ragazza fragile e spavalda che, attraverso il sesso, cerca di procurarsi l’amore di cui ha bisogno per riempire il vuoto interiore. Aveva perso la madre troppo presto, quando era poco più di una bambina. “Era andata via senza darle la possibilità di fare almeno una di quelle scemate che ogni adolescente sente di avere il diritto di fare”.
Cambi di ritmo scandiscono il passaggio dalla lentezza di una quotidianità vuota alla convulsione dei momenti di parossismo psicologico e sessuale. I colpi di scena ricordano che le svolte improvvise possono cambiare la vita di chiunque in ogni istante.
Pagine dure e crude si alternano ad altre più morbide e poetiche, una scelta stilistica che racchiude gli alti e i bassi della vita. Una storia facile da leggere, difficile da dimenticare.
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2018
ISBN9788833281704
L'età difficile

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    Anteprima del libro

    L'età difficile - Mario Grasso

    dell’essere

    Uno

    Capì che stava crescendo quando, mentre correva sulla spiaggia sabbiosa di Cala Portavecchia inseguita da Tex - il labrador di nonna Oronza - avvertì, per la prima volta, la sensazione di due seni che, dondolando, si scontravano a ritmo della sua andatura.

    Tex era stato chiamato così perché aveva il petto giallo come la camicia di Tex Willer; e del ranger aveva anche la prestanza fisica. Era una gioia vederlo affondare il muso nella ciotola quando mangiava, oppure mordicchiare l’orlo dei pantaloni di Lenuccia per attirare la sua attenzione.

    Lenuccia Santoro li ricordava col magone quei momenti, ultimi frammenti di una spensieratezza svanita con la morte della mamma prima e della nonna poi. Ora, non ancora ventottenne, era sola; nonostante il gran numero di uomini che avevano già riempito la sua vita.

    La sua era stata una famiglia felice - così la ricordava - sino al suo dodicesimo compleanno, quando il clima casalingo si era fatto progressivamente più teso, fino a diventare insostenibile. Poi la mamma aveva scritto quella lettera.

    La casa avita - un austero casale di pietra con le finestre così bombate da ricordare il moto del mare mosso - era al confine fra il borgo murattiano e la zona nuova di Monopoli. Era una delle pochissime aree agresti che si erano salvate dalla rapida crescita urbanistica della città.

    Sorgeva su una ´nchianat – una salita - di qualche centinaio di metri; da lassù si intravedevano le antenne e le parabole satellitari sui tetti delle case e, in fondo, la linea scintillante del mare.

    La campagna che circondava l’abitazione le piaceva perché il panorama cambiava in continuazione, passando dal verde lussureggiante all’oro del grano maturo, fino al marrone della terra, quando, arsa dal sole, si secca e si spacca.

    Era bello sedersi nel giardino le sere d’estate, quando si sentiva solo un coro vibrante di insetti. Molti sostenevano che fossero grilli, ma nessuno ne aveva mai visto uno, nell’erba o fra i cespugli circostanti. Era una presenza di puro suono a cui tutti si erano abituati, facendola diventare parte della propria vita. Un canto mille volte più gradevole degli strilli che accompagnavano gli amoreggiamenti o le zuffe fra gatti e i latrati delle cagne prossime al parto.

    Il sentiero in terra battuta, che dalla strada asfaltata portava verso casa, si snodava tra cespugli di ginestra e olivi ritorti. Le pietre che delimitavano il sentiero erano nuove e il giardino in perfetto ordine. Rivolse mentalmente un grazie a Ualino, diminutivo di Pasquale, amico della nonna fin dall’infanzia, che si prendeva cura del loro giardino.

    Pastore di pecore per oltre quarant’anni, Ualino era diventato un vaccaro e al pascolo portava le mucche. Ci teneva a sottolineare vaccaro perché per lui era importante: il pastore è nomade e dorme con le pecore dove capita; il vaccaro è invece più sedentario, pascola su terreni suoi, ha una casa e una stalla.

    Non ci vedeva da un occhio a causa di una febbre maligna che glie lo bruciò, come la peronospora brucia i vitigni giovani che non hanno radici profonde. La pupilla si era affumicata come una castagna lasciata più del dovuto sulla brace.

    Era da parecchio che Lenuccia non vedeva quella casa, da oltre cinque anni. Il periodo che aveva trascorso in carcere.

    Gli avvolgibili delle finestre erano abbassati come tante palpebre e le aiuole inselvatichite facevano pensare a una casa disabitata.

    Avvicinandosi, lo sguardo corse al comignolo, dal quale la sera sbucavano i pipistrelli per lanciarsi in volo a caccia di insetti. Una volta ne aveva trovato uno morto proprio sul retro della casa; ricordava che aveva la faccia di un vecchietto incartapecorito e due dentoni troppo grossi per il piccolo volto.

    La piastrella di ceramica con la scritta San Michele proteggi questa casa era sempre lì, sul battente di pino chiaro, un po’ sopra il picchiotto di ferro battuto che la nonna aveva fatto realizzare da un fabbro.

    Più che nella vista, il senso di quel ritorno era nell’olfatto, negli odori familiari che la rassicuravano di essere di nuovo a casa. Era da tanto che non usava la parola casa. Negli ultimi tempi ricorreva a giri di parole come da me o dove abito. Ora era nella casa dell’infanzia, piena di angoli segreti, di storie ascoltate in cucina e delle avventure vissute in soffitta.

    Aveva indossato gli occhiali da sole per difendersi dalla luminosità accecante della giornata, ma non solo per quello: non voleva mostrare che il ritorno in quella casa le bagnava gli occhi.

    Varcò la soglia.

    Inspirò profondamente alla ricerca di quell’odore particolare che si trova in qualsiasi casa, un misto di polvere, sudore, maionese, deodorante. Ritrovò subito l’odore dei pomodori, che aveva impregnato i muri e le travi del soffitto, oltre che i suoi ricordi.

    Nulla era cambiato, là dentro: le stesse sedie pesanti e manierate come doccioni di cattedrali gotiche, il tavolo grande col ripiano non tanto in linea, la madia che odorava di pane fatto in casa, la padella bucherellata per arrostire le castagne, appesa al muro fra mestoli, forchettoni e pentole di rame. Sulla carta da parati dal colore anonimo erano appese stampe scolorite che ne tradivano l’età.

    In quell’enorme stanzone – allo stesso tempo salotto, cucina e sala da pranzo - si era svolta gran parte della sua vita.

    Posò la valigia per terra e si accasciò sul sofà Chippendale di chintz rosa. Doveva ricreare un rapporto con quell’ambiente, che aveva amato e odiato. Senza fretta, però.

    Sulla mensola di fronte al divano, sopra il camino in pietra leccese, un vecchio carillon - di quelli che non se ne vedono più - faceva un figurone fra le altre carabattole. I buchi del ruzzolone di un vecchio telefono di bachelite nera mettevano in mostra i numeri ancora ben leggibili. Una collezione di scatole di fiammiferi prendeva polvere in un bauletto di biscotti, di quelli di latta. Un pezzo del ripiano era occupato da una serie di statuine intagliate nel legno, che non avevano alcun legame di coerenza tra di loro: madonne, tartarughe, barche… oggetti raccolti nel tempo dalla mamma. Le sarebbe piaciuto conoscere il significato che avevano avuto per lei, ma ormai…

    Aprì la porta della cantina e fu travolta da una zaffata di muffa, il tanfo da ascella del mare. Non scese, e nemmeno salì al piano superiore, dove c’erano le camere da letto. Preferì ritornare all’aperto e sedersi sul sedile di pietra incassato nel muro a destra della porta. Si lasciò carezzare le guance dal vento e rimase per un po’ a guardare una colonia di formiche intente a trasportare chissà cosa nel loro rifugio sotterraneo. Respirò a pieni polmoni per riempirsi del profumo di rosmarino e citronella, godendosi il sommesso chiacchiericcio delle cicale che alla controra si sarebbe trasformato in uno schiamazzo assordante.

    Quel sedile era il suo posto preferito anche da piccola. Nelle domeniche d´estate ci passava buona parte del pomeriggio in compagnia del cuginetto Luca. La sua famiglia si riuniva spesso con quella dei vicini: d´estate all’aperto e d’inverno intorno al camino.

    C’era il melone giallo, di quelli a siluro, che superavano anche i dieci chili di peso. Veniva messo in un catino col ghiaccio prima di essere affettato. Non si buttava via niente di quel succoso frutto. La polpa la mangiavano piccoli e grandi: i primi divorando la fetta a grandi morsi, i secondi tagliandola a dadini per poi mangiarla con la forchetta. Le bucce entravano nel pasto domenicale dei maiali e i semi impegnavano il pomeriggio delle donne: si riunivano in giardino, all’ombra, a infiocchettare al meglio i pettegolezzi, mentre li sgusciavano coi denti e ne mangiavano il modesto contenuto. Ai ragazzini venivano date da masticare le carrube, i cui semi avevano un sapore dolciastro che ricordava vagamente il cioccolato.

    Nel corso di quegli incontri la mamma era felice e anche nonna Oronza, che poteva distribuire le sue perle di saggezza. Poi le riunioni diminuirono, perché sua madre cominciò a spegnersi e a isolarsi dalle cose del mondo. Fu la nonna a trovare quella lettera, che non fece leggere a nessuno, e il papà si precipitò a chiamare il dottore che abitava poche case più in là.

    La lettera era appoggiata su un libro di poesie di Walt Whitman che aveva l’angolo di una pagina piegato su se stesso. Un verso di quella pagina era sottolineato in rosso: la morte non è ciò che credevamo, ma una fortuna più grande.

    Alcuni anni dopo nonna Oronza parlò a Lenuccia di quella lettera, più volte, ma non le dette mai la possibilità di leggerla.

    «Un giorno, un giorno…» prometteva, e rinviava sempre il momento.

    E se Lenuccia insisteva, lei partiva con una filastrocca che le canticchiava da piccola per farla ridere: Crà, pscrà, pscridd e pscrudd, domani, dopodomani, fra tre giorni, fra quattro giorni. Poi smise di parlarne, perché comincio a non starci più con la testa, ma non tanto da essere un pericolo per sé e per gli altri. Per questo motivo non fu mai stata presa una decisione diversa da quella di continuare a farla vivere nella sua casa.

    Una notte Lenuccia sognò che la nonna la invitava a bere una tazza di cioccolata calda e lei accettava con piacere. Sedute sul divano, le tazze fumanti sul tavolino davanti a loro, lei chiese dei biscotti e la nonna, indicando il tavolino, le disse: «Sono lì.» Ma lì non c’erano biscotti, solo due tazze. «Mangiali», esortava la nonna con un sorriso. Lenuccia, indecisa sul da farsi, allungava una mano e afferrava un niente, portandoselo alla bocca. Aveva masticato aria e ripetuto il gesto più volte sotto lo sguardo amorevole della nonna, che annuiva approvando. Lenuccia si era svegliata con un groppo alla gola. Povera nonna, aveva pensato. Il pensiero era stato però scacciato dalla sensazione di avere in bocca il sapore di miele e di mandorle. La forza dei sogni - si disse - e sulle guance le erano corsi due rivoletti umidi.

    Si trasferì dalla nonna – la mamma a quel tempo non c’era più e il papà era, per questioni di lavoro, più a Bari che a Monopoli - e fu così che trovò la lettera. La tenne per sé, e ce l’aveva anche quel giorno. Rientrò in casa, cercò nella valigia, la trovò e ritornò al sedile. La lesse ancora una volta, dopo le mille volte che l’aveva già letta.

    "Perdonatemi se vi creo un problema, se vi costringo al dolore.

    Domani non mi alzerò presto, non seguirò il rituale di tutti i giorni, non fingerò di essere serena, ma non avrò nemmeno l’ansia di andare a letto e, a luce spenta, ritrovarmi faccia a faccia con la mia solitudine. Non avvertirò più quel vuoto che non so bene dove localizzare, quel qualcosa come una buca nella sabbia che si cerca di riempire d’acqua sapendo che non ci si riuscirà.

    Finalmente sarò libera da quel senso di prigionia che negli ultimi anni mi opprimeva e che non dipendeva da luoghi o persone della mia vita, ma da qualcosa che covavo nei recessi più profondi del mio cervello.

    È questa liberazione che mi porta a dire che la morte non è male, purché non sia quella graduale che succhia la vita giorno dopo giorno, che fa spegnere poco alla volta.

    Ti ho voluto bene Cosimo, e anche tu ne hai voluto a me. Abbiamo passato insieme anni belli, poi il mio male ha preso il sopravvento e ti ha fatto allontanare da me proprio nei momenti in cui avevo maggiormente bisogno di te. Non te ne voglio perché non sapevi, non ti avevo mai parlato della mia depressione.

    So che per una madre è innaturale che la propria figlia muoia prima di lei; mi duole che tu, mamma, debba soffrire per questo, ma sono certa che continuerai ad amarmi come hai sempre fatto. Ti ringrazio per tutto l’amore che mi hai dato.

    Immagino il dolore che la mia partenza procurerà alla mia bambina: non potrò darle tutto quello che la mia mente e il mio cuore avevano preparato per lei. Non ho avuto tempo per insegnarle molte cose, ma non importa: quelle più importanti glie le insegnerà la sua stessa vita. Se mi sarà concesso, sarò il suo angelo custode domani e sempre. La proteggerò perché la vita è dura e non coccola nessuno e ogni giorno le dirò di impedire a chiunque di spegnere i suoi sogni.

    In ultimo, concedetemi di essere cremata e ricordate l’amore che ho avuto per voi tutti e le cose buone che ho fatto, se ne ho fatte: dimenticate tutto il resto."

    Era andata via senza darle la possibilità di fare almeno una di quelle scemate che ogni adolescente sente di avere il diritto di fare.

    Nuovi rivoletti inumidirono le guance di Lenuccia. Sembrava che perfino i passeri si fossero fermati sui cavi della luce a osservare la scena.

    «Devo andare a trovarla», si disse pensando alla madre. E ancora una volta i ricordi tornarono ad agitarsi.

    È così che si guarisce dalle sofferenze della vita, tornando indietro con la memoria alla ricerca di quella nostalgia malinconica che cancella le cose brutte e riempie l’anima di dolcezza.

    Due

    Nonna Oronza aveva una fitta ragnatela di rughe sulla faccia, che le macchie cheratinose rendevano sempre più simile a un volto maschile. Era difficile ravvisare su quel volto le tracce della bellezza che i più vecchi giuravano avesse posseduto in passato. Tuttavia, alla presenza ci teneva ancora, Oronza. Portava i capelli annodati sulla nuca, con una leggera frangia sulla fronte, ispirazione di una moda decisamente d’altri tempi, e un nastrino di velluto nero intorno al collo.

    Viveva in una casa a poche centinaia di metri da quella dei genitori di Lenuccia - sua figlia Luce e il marito Cosimo - ma era in quest’ultima che passava gran parte della giornata, a prendersi cura del grande giardino da lei stessa creato. Un impegno, quello del giardino, che non aveva mai abbandonato. Quando soffiava forte il maestrale era lei che addossava le piante ai muretti, oppure le copriva con il cellophane. Le più delicate le portava in casa e ce le teneva finché il vento sbolliva la sua incazzatura.

    Spicciava in cucina con la stessa baldanza di una trentenne ed era anche una brava cuoca, apprezzata da tutti in famiglia.

    Teneva spesso a pranzo Lenuccia, che gradiva sempre, anche se un po’ meno nel periodo fra maggio e giugno, quando i piatti della nonna erano prevalentemente a base di fave.

    Senza ombre era il suo legame con la nipotina, nei confronti della quale manifestava la capacità di mantenersi in sintonia, senza mai indispettirla. Sapeva prenderla con dolcezza, ma anche esercitare la fermezza quando necessario; riusciva a divertirla con poco, ma anche a farle rispettare gli impegni scolastici e portare senza lagne l’apparecchio per i denti.

    Quando Luce passava a riprendere la figlia per riportarla a casa, erano sempre capricci da parte di quest’ultima. Non voleva portare via nemmeno la sua bambola: «Tanto domani torno qui.» Abbracci e pianti di commozione c’erano anche quando nonna e nipote si rivedevano dopo la colonia estiva di Lenuccia, che le teneva separate per un mese.

    Volevano tutti bene

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