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La mongolfiera
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La mongolfiera
E-book147 pagine2 ore

La mongolfiera

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Info su questo ebook

Margarethe, una donna negli anni novanta sulle coste del mar Baltico, con la passione per i voli in mongolfiera e un marito che sta per morire. Leonardo, giovanissimo pilota con un debole per le storie d'amore. Eckart, che alla ricerca di domande a cui poter rispondere, lasciato il lavoro e la casa, scoprirà la magia delle parole. Salomon, perso tra i ghiacci nella spedizione artica in mongolfiera nel 1897. E una città nordica, Lubecca, che continua a bruciare, senza che si sappia il perchè.
LinguaItaliano
Editoresallievi
Data di uscita9 set 2018
ISBN9788829506798
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    Anteprima del libro

    La mongolfiera - sallievi

    Indice

    Prima parte: Il fuoco

    1.

    E poi?

    Prima di rispondere si concesse un attimo d' indugio, in cui sentir vibrare la curiosità dell'altro. Si passò una mano fra i capelli, fingendo un vento che a quell'altitudine non c'era. Esitò un poco.

    Continuò: lei non sapeva il suo nome, lo poteva vedere soltanto per caso, ma non le bastava, e allora un giorno lo seguì per vedere dove abitava, e la notte si appostò al portone della sua casa. Si mise ad aspettarlo.

    Era inverno o estate?

    Era...qui fece una pausa. Margarethe faceva sempre una pausa là dove poteva costringere il destino, quello che era già successo, ad essere come voleva lei. Era una pausa diversa da quella che faceva per sentire la curiosità dell'altro. Era una pausa di fremiti, sì, il fremito prima dell'evento: era estate o era inverno? Solo lei lo sapeva, e tra un secondo sarebbe stato come voleva lei, per sempre.

    Lui aspettava, nel silenzio assoluto rotto talvolta dal consueto rumore della fiamma.

    Autunno.

    Era autunno.

    C'era la nebbia.

    Una nebbia padana.

    Il giorno era stato di nebbia, forte come le nuvole dei temporali che ogni tanto si avvicinavano, e allora lui aumentava la fiamma, e salivano, salivano fino a ritrovare il sole.

    Nebbia. Questa parola le sembrò opportuna, nella smerigliata vastità del cielo, nel cristallo quasi estivo dell'aria. Nebbia. E gli occhi di lui infatti si riposarono un poco dai riverberi dell'orizzonte.

    Lo aspettò tutta la notte, e faceva freddo, faceva sempre più freddo, così che lei si appoggiò al vecchio portone di legno per sentire il tepore illusorio che filtrava dall'androne, e si addormentò, e la trovarono la mattina dopo i netturbini che passavano alle sei, e non l'avrebbero vista nella nebbia dell'ora, se non fosse stato per il grande mazzo di rose che, scivolatole nel sonno dall'abbraccio in cui l'aveva tenuto per ore, attirava lo sguardo come un animale di pezza. Un peluche rosso fuoco.

    Qui tacque. Margarethe lo sapeva, lo sguardo di lui si sarebbe fatto triste. L'incredulità gli avrebbe impedito di godere della propria tristezza, strappato tra l'adolescente amore per il cattivo gusto e la tendenza essenziale alla ragione. Così lampeggiavano i suoi occhi per quella donna lontana e straniera, che mai aveva saputo il nome del suo amore, che quella sera non tornò, o che forse a casa già dormiva, in una di quelle vecchie abitazioni, al caldo, mentre lei lo aspettava sul marciapiedi, ed aspettandolo era morta assiderata, o d'amore, chissà, Margarethe non l'aveva detto e lui non glielo avrebbe chiesto. Morta assiderata in uno dei primi geli autunnali.

    E lui? era venuto a saperlo? Che cosa aveva detto, e fatto. Aveva avuto paura o rimorso. No, disse Margarethe, provando un po' di piacere nel farlo soffrire. Lui non lo venne mai a sapere. Quel giorno si alzò tardi e partì per una vacanza. Non tornò più in quella casa, perché si trasferì lontano, e non seppe mai di lei.

    E tu, come l'hai saputa tu, la storia? chiese sospettoso. Io? e Margarethe sorrise a questo bisogno di fonti sicure prima dell'abbandono motivato alla tristezza, senza curarsi del fatto che, giù da lei, non si moriva allora e non si muore ora di gelo in autunno. In altre storie sì. Anche in altri Paesi. Margarethe lo sapeva. Sorrise.

    Lavoravo già al locale, a quei tempi, e c'era una ragazza che faceva la stagione, una straniera che stentava a parlare, più per riserbo che per la lingua, che pur conosceva. Ecco, me l'ha raccontata lei, questa storia. La si raccontava ancora dalle sue parti, nelle campagne. E lei mi giurò di averla conosciuta, quella donna con le rose rosse in mano e quell'amore inutile e disgraziato.

    Come si chiamava?

    Che strano. Margarethe aggrottò la fronte, non mi ricordo. Non me lo ricordo. O forse non me l'ha mai detto.

    E' tempo di scendere, disse lui, e controllò il libro di bordo intravedendo in lontananza i bagliori delle mongolfiere che erano già rientrate. Alcune stavano ancora scendendo, e i loro bagliori si confondevano, all'orizzonte visto dall'alto, ai bagliori rossi del fuoco. Da tre giorni bruciava il vecchio convento, in cui si faceva l'esposizione annuale di artisti locali. C'era stata anche una piccola esplosione perché, si diceva, alcune vecchie opere contenevano, contro le disposizioni vigenti, dei vecchi tubi al neon.

    E' ora di scendere.

    Era la frase di rito. Il resto del viaggio se lo sarebbe preso il silenzio. Lui per rimuginare la storia e renderla compatibile con la propria vita, e lei per dimenticarla e rendere così di nuovo compatibile se stessa con il resto del giorno e delle settimane.

    2.

    Camminando sulla riva del canale non si era accorto che intanto si era fatto quasi buio. L’acqua in sé non lo interessava granché. Erano i suoi rumori che lo confondevano, e il mistero dei fondali e dei letti che lo invitavano al tuffo. Ma Eckard non sapeva nuotare bene. Anche quella sera c’era arrivato vicino. Ma non era saltato. Ed ora era il vespro, e doveva ritornare lungo il bordo incerto della riva. Un brivido. Non c’era quasi più nessuno in giro. Eckard allora risalì l’argine fino al sentiero regolare e si sedette a riposare sulla panchina.

    Bella serata.

    La banalità del commento lo avrebbe quasi lasciato indifferente. Ma poi si voltò. Così, non era solo. Sotto uno dei cespugli di fior d'arancio c’era la casa di un barbone. Un due tre recitò, guardando con gli occhi d’acqua il canale da cui sembrava li avesse avuti in prestito. Stesso colore stesse trasparenze.

    Eckard ebbe un po’ di paura. Così si alzò per andarsene. Si alzò senza salutare. Ecco che si mette al trotto facendo il verso ai giogghisti serali. Ma il barbone non lo lascia andare via così semplicemente. Gli grida aspetta, aspetta gli grida il barbone. E Eckard incuriosito si volta. Aspetta, gli grida ancora. Eckard non sa se è una domanda o un invito. Aspetta. E Eckard aspetta. Due minuti aspetta. Poi riprende a correre. E corre fino a casa. Aspetta che cosa. Chissà che cosa. Lui, Eckard, aspettava il suono della sveglia, quando era già sveglio prima dell'ora. O il segnale del suo collega, quando uscivano a fare le misurazioni. Aspettava una telefonata. O lo stipendio. O il sabato per dormire più a lungo. Cose così si aspettano. Non proprio cose avventurose, d'accordo, ma la vita è già così tutta programmata. Basta poco per sorprendersi, no ?

    E la morte, quella si sa che la aspettiamo tutti, anche se non è il caso di dire che la aspettiamo. Aspettare è positivo, senza paura, con un po' di aspettativa, appunto, l'ombra rimasta di una sorpresa che, oramai, in tutto quello che si fa non c'è più. Così si diceva Eckard, tornando, un po' sudaticcio e un po' turbato. Aspetta. Che cosa mai. Non importa, si dice. Sparolare da barbone. Eppure quell’aspettare e che cosa avrebbe dovuto aspettare lo torturano a tal punto che dopo dieci giorni di angosce si mette a letto ammalato, per alzarsi tre giorni dopo deciso ad andare a trovare il barbone. E chiedergli, se si fosse ricordato di lui, che cosa avrebbe voluto dirgli.

    Ma il barbone aveva cambiato dimora, così che non sarebbe stato semplice scoprire che cosa avesse dovuto aspettare.

    Ed è proprio qui che comincia la nostra storia. Da questa domanda mancata. Che poi è anche la storia di una risposta mancata. Un dramma della comunicazione ? No. Anche se in questa storia si parlerà di silenzio e di parole, di esuberi e di mancanze. E di fuoco, anche di fuoco si parlerà, il fuoco che, veramente, di esuberi e mancanze la sa proprio lunga. Sì.

    La storia di Eckard e del barbone che, in una sera di primavera quasi ancora fine inverno, gli aveva detto aspetta. Soltanto aspetta e niente più. E nel silenzio rotto dai rumori confidenziali dell’acqua, Eckard se n’era andato senza aspettare di sapere che cosa avrebbe dovuto aspettare. Eckard, che sapeva benissimo come il dettaglio, minimo e quasi assente in sé, possa cambiare la fisionomia di un terreno o influenzare un'intera area abitativa. Movimentare una composizione arborea. Salvare un edificio dal disastro.

    Il dettaglio. Bella parola.

    Ci sono però anche altri personaggi, in questa storia successa chissà quando e chissà forse in una città del nord Europa, una città piena zeppa di barboni e di canali. Altre persone e altre domande senza risposta o risposte senza domande, e quindi rimaste incomprese.

    E una donna, come in ogni storia che si rispetti, una donna di nome Margarethe, come tante donne di storie più famose, Marg

    arethe, che si sedeva ogni tanto su una delle panchine del canale, a veder passare le canoe con i ragazzi: ogni anno altri ragazzi e altre ragazze, e le canoe sempre uguali, una da destra una da sinistra, e il rumore dell’acqua, rotta da mano esperta o da mano principiante. E il sole delle sere che si frammenta sfrigolando sull’acqua, quasi veloce, quasi immobile.

    Così che questa è anche un po’ la storia di Margarethe. Margarethe Maria Magendorf, andata sposa a sedici anni per curiosità, in un paese padano, figlia di una sperduta taciturna contadina e di un tedesco di passaggio robusto e nordico, ristabilitosi da quelle parti dopo avere passato la guerra in Svizzera, così, per ricchezza, un tedesco mercantile e bonaccione, poco portato agli odi, poco portato alle opinioni, poco portato agli affari. Morta a cinquantacinque anni, forse per curiosità, vena efficace e limpida che le aveva percorso la vita, intessendola, dalle mattine estive di grilli padani all'assoluta asprezza del cielo baltico primaverile.

    O magari per stanchezza.

    Ma questa forse è già un'altra storia.

    3.

    Il tre di maggio Margarethe stava lavando una pentola. Rifletteva sui colori guardando il rosso fuoco delle barbabietole che aveva cotto, e puliva il bordo lucido dell'acciaio con un ritmo antico ed una serie di movimenti conosciuti e fraterni, come una danza usuale e perfetta.Erano due settimane che Margarethe non usciva in volo.

    L'ultima volta erano passati sopra il porto mentre bruciava l'edificio centrale del convento. Si era sentita, era il caso di dirlo, tra due fuochi.Quei voli le costavano un patrimonio, ma di soldi ne avevano a bizzeffe. Non sapevano cosa farsene. E lui, con la malattia, invece di attaccarsi ai quei beni solidi e terreni, se ne era completamente disinteressato, quasi contento di avere un motivo per farlo. Margarethe lavorava e si pagava i voli, e la banca regolava tutti i loro affari con la compiacente pazienza di un buon commerciante.

    Margarethe appoggiò la pentola sul lavello e si stupì dei ricordi, della leggerezza baldanzosa e talvolta tragicamente indifferente con cui riappaiono. Ebbe un brivido di sgomento, le gambe le si fecero molli. All'improvviso le era stato restituito un pezzetto di passato, un pezzetto che da ora in poi mai più l'avrebbe lasciata. Tutto viene custodito e riaffiora, prima o poi, senza curarsi dei nessi. Si sgomentò un poco, cercando nelle foglioline nuove, leggere e bagnate del pero un senso che l'aiutasse. Non c'era. Si sentì

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