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I racconti di un montanro
I racconti di un montanro
I racconti di un montanro
E-book267 pagine3 ore

I racconti di un montanro

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Info su questo ebook

I RACCONTI DI UN MONTANARO non trattano grandi storie di grandi alpinisti, ma vicende di chi in montagna non ha fatto grandi cose, ma la frequenta per trovarvi una più giusta realtà di vita. Perché sono queste le vicende più vere e che maggiormente meritano di essere raccontate. I racconti IL PRETE DEL CORNO ROSSO e I SERVI DELLA GLEBA, nella loro logica razionalmente esatta espongono idee rivoluzionarie in tema di religione e di assetto societario.
LinguaItaliano
Data di uscita21 ago 2013
ISBN9788868551933
I racconti di un montanro

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    Anteprima del libro

    I racconti di un montanro - Stefano Torri

    Stefano Torri

    I RACCONTI DI UN MONTANARO

    TUTTI I RACCONTI SONO STATI PUBLICATI NEL SITO INTERNET

    http://www.qui-montagna.it

    Intestato a

    TORRI STEFANO PIERO

    Via Varallino, 21

    28066 GALLIATE (NO)

    I racconti di un montanaro

    Stefano Torri

    Edizione digitale: agosto 2013

    ISBN: 9788868551933


    Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl


    A tutti coloro che vivono la montagna come parte integrante di se stessi e della propria natura,

    uno dei loro

    Cambiano gli eventi storici, passano le rivoluzioni, le guerre, le passione politiche: le montagne invece sono sempre la immutabili, come unico punto fisso di riferimento nel trascorrere del tempo. Anche le storie degli uomini che vivono l’alpinismo sono sempre le stesse. Dai pionieri del 19° secolo, da quelli dell’alpinismo acrobatico, dell’alpinismo estremo fino ai sassisti, fino a quelli che si fanno sponsorizzare per salire le cime, tutti in fondo vivono le stesse esperienze. Come eguali sono le esperienze dei grandi alpinisti: quelli che fanno la storia dell’alpinismo, come quelli che in alpinismo non fanno niente, se non l’andare in montagna, per trovare una più giusta realtà nell’eternità dei monti. Anzi le vicende vissute da questi ultimi sono le più vere. Sono quelle che maggiormente meritano di essere raccontate, alla buona, come si fa fra compagni di cordata alla sera in rifugio, dopo aver portato a termine una bella arrampicata in montagna.

    I personaggi dei racconti esistono realmente. I fatti sono veri: io stresso ne sono protagonista o spettatore o ne sento parlare da persone veritiere. Per questo motivo, a volte, i nomi dei luoghi e delle persone sono volutamente taciuti.

    IL GUSTO DELL’ARRAMPICATA

    Sicuramente i primi uomini che si sono avventurati sulle alte cime non usavano mezzi tecnici di salita. La necessità dell’uso di tali attrezzi venne successivamente quando i primi alpinisti presero d’assalto le cime allora inviolate dell’alta montagna. Il primo attrezzo di sicurezza usato è stata la corda. Legarsi in cordata aveva lo scopo di trattenere la caduta o la scivolata del compagno di gita. In merito, a quei tempi, si diceva che più numerosi erano i componenti la cordata e più facile era trattenere una caduta. La successiva generazione di alpinisti continuava a salire le cime ormai conquistate, ma per vie sempre più impegnative. Da qui la necessità di abbandonare le cordate patriarcali di un tempo per fare cordate più snelle di due o tre componenti. Il problema era sempre quello della massima sicurezza personale e di mettersi quindi nelle condizioni di trattenere il volo del compagno di cordata. A questo scopo quando il capocordata saliva faceva passare la corda dietro a spuntoni di roccia per ridurre la profondità di un’eventuale caduta. Ben presto questo artificio diventava insufficiente in relazione al continuo aumento delle difficoltà delle vie affrontate. L’ideale era quello di avere dei punti fissi di sicurezza da mettere in opera a discrezione dell’arrampicatore. Per risolvere il problema gli alpinisti dell’epoca utilizzavano chiodi a uncino o caviglie che comperavano direttamente in ferramenta. Il problema veniva risolto solo coll’introduzione di chiodi per alpinismo ad anello mobile o fisso, per fessure verticali od orizzontali. Il chiodo doveva essere forgiato in ferro dolce perché solo così entrava nella fessura adattandosi ad essa senza spaccarla. In effetti quando il chiodo veniva piantato emettendo un suono metallico particolare, si diceva che cantava bene, dava la massima garanzia di sicurezza. L’introduzione del chiodo faceva nascere non poche polemiche sulla purezza dell’arrampicata e sulla profanazione della montagna con il suo utilizzo. Un manuale d’alpinismo pubblicato a metà del 20° secolo affermava:

    "Ormai gli alpinisti sono tutti d’accordo nel ritenere l’assicurazione con chiodi non solo legittima, ma doverosa, al fine di garantire quanto più possibile l’incolumità della cordata nei passaggi più difficili e rischiosi.

    L’uso dei chiodi dovrà essere limitato allo stretto necessario, ed ogni vero alpinista preferirà rinunciare ad una scalata al di sopra delle proprie capacità, piuttosto che forzarla con una poco edificante chiodatura integrale."

    I criteri enunciati erano rigorosamente giusti per quei tempi. Ma intanto gli alpinisti andavano in montagna ad affrontare salite sempre più impegnative. Il capocordata prima di un passaggio difficoltoso piantava un chiodo e vi agganciava la corda con un moschettone. A lungo andare però, a secondo la morfologia della montagna, dopo 5, 6 chiodi l’attrito nei vari moschettoni diventava tale che la corda stentava a scorrere o non scorreva affatto. Il problema veniva risolto coll’utilizzo di due corde da passare alternativamente nei chiodi. Questa tecnica di salita prendeva il nome di "salita a forbice. Nome improprio perché le due corde non dovevano incrociarsi ma essere tenute il più possibile parallele. Un ulteriore perfezionamento della tecnica di arrampicata veniva raggiunto coll’introduzione delle staffe, vere e proprie scalette di corda che consentivano di superare tratti di parete lisci, senza appigli. Così pure la salita a carrucola. Occorre ricordare che allora si arrampicava con le corde di canapa. L’alpinista doveva quindi procurarsi una corda con la spia rosa ed una con la spia verde per distinguerle nel corso delle manovre. Piantato un chiodo più in alto possibile il capocordata vi agganciava la corda, la rossa ad esempio, ed ordinava al secondo tira la rossa" facendosi issare di peso fino al chiodo. L’utilizzo del chiodo era possibile dove esistevano fessure adatte per poterlo piantare. In caso contrario l’alpinista non era coperto da una adeguata assicurazione. La successiva introduzione dei chiodi ad espansione, degli spit fix e roc da piantare perforando la roccia con un tampone o con un trapano elettrico a batteria, rendeva possibile la sicurezza totale in qualsiasi circostanza. Si raggiungeva, è vero, il massimo livello di sicurezza personale, però si arrivava ad una situazione assurda e che sollevava non pochi problemi di ordine morale. Rifacendomi alla scala delle difficoltà in uso con la nascita dell’arrampicata tecnica, diventava più pericoloso affrontare un 3°, dove normalmente non si piantavano chiodi, che non un 4°, 5°, 6° superati con chiodature più o meno integrali. Il problema di ordine morale cui accennavo è ancora più complesso. Occorre mettere in primo piano l’assoluta sicurezza personale. Se per ottenerla si rende necessario piantare chiodi, ben vengano i chiodi. Però nello stesso tempo non bisogna perdere il significato dell’alpinismo. Alpinismo significa guadagnarsi la montagna con la propria forza fisica supportata dall’esperienza, dalla tecnica di arrampicata, dal ragionamento nella scelta degli appigli e dei passaggi più appropriati. Alpinismo significa avere il piacere di ascendere guadagnadosi la via appiglio dopo appiglio. Significa avere il gusto dell’arrampicata: ecco è proprio questo il concetto fondamentale il gusto dell’arrampicata . Quali sono i limiti di giusto equilibrio fra le necessità della sicurezza personale ed il gusto dell’arrampicata? È difficile stabilirlo, o almeno stabilire un limite eguale per tutti. Anche in questo, caso come in molti altri in alpinismo, ognuno deve regolarsi come ritiene più opportuno in relazione anche alla propria potenzialità tecnica e fisica. L’importante è quello di non perdere mai il gusto dell’arrampicata se si vuole essere veri alpinisti. Grandi arrampicatori del passato, a suo tempo osannati per le imprese da essi portate a termine, sono stati recentemente ridimensionati. Alcuni sono stati addirittura definiti muratori per il rilevante, e non sempre giustificato, numero di chiodi da essi utilizzato. Per contro ci sono vie in montagna che non ammettono altra soluzione se non quella della chiodatura integrale. Una volta, nel mio piccolo, mi sono td affrre una via considerata di difficoltà estrema anche se breve. Ho trovato piantati un chiodo ogni 30 centimetri. La salita è stata portata a termine interamente sulle staffe. Poiché la roccia era perfettamente liscia, non esisteva altra possibilità che quella di chiodare il tutto, sfruttando alcune fessure esistenti. I primi salitori hanno fatto una fatica rilevante per realizzare quest’opera, ma per quelli che l’hanno ripetuta è stato solo un gioco acrobatico. Non per niente la famosissima est del Grand Capucin superata in quattro giorni di arrampicata dai primi salitori, è stata successivamente ripetuta in 10 ore utilizzando i chiodi rimasti in parete. Questo tipo di arrampicata richiede doti fisiche e morali assolutamente eccezionali, questo è vero ed è un dato di fatto inoppugnabile. Chi la pratica merita la massima considerazione ed il massimo rispetto. Però è legittimo l’interrogativo: l’arrampicata in artificiale è ancora alpinismo?. Certamente no perché i canoni fondamentali dell’arrampicata alpinistica, il gusto dell’arrampicata, non trovano applicazione. Ma questo è solo il mio parere personale di montanaro ligio ai vecchi principi dell’andare in montagna, anche se sono intimamente convinto che siamo in molti a pensarla così

    ARRAMPICARE IN ROCCIA

    Arrampicare in roccia è come rivivere: è come liberarsi dalle tare, dalle remore, dagli inquinamenti che contaminano la vita in pianura.

    Arrampicare in roccia è come uscire dal mondo, è come purificarsi per entrare in una nuova dimensione.

    Una dimensione dove quello che si lascia non ha più valore: quello che conta è solo la verticalità della roccia, il vuoto, lo sconfinato cielo azzurro. La realtà è la propria vita affidata a nuovi elementi: gli appigli per le mani, gli appoggi per i piedi, la propria capacità nello sfruttarli.

    Arrampicare in roccia vuol dire essere liberi, liberi di ascendere verso l’alto. Le mani che accarezzano la roccia nella ricerca dell’appiglio. Un appiglio dopo l’altro innalzarsi sempre più su. Vedere l’orizzonte che si allarga fino a perdersi nell’infinito.

    Arrampicare in roccia: su sempre più su verso l’immensità. Le mani tagliate, sanguinanti per il continuo contatto con la roccia, ma arrampicare ancora. Arrampicare ancora fino ad inebriarsi di cielo e di roccia, fino ad una completa soddisfazione del proprio modo di essere alpinisti.

    Arrampicare fino a raggiungere la vetta: l’ambito premio alle proprie fatiche. Assaporare l’orizzonte delle montagne attorno perché la loro visione rimanga a lungo nel proprio animo e sia in ogni momento di conforto. Alzare le braccia verso l’alto per toccare con la punta delle dita l’azzurro del cielo.

    Arrampicare in roccia è tutto questo per chi sente la montagna come la sente un montanaro.

    GLI AMICI DEL MONTE ROSA

    Sono al rifugio Gugliermina, una piccola capanna a quota 3200 metri, al centro dell’anfiteatro formato dalle punte centrali del Monte Rosa. Le cime, di rocce rossicce, solcate da scintillanti nevai, superano tutte i 4000 metri di altezza. Le piombanti pareti da esse formate si protendono sui ghiacciai che contorti si allungano verso la valle fino a lambire, con le loro fronti estreme, i primi pascoli. Il rifugio ha il profumo del buon legno stagionato dei boschi della Valsesia, è formato da un locale d’ingresso che fa da cucina, cui segue un dormitorio. Salgo fin qui per restare solo con i miei pensieri. Sono assalito dal ricordo delle giornate che passo nelle ascensioni alle cime del Monte Rosa. Sento viva la presenza dei miei amici e compagni di cordata coi quali condivido le fatiche e i rischi delle arrampicate.

    SANDRO, il più appassionato. Un attento compagno di cordata. In una traversata su ghiacciaio mi distraggo a guardare il panorama. Non mi accorgo del cambiamento di inclinazione e di consistenza della neve, appoggio male i ramponi, inciampo, cado e parto in scivolata sul ripido pendio. Sandro pianta fulmineamente la piccozza nella neve arrestando la mia caduta, salvando in questo modo la vita di entrambi.

    GINO, un forte arrampicatore su roccia, ma dal carattere sbulinato e imprevedibile. Gino ha fatto la guerra nei paracadutisti della Divisione Folgore, ha partecipato a molte azioni rischiose: il suo reparto ha subito pesanti perdite. Nel suo animo c’è un pesane risentimento perché ha la certezza che il sacrifico dei suoi camerati, ai quali era legato da sentimenti di amicizia, morti in guerra, sia stato inutile. Con lui porto a termine la salita più impegnativa del Monte Rosa. L’anno successivo ci troviamo parecchie volte in Grigne per fare allenamento all’arrampicata in roccia. Durante queste uscite propongo a Gino di tentare una via sulla parete est del Monte Rosa: in effetti non è una via nuova, ma una variante di vie già esistenti. Però è molto elegante perché parte dalla base della parete est e tira su diritto, seguendo alcune nervature rocciose, fino al colle Zunstein. Gino accetta con molto interesse la mia proposta. L’appuntamento è al rifugio Vigevano per il prossimo mese di luglio, per fare preventivamente allenamento in quota su Lyskamm e Dufour. Gino mi precede al rifugio Vigevano. Quando arrivo a mia volta vedo che è molto impegnato a fare il filo ad una ragazza e che la cosa gli interessa di più che non andare in montagna ad arrampicare. Gino mi dice che la ragazza è di buona famiglia, è già fidanzata con un ufficiale di carriera dell’esercito, ma per lui vuole piantare tutto. Il giorno successivo quando scendo in rifugio per fare colazione Gino non c’è. Il direttore del rifugio mi dice che Gino parte al mattino presto con la sua ragazza per il Gran Paradiso. Sono sconcertato per il comportamento di Gino: mi pianta in asso per correre dietro ad una ragazza e questo senza nessuna parola, neanche un biglietto, di spiegazione. Resto solo, impossibilitato ad arrampicarmi sulle vie che per una anno sogno di percorrere e con una grande amarezza nel cuore. Non esito a scrivergli una lettera che Gino sicuramente troverà al suo rientro a casa. Ecco in testo integrale:

    Gino

    non potrò mai perdonarti per avermi piantato in asso per correre dietro ad una ragazza, sena nessuna spiegazione da parte tua, dopo che ci eravamo impegnati per la vita e per la morte di riuscire su una via impegnativa. Tu stesso hai detto: Sarà la nostra tomba o la nostra gloria. Questo significa che sarà impossibile fare di nuovo cordata assieme.

    rifugio Vigevano...................................

    (Torri Stefano)

    ALDO, una forte guida alpina con la quale compio parecchie ascensioni. Una di queste mi resta particolarmente impressa. Siamo in un rifugio sul versante valsesiano del Monte Rosa: dobbiamo fare un canalone che in condizioni normali non presenta particolari difficoltà. Ma adesso le condizioni sono quasi proibitive. Da poco smette di nevicare: il tempo permane al brutto. Le rocce sono intasate da neve. L’istinto del montanaro ci consiglia di desistere. Ma Aldo propone di andare fino all’attacco delle rocce iniziali, prima di prendere una tale decisione. Dal rifugio attraverso un ripido pendio e un pianoro ci portiamo alla base del canalone. La crepaccia terminale è molto larga. Riusciamo ad attraversarla su un esile ponte di neve: l’unico esistente. Ci troviamo adesso di fronte al labbro a monte della crepaccia, costituito da un salto verticale di neve ghiacciata. Lo superiamo con difficoltà raggiungendo il successivo pendio. Mi metto in sicurezza. Aldo sale il ripido pendio di neve, raggiunge le rocce e ne verifica le condizioni di arrampicabilità. Sento un tonfo sordo. Di scatto guardo verso il basso: il crollo del ponte di neve, sul quale superiamo la crepaccia terminale, ci preclude ogni possibilità di rientro. A questo punto l’unica nostra speranza di portaci fuori è di fare il canalone a qualsiasi costo. Aldo ridiscende e, scuotendo il capo, mi dice che c’è troppa neve sulle rocce e che conviene desistere. Per un attimo perdo il controllo:

    Ma che razza di guida sei?, mi porti fin qui per dirmi che bisogna tornare in dietro?.

    Mi pento subito delle parole che dico in un momento di smarrimento e che Aldo non si merita, ma non ho il tempo di chiedere scusa perché Aldo mi risponde con rabbia:

    Adesso ti faccio vedere io che guida sono, se riesci a starmi dietro.

    Lo vedo partire come una scheggia all’attacco delle rocce. La salite è dura per entrambi. Aldo è sempre davanti a fare strada: non si ferma mai neanche dove le difficoltà più gravi richiedono di procedere con l’uso della sicurezza. Quando usciamo dal canalone siamo investiti dalla tormente che sale ululando dal versante svizzero. Furiose folate di neve spazzano la montagna. Facciamo fatica a tenerci in piedi, la stessa respirazione diventa difficoltosa. Non so come, ma riusciamo a rientrare al rifugio sulla via normale della Gnifetti. Siamo conciati da buttar via. Il custode, nostro comune amico, ci riconosce solo dalla voce. Con pinza e cacciavite ci slega dalla corda gelata. Ci fa accomodare in cucina: con thè caldo corretto rum ci rimette in sesto. Aldo ed io, ne in quel giorno, ne negli anni successivi parliamo del battibecco che abbiamo all’attacco del canalone. Ancora adesso Aldo non sa del ponte di neve che crolla alle nostre spalle.

    ENRICO, un’altra forte guida alpina. Di lui ricordo una salita alla sud del Lyskamm. Siamo in due cordate, nella prima Aldo ed io, nella seconda Enrico con un cliente. Ai primi tiri di corda un sasso di discrete dimensioni

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