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I grandi eroi della montagna
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E-book339 pagine3 ore

I grandi eroi della montagna

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Info su questo ebook

Uomini e donne che si sono distinti sulle vette più alte del mondo, superando i limiti umani

Il rapporto dell’uomo con la montagna è antichissimo. La montagna, spesso ostile e pericolosa, l’ha protetto dai pericoli, gli ha permesso di cogliere il mondo dall’alto, nel suo insieme, di guardare il cielo e sentirsi più vicino all’infinito. È il luogo in cui l’uomo ritrova sé stesso, spingendosi oltre i propri limiti, nella solitudine delle cime, pur in mezzo ai compagni di cordata. Questo libro è un mosaico di storie di eroi che si sono distinti sulle vette più alte del mondo, realizzando imprese eroiche, salvataggi rischiosi, portando un po’ delle proprie vite sulle montagne che hanno scalato. Uomini e donne che sono rimasti nella storia dell’alpinismo mondiale, di differenti nazionalità ed età, con vissuti e sostrati culturali e sociali anche molto diversi tra loro. Un viaggio indimenticabile alla scoperta di ogni eroe, eccezionale, forte, e capace al tempo stesso di guardare alle proprie fragilità, per superarle con consapevolezza e coraggio.

I ritratti affascinanti degli uomini e delle donne che hanno sfidato l’altitudine e i limiti umani

Tra gli eroi
Reinhard Karl. L’alpinista scrittore
Tarcisio Fazzini. Classico, neo-romantico
Erard Loretan. La traversata dell’Annapurna
Charlie Porter. Viaggiatore negli spazi
Jim Bridwell. Il gigante hippie
Walter Bonatti. Il re delle Alpi
George Mallory. “Perché vuole scalare l’Everest?” - “Perché è lì.”
Reinhold Messner. La placca al Sass dla Crusc
Daniele Nardi. Il ragazzo di pianura

Tra le eroine
Lucy Walker. Sul Cervino in sottoveste
Mary Varale. Contro il maschilismo d’alta quota
Beverly Johnson. La scalatrice con la videocamera
Ninì Pietrasanta. La gentil fanciulla e le audaci imprese
Junko Tabei. La prima donna sulla vetta dell’Everest
Ginette Harrison. La dottoressa delle altezze
Chantal Mauduit. La prima femminile del Lhotse
Julie Tullis. Documentarista d’alta quota
Pietro GaranziniÈ nato a Novara nel 1978. Ha cambiato vita molte volte, ma l’unica costante è stata la grande passione per la montagna che l’ha reso una Guida Alpina certificata UIAGM, con specializzazione Canyoning e lavori in  fune. Ha viaggiato in Nepal, Argentina, Norvegia e Russia. Oltre alla passione per la montagna ha sempre coltivato quella per la scrittura. La Newton Compton ha pubblicato il suo romanzo L’assassino del lago.Rossella MonacoÈ nata a Vaprio d’Adda nel 1986. Traduttrice e scrittrice, si occupa di editing e redazione. Ha curato l’edizione di guide sulle escursioni tra Prealpi e Orobie e ha lavorato ai profili biografici di scrittori e uomini politici del presente e del passato.
LinguaItaliano
Data di uscita23 set 2019
ISBN9788822736741
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    I grandi eroi della montagna - Rossella Monaco

    Walter Bonatti

    Il re delle Alpi

    (1930-2011)

    Considerato uno dei migliori alpinisti di sempre, ha stupito il mondo con le sue prime salite sul Monte Bianco, come il pilastro ovest dei Drus in solitaria, la parete est del Grand Capucin e la sua incredibile ascensione in solitaria di una nuova via, nell’inverno del 1965, sulla parete nord del Cervino.

    Era da tempo che non ci pensava più, da prima che lasciasse l’alpinismo di punta nel ’65, dopo la sua ultima via nuova sulla nord del Cervino. Durante la prima notte, da solo nel deserto del Namib sognò tutto, come se l’avesse vissuto il giorno precedente, o meglio, come se lo stesse vivendo di nuovo.

    «Si chiama Grand Capucin», spiegò Toni Gobbi al giovane Walter, «la sua parete est è un problema alpinistico famoso, preso in considerazione da gente forte, come Cassin e Allain».

    L’alpinista diciannovenne rimase impressionato. Aveva ripetuto la via di Cassin allo sperone Walker, sulla parete nord delle Jorasses, proprio quell’estate del 1949, trovandola impegnativa. Inoltre, sempre quell’estate aveva scalato con Andrea la ovest della Noire. Tutte salite di classe, ma risolvere un vero problema alpinistico? Sarebbe stato in grado?

    La parete est del Grand Capucin divenne il suo chiodo fisso e pianificò la salita per tutti i mesi invernali e primaverili, parlandone con gli amici più fidati.

    «Cosa ne dici, Camillo, facciamo un tentativo?»

    «Dopo il venti di luglio sarò libero», affermò l’amico, entusiasta.

    La decisione era ormai presa e Walter contò i giorni, fino alla mattina del ventiquattro luglio, quando all’alba si trovarono alla base della parete dei loro sogni.

    «Dove pensi di salire?»

    «Vorrei raggiungere quelle terrazze, dovrebbero essere comode per bivaccare, e poi aggirando i tetti verso destra sembra tutto più facile», rispose deciso l’amico.

    «Forse se partiamo lungo quelle fessure…», indicò Camillo.

    Walter annuì, prese un mazzo di chiodi, moschettoni, e cominciò a scalare, assicurato a spalla dal compagno.

    La giornata era stupenda e l’arrampicata si stava rivelando meno difficile del previsto.

    «Il tempo pare stia cambiando», constatò Camillo nel primo pomeriggio, notando i cumuli che salivano dalla valle.

    Erano stati così immersi nell’arrampicata da non accorgersi della minaccia che stava sopraggiungendo. Sicuramente li avrebbe presi un bel temporale.

    «Ancora una lunghezza e siamo sulla cengia», disse Walter, lasciando la sicurezza dei chiodi di sosta per avventurarsi su terreno ignoto.

    Pochi minuti dopo, il primo tuono ribollì da qualche parte alle loro spalle. La Tour Ronde era già coperta dalle nuvole, non era assolutamente un buon segno.

    «Sbrigati, Walter!», lo incitò Camillo, sentendo l’elettricità statica che si avvicinava.

    Sulla cengia ebbero la fortuna di trovare una piccola grotta, lasciarono chiodi e moschettoni lontano da loro e si rifugiarono al riparo.

    «È solo un temporale», fece Walter, per nulla preoccupato. In estate è normale.

    «Speriamo», aggiunse Camillo.

    La guglia che stavano scalando era un parafulmine naturale, fortuna che si trovavano ancora abbastanza in basso.

    Terminato il primo temporale, non ebbero nemmeno il tempo di tirare il fiato, che ne arrivò subito un altro di forte intensità. Ormai si era fatto buio, l’aria friggeva e i fulmini illuminavano la notte come dei fari nella nebbia. Scrosci d’acqua si alternavano alla grandine, per finire poi in una nevicata pesante.

    «Che notte da incubo», disse Camillo all’alba. Le nubi erano ancora minacciose e non sembrava che la tregua sarebbe durata a lungo.

    Walter uscì dalla piccola alcova di pietra, rendendosi conto che la parete era incrostata di neve.

    «Dobbiamo scendere», disse a Camillo.

    L’amico annuì stancamente: dopo una notte come quella non aveva molta voglia di continuare. Recuperarono il loro materiale e allestirono la prima sosta per la calata.

    «Le corde sono fradice, non sarà una passeggiata», mormorò Walter. Le corde di canapa resero la loro ritirata ancora più pericolosa e rocambolesca. Quando un nuovo temporale li colpì, fortunatamente si trovavano già alla base della parete così scapparono di corsa verso il rifugio Torino.

    Venti giorni dopo aver assaggiato la parete del Grand Capucin, Walter era di nuovo alla base, insieme a Luciano. Camillo non si era liberato e Walter non aveva aspettato, quella salita era diventata il suo chiodo fisso, non poteva perdere tempo.

    Conoscendo la prima parte di parete, salirono molto velocemente, sapendo dove passare, allestire le soste e le difficoltà delle lunghezze di corda.

    «Bivacchiamo qui», disse Walter, indicando la piccola grotta dove aveva passato la notte con Camillo durante i temporali.

    «Sembra molto difficile», constatò Luciano, guardando verso l’alto.

    «Sì, ma ci sono dei punti deboli», e Walter indicò all’amico dove aveva pianificato di salire.

    La sera tinse le cime di rosa e l’aria divenne frizzante. Una scarica di sassi rotolò sulla Tour Ronde e poi cadde il silenzio che precedeva la notte.

    Poco dopo mezzanotte, una passeggera bufera di neve imbiancò le rocce e poi le stelle tornarono a brillare.

    «Non c’è una nuvola!», esclamò Luciano, la mattina seguente.

    I due ragazzi attesero che i raggi del sole asciugassero la roccia, poi ripartirono verso l’alto, ancora. Con decisione.

    Con i pesanti scarponi ai piedi, le corde di canapa, chiodi e moschettoni rudimentali, non potevano essere veloci sulle difficoltà estreme che incontravano. Però non ebbero alcuna esitazione, durante la seconda giornata di scalata.

    Ovunque guardassero, la parete era aggettante e il granito rosso, liscio, praticamente inscalabile in arrampicata libera. La loro unica possibilità consisteva nel seguire le fessure che trovavano qua e là, sperando che non finissero nel nulla.

    «Vieni, Luciano», urlò Walter nella notte.

    Aveva terminato quella lunghezza estenuante al buio, raggiungendo un piccolo terrazzo.

    «Meglio che stare appesi», commentò Luciano, «possiamo anche sederci».

    «Non ho trovato di meglio».

    «Non preoccuparti, Walter, una notte scomoda non ha mai ucciso nessuno».

    Mangiarono quel poco che potevano permettersi, non sapendo quanto sarebbe ancora durata la salita. Ciò che li preoccupava di più era l’acqua, perché ne avevano poca, avevano fatto male i conti.

    La notte passò lentamente e la scomodità dell’esiguo terrazzo non permise di riposare.

    Il terzo giorno finirono l’acqua e l’umore cominciò a vacillare. Walter era convinto che sarebbero arrivati in cima, non poteva essere diversamente dopo tutta quella fatica. Gli strapiombi sopra di loro, però, parevano insormontabili.

    «Dobbiamo superare quel muro, poi c’è una fessura che ci permetterà di uscire a destra», spiegò Walter sicuro.

    I quaranta metri che li separavano dalla fessura si lasciarono scalare solo dopo ore di tentativi e Walter dovette dar fondo a tutte le sue giovani energie.

    La fessura, che accettava solo cunei di legno come protezione, li portò verso una sezione di parete che sembrava più semplice, alla base di una placca.

    «Siamo alla grande placca», esultò Walter. Quel muro rosso l’avevano preso come punto di riferimento già dalla base della parete.

    «Il tempo sta cambiando», disse Luciano, stanco e assetato.

    «Stasera arriveremo in cima!», esclamò Walter. «Ne sono sicuro».

    La bufera di neve si scatenò con violenza, imbiancando tutto in poco tempo e facendoli gelare fin nelle ossa.

    Walter tentò per ore, fino al buio, ma non ci fu verso di superare la placca compatta. La roccia era ghiacciata e scivolosa. Senza più parlarsi, attesero l’alba tremando quanto due foglie al vento, seduti come la notte precedente e sempre più stanchi.

    «Dobbiamo farla finita a ogni costo!», esclamò esausto Walter quando arrivò la luce. «Dobbiamo andare in cima».

    Luciano annuì, aveva la gola così secca che non riusciva a parlare e la neve ingoiata quella notte aveva solo peggiorato la situazione.

    Walter ritentò di superare la placca che lo aveva respinto il pomeriggio precedente, ormai era diventata una sfida non solo con la roccia ma anche con se stesso.

    Impiegò tutta la mattina, ma ne venne a capo e quando piantò i chiodi di sosta ricominciò a nevicare pesantemente.

    «Ascolta», disse Luciano al compagno appena lo raggiunse.

    «Sono delle grida».

    «Stanno chiamando noi!».

    Walter e Luciano risposero ai richiami, poi decisero che non potevano più continuare e, a malincuore, cominciarono a calarsi in corda doppia. Dopo ottanta ore sul Grand Capucin, toccarono il ghiacciaio alla base della parete e abbracciarono gli amici preoccupati, che erano andati a cercarli.

    «È stata una lotta fantastica», disse Walter, ancora energico, «se non fosse cambiato il tempo, sono certo che saremmo arrivati in cima!».

    Non vedeva già l’ora di tornare e chiudere il conto aperto con quella montagna.

    Eppure dovette passare un anno, prima di poterlo fare. Non c’era giorno che non pensasse alla parete est di quel monolite rosso e alla via che avevano tentato.

    Il 20 luglio del 1951, Walter e Luciano arrivarono nuovamente alla base della parete. Avevano studiato una variante per saltare la prima parte, ormai scalata due volte, e raggiungere direttamente la grotta sulla cengia dove bivaccare.

    Salirono il canale di sinistra, avvolti nell’ombra del mattino, con le orecchie tese.

    «Questi imbuti non mi piacciono», scherzò Luciano.

    «Muoviamoci!», esclamò Walter, una scarica di ghiaccio o sassi li avrebbe rispediti a valle.

    Avevano intuito un sistema di cenge da sinistra a destra, che avrebbe permesso ai due scalatori di arrivare, senza eccessive difficoltà, alla nicchia di roccia che ormai conoscevano bene.

    «Vieni, Luciano, qui dobbiamo lasciare il canale».

    Walter saliva rapido e sicuro, deciso a portarsi a casa la prima della parete. Sapeva che i suoi tentativi dell’anno precedente avevano attirato l’attenzione di molti alpinisti noti e non voleva farsela soffiare da sotto il naso.

    «Era ora!», fece Luciano, quando si ritrovarono sulle rocce, fuori dall’imbuto nevoso.

    Raggiunta molto presto la grotta, decisero di fermarsi a bivaccare. Era il posto più comodo e non volevano sprecare energie inutilmente.

    La mattina successiva, si mossero sotto un cielo azzurro che prometteva tempo stupendo. Scalarono molto rapidamente la parte di via che già conoscevano, senza intoppi o tentennamenti. Walter non ebbe un secondo di esitazione, il suo unico pensiero era quello di chiudere i conti con la parete e il Grand Capucin. Null’altro aveva importanza in quel momento.

    «Siamo stati veloci», disse contento Luciano.

    «Sembra incredibile, ma siamo già qui!».

    Walter era al settimo cielo: si trovavano già in cima alla placca dove avevano rinunciato l’anno precedente, nella tormenta.

    Per stare più comodi, buttarono giù un blocco e si sdraiarono sulla cengia. Il cielo era stellato, non potevano chiedere di meglio e la mattina seguente si svegliarono che il tempo era ancora buono.

    «Non riesco ad andare più veloce», disse Walter all’amico, «le difficoltà sono troppo alte».

    Delle fessure li avevano riportati in piena parete est, ma la salita era completamente in arrampicata artificiale. Mettere e togliere i chiodi era un lavoro lungo e faticoso.

    «Attento!», urlò Walter. La corda di canapa fece il suo lavoro, manovrata da Luciano, e il compagno cadde solo per pochi metri.

    «È uscito un chiodo, tutto bene!».

    Nel pomeriggio, la neve ricominciò a turbinare nel cielo che si era fatto grigio.

    «Sembra una maledizione», disse Walter, che non aveva nessuna intenzione di mollare.

    «Dobbiamo trovare un posto per bivaccare», constatò Luciano, in mezzo a tutta quella verticalità.

    La notte fu penosa: rimasero appesi a una sosta, su un terrazzino dove potevano stare a malapena in piedi. Mangiarono qualcosa e svuotarono le borracce. Si dissero poche parole, in quella lunga oscurità che non voleva finire.

    «C’è luce abbastanza, riparto», disse Walter con grinta, alle cinque della mattina.

    Luciano annuì, sentivano odore di cima, ma anche di brutto tempo.

    Sotto al caratteristico cappuccio della montagna, si spostarono lungo placche e fessure sulla destra, per aggirarlo. Ormai il tempo era di nuovo brutto e non vedevano che a pochi metri di distanza.

    «Vieni, Luciano».

    La voce di Walter arrivava da qualche parte, sopra di lui. Il compagno lasciò la sosta, recuperando i chiodi e dopo pochi minuti si trovò sulla cima del Grand Capucin. Non sembrava vero.

    I due scalatori si abbracciarono. Uno squarcio nelle nuvole mostrò un frammento di panorama lattiginoso e poi la neve ricominciò a cadere.

    Walter si svegliò di colpo, nel silenzio del deserto del Namib, chiedendosi come mai avesse sognato quella salita tra tante, dopo più di vent’anni. Guardando le stelle nel cielo del deserto proibito, provò nostalgia per quegli anni giovanili e per quei deserti fatti di placche, rocce e ghiacci verticali.

    Loulou Boulaz

    La donna delle prime volte

    (1908-1991)

    Tra le prime donne a dedicarsi all’alpinismo. Delle sue principali salite, quattro sono state prime in assoluto e almeno nove sono state prime femminili. Nel 1935 è stata la prima donna a superare la nord delle Grandes Jorasses con Gervasutti, Chabod e Lambert.

    1° luglio 1935. Sono le nove di sera, a circa novanta metri sotto la cresta sommitale delle Grandes Jorasses, nel massiccio del Monte Bianco. Nel vuoto, oltre il bordo, penzolano quattro gambe, con i ramponi ai piedi. Due di quei piedi appartengono a una donna, vestita con pantaloni di velluto a coste. Tiene sulle spalle uno zaino e alcuni anelli di corda a tracolla. Lui ha le spalle grosse e l’aria spavalda, più piccolo di lei di qualche anno, guida alpina di Ginevra, a nome Raymond Lambert. Lei, nonostante la sua giovane età, ha il piglio di chi ne ha già passate tante, capelli neri alla maschietta, viso tondo, occhi vispi e la paura ancora ben disegnata sul volto. I due già si conoscono, non è la prima volta che si trovano insieme in simili scenari.

    «Ce la siamo vista brutta», Loulou si gira verso la sua guida come per trovare conforto, nonostante siano passate ormai diverse ore.

    «Non posso darti torto, Louise», conferma lui. «Sei stata forte, però».

    La ragazza, con un po’ di compiacimento, disegna una smorfia sulle labbra. Se ci fosse più luce, lui la vedrebbe di certo e direbbe qualcosa. Invece il silenzio invade tutto lo spazio, almeno quel poco che occupano. Seduti sulla roccia.

    Più in alto, anche se non riescono a vederli, Giusto Gervasutti e Renato Chabod si sono fermati a loro volta, perché non si può proseguire al buio. Sono meno comodi, però. Uno seduto, l’altro con le gambe divaricate tra un pezzo di roccia e l’altro, per fare spazio al compagno. Hanno deciso di darsi il cambio ogni quattro ore. Una situazione limite per chiunque. Non per i due italiani che hanno nelle gambe e nella testa la voglia di arrivare in vetta. Non li ha spaventati il piccolo incidente di qualche ora prima, quando stavano per precipitare per via di un chiodo mal piantato nella parete. Non li butta giù l’idea che, salendo, hanno trovato chiodi freschi. Sono stati fissati da due tedeschi che stanno facendo la salita qualche metro sopra di loro, e che rischiano di rubar loro il primato.

    Loulou Boulaz non può conoscere le condizioni dei suoi compagni, però ne intuisce le aspirazioni. Quel che sa per certo è che sta tremando dal freddo e che quella salita pare non avere fine. Mangia un pezzetto di torta pensando agli amici di cordata. Quel pomeriggio ha affrontato la sua personale sfida con la montagna. Solo qualche ora fa la situazione era ribaltata. Lei e Lambert erano messi molto peggio dei due italiani.

    Arrivati in uno dei punti più difficili dello sperone Croz, su per un diedro ripido, il cielo si era fatto all’improvviso scuro, nonostante fosse mattina. Il rosso dell’alba, solo un lontano ricordo. I fulmini avevano annunciato l’arrivo di un forte temporale, che in quel punto moltiplicava la sua voce scura per via dell’eco che rimbalzava tra le pareti. Il vento fortissimo li aveva messi subito a dura prova e poi aveva iniziato a grandinare. La visibilità si era fatta scarsa, le raffiche a rinforzare il getto della grandine.

    Al centro del diedro, si era formata così presto una gronda che canalizzava tutta l’acqua sugli alpinisti. Gervasutti aveva piantato un chiodo nella parete prima che iniziasse a scatenarsi il finimondo. Chabod, più sotto di sei metri, stava con la punta dei piedi su una cengia di pochi centimetri. Lambert era appeso alla corda che Chabod gli aveva tirato. Loulou, invece, era aggrappata alla roccia e sentiva la grandine cadere sulla testa con una violenza che non aveva mai provato prima. Tenne per un po’ la presa, poi sentendosi mancare le forze, iniziò a gridare. Le folate, si fecero, se possibile, ancora più forti.

    «Non ce la faccio», aveva detto in preda allo scoramento. Se avesse mollato, però, lo sapeva bene, avrebbe trascinato con sé anche i compagni. Gli altri le diedero coraggio: «Forza, ce la farai. Sei tosta». Loulou Boulaz non era certo una povera di spirito, lo sapevano tutti. Aveva superato con successo già diverse prime femminili. E non si sarebbe arresa sulle Jorasses. Soprattutto non a costo della vita altrui. Doveva solo resistere ancora un po’. Attendere la successiva ventata, sentire sulla pelle il ghiaccio, come fosse parte della montagna, farsi una cosa sola con la tempesta, prenderne il carattere.

    Con le dita delle mani congelate, si issò appena, sotto la cascata glaciale, finché trovò un punto stabile per i piedi.

    Fradicia e infreddolita, aveva quindi atteso che il tempo passasse. I vestiti non offrivano più alcun sollievo dal freddo.

    Loulou, in quella condizione estrema, provò a pensare a qualcosa di rinfrancante. Una tecnica che aveva sempre usato per superare i momenti difficili o noiosi (o entrambe le cose insieme). Si concentrò sulla sera prima, quando avevano conosciuto Gervasutti e Chabod presentandosi al rifugio Leschaux, e sull’ottima cena che le aveva servito il gestore. Pensò alla pentola che borbottava, alla conversazione brillante, agli sguardi increduli dei suoi nuovi amici quando aveva avuto modo di raccontare le salite che aveva già guadagnato. La fine apparenza, il caschetto scuro e gli occhi espressivi celavano una corazza molto più dura. Lambert aveva forse pensato, tra un boccone e l’altro e una battuta di spirito, che, con la sua bellezza così eterea, somigliava al massiccio del Monte Bianco che si apprestavano a salire: affascinante e spietato sopra ogni cosa, da scoprire e temere allo stesso tempo.

    Loulou conosceva bene questa sua condizione di debolezza apparente, che aveva condiviso in passato con altre sue compagne d’avventura. Con Lulu Durand, ad esempio, aveva portato a termine la scalata del Dent du Requin solo tre anni prima, contro ogni previsione. Poi c’era stata la salita alla parete sud-ovest del Dente del Gigante e, sempre con la compagna Durand, si era fatta pregio di diverse prime femminili, tra cui quella all’Aiguille des Grands Charmoz e quella a Les Droites. Per l’incredulità generale dell’universo maschile.

    Già in diverse altre occasioni, la sua forza d’animo si era dimostrata indistruttibile. Nonostante non fosse semplice per una donna ricevere delle gratificazioni dalla comunità alpina, Loulou Boulaz non se ne curava più di tanto: la vera soddisfazione la trovava lassù, tra rocce granitiche e nevai, pizzi e guglie, sfidando i suoi limiti.

    La realtà che la investiva in quel momento però, quando smetteva di concentrarsi sui ricordi, era troppo difficile da sostenere, agganciata con tutte le sue forze a un appiglio scivoloso e instabile. Dunque ritornò a immergersi nei pensieri, per trovare la giusta motivazione mentale, rifigurandosi davanti agli occhi la prima

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