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Sulla vetta del mondo
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E-book452 pagine6 ore

Sulla vetta del mondo

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L’epica storia della prima scalata al K2

«Un’altra giravolta nella storia per la salita italiana al K2. Un altro pezzo di verità che esce da una foto.» 

8611 metri d’altezza, questo è il K2. È la seconda montagna più alta della terra dopo l’Everest, ma arrivare in cima è molto più difficile.
In questo libro, Mick Conefrey descrive i primi avvincenti tentativi di scalarne la vetta e ci regala un affascinante resoconto della prima, complessa e vittoriosa esplorazione. Dall’occultista Aleister Crowley al Duca degli Abruzzi, da Fritz Wiessner al tormentato Charlie Houston, fino ad Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, i due scalatori della spedizione italiana, promossa e diretta da Ardito Desio, che nel 1954 per prima raggiunse la cima: Sulla vetta del mondo racconta numerose ascese, spesso sfortunate, sempre avventurose. E proprio sull’avventura italiana l’autore getta nuova luce, grazie ad alcuni particolari finora sfuggiti agli studiosi. Conefrey evoca la vera atmosfera del Monte Selvaggio e cerca di spiegare l’incredibile fascino che esercita la “montagna dell’alpinista”, nonostante sia stata protagonista di una storia fatta di polemiche e morte. Intriso di tensione e popolato da eroi tragici e sognatori eccentrici, questo libro è un capolavoro della letteratura alpinistica.

«Un’altra giravolta nella storia per la salita italiana al K2. Un altro pezzo di verità che esce da una foto. Ci voleva lo sguardo attento di un documentarista inglese per rendersene conto.»
la Repubblica

«Solo un’ambizione senza limiti può spingerti a scalare il K2. E le storie dei primi tentativi fino al successo mostrano bene la complessità di questa montagna e le personalità degli scalatori che rischiarono il tutto per tutto.» 
Peter Edmund Hillary

«Il K2, come so bene dalla mia esperienza di scalatore, è una montagna davvero pericolosa. Questo libro avvincente ne ritrae alla perfezione la storia feroce, affascinante e tragica.»
Alan Hinkes

«Conefrey mette insieme la saga dei primi tentativi di ascesa, una saga a volte poco edificante e a volte eroica, grazie a lucide analisi e a materiali quasi del tutto sconosciuti. Un contributo importante alla storiografia dell’alpinismo.»
Jim Perrin
Mick Conefrey
lavora per la BBC e molte tra le principali emittenti inglesi e statunitensi, tra cui Discovery e History Channel. Ha prodotto e diretto film e documentari (alcuni dei quali girati sulle Alpi, l’Himalaya e l’Alaska), con i quali ha vinto premi internazionali e partecipato a importanti festival. Tra i suoi libri ricordiamo Everest 1953. L’epica storia della prima scalata.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2016
ISBN9788854196728
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    Anteprima del libro

    Sulla vetta del mondo - Mick Conefrey

    Capitolo 1

    La bestia e il principe

    Aleister Crowley era un appariscente tossicomane bisessuale con una fascinazione per l’occulto. Non si può dire che fosse il tipico alpinista del ventesimo secolo, eppure almeno per qualche anno si dedicò con passione alle scalate.

    Edward Alexander Crowley nacque a Leamington Spa nel 1875, figlio di genitori cristiani fondamentalisti. Dopo la morte del padre nel 1887, l’undicenne Crowley iniziò rapidamente a ribellarsi al suo ambiente e trascorse gli anni dell’adolescenza a farsi iscrivere e poi a ritirarsi da una serie di istituti prima di finire all’università di Cambridge, intorno al 1895. Dopo aver ereditato una cospicua fortuna, si abbandonò alla sua passione per le prostitute, gli scacchi, la poesia e la «magia», compiendo qualche occasionale escursione nelle regioni montuose.

    Crowley iniziò ad arrampicarsi in Scozia prima dei vent’anni, per poi fare esperienza sulle pericolose scogliere calcaree di Beach Head, sulla costa meridionale dell’Inghilterra. Come la maggior parte degli scalatori britannici, nel giro di poco tempo si ritrovò sulle Alpi, che all’epoca erano diventate, per citare la definizione del famoso scrittore vittoriano Sir Leslie Stephen, il «Parco Giochi dell’Europa». A differenza di quasi tutti i suoi colleghi viaggiatori, Crowley non fu mai propenso a ingaggiare guide alpine professioniste, preferendo scalare in solitaria o in compagnia di amici che condividevano le sue vedute. Nonostante il suo talento e l’entusiasmo, non si iscrisse mai all’Alpine Club, all’epoca il pilastro dell’alpinismo britannico.

    Nel 1898, all’età di ventitré anni, Crowley conobbe Oscar Eckenstein, lo scalatore che in seguito lo avrebbe affiancato alla guida della prima spedizione documentata per la scalata del K2. Eckenstein era un altro tipico outsider e a sua volta un eccentrico, seppure di diverso genere. Figlio di un noto socialista ebreo fuggito a Londra dalla Germania dopo le rivoluzioni del 1848, Eckenstein aveva studiato chimica per poi diventare ingegnere ferroviario. Nonostante i diciassette anni di età che li separavano, i due divennero rapidamente grandi amici, a dispetto dei retroterra molto differenti e del diverso temperamento.

    Anche per quanto riguardava le apparenze, si trattava di un duo piuttosto mal assortito. Eckenstein era basso e muscoloso e, secondo lo scrittore britannico Geoffrey Winthrop Young, «aveva la barba e la corporatura dei nostri primi antenati»¹. Vestiva con sciatteria e indossava i sandali anche in città, e quando non era impegnato a esercitarsi con la cornamusa aveva invariabilmente in bocca una pipa che lo circondava di un forte sentore di Rutter’s Mitcham Shag, una delle marche di tabacco più forti e grezze tra quelle in commercio. Crowley, dal canto suo, si vestiva come un dandy e aveva l’aspetto magro ed emaciato di un esteta vittoriano, con una gran cascata di capelli che gli incorniciava il volto spiritato.

    Sebbene entrambi fossero affascinati dall’esploratore e mistico ottocentesco Sir Richard Burton, Eckenstein non nutriva alcun interesse nei confronti della «magia» di Crowley. Laddove Crowley era loquace e intellettualmente curioso, Eckenstein era burbero e razionale. In fatto di alpinismo ognuno rispettava le capacità dell’altro, ma il loro approccio nei confronti dello sport era molto diverso. Eckenstein era un innovatore che progettava nuovi tipi di piccozze e di ramponi e affrontava le arrampicate come problemi di ingegneria, sempre alla ricerca del modo più efficiente per scalare un picco o una roccia. Crowley al contrario era istintivo e impetuoso, l’esatto opposto di Eckenstein come lui stesso riconosceva:

    La sua arrampicata era invariabilmente pulita, ordinata e intelligibile; la mia a stento era descrivibile come umana.²

    La sola cosa che li univa era la comune avversione per l’Alpine Club e l’establishment dell’alpinismo. Dopo essere stato proposto e respinto dal club nel 1895, Crowley sviluppò un’antipatia destinata a durare tutta la vita verso gli «impostori» che ne facevano parte, come li definiva. Sia lui che Eckenstein erano particolarmente caustici nei riguardi delle arrampicate guidate, che ritenevano fondamentalmente disoneste.

    Per quanto costituissero una coppia veramente strana, i due diedero vita a una solida collaborazione alpinistica che li portò dai picchi del Lake District fino alle Alpi svizzere. Nel 1901 si avventurarono ancora più lontano, e trascorsero la primavera in Messico. Scalarono il Pico de Orizaba, la montagna più alta del paese, e il Popocatepetl, il vulcano più noto. Tentarono anche di scalare il Colima, un vulcano teatro di una recente eruzione. Solo quando i loro scarponi iniziarono a prendere fuoco, Crowley ed Eckenstein si rassegnarono a fare marcia indietro. Esaltati dai loro successi, e soddisfatti ognuno della compagnia dell’altro, cominciarono a progettare per l’anno seguente una spedizione molto più importante, il cui obiettivo era il K2.

    Per Aleister Crowley si sarebbe trattato del primo contatto con il Karakoram, ma per Oscar Eckenstein era l’opportunità di regolare un vecchio conto. Nella primavera del 1892 aveva partecipato alla spedizione di Martin Conway sull’Himalaya e sul Karakoram, ma non era stata un’esperienza felice per il capospedizione né per il famoso scalatore. Eckenstein credeva di aver firmato per partecipare a un viaggio sportivo alla volta delle vette più impegnative del mondo, ma a quanto pareva Conway desiderava solamente esplorare la maggior estensione di territorio possibile, fermandosi solo di tanto in tanto per razziare un cimitero locale e ingrandire la sua collezione di teschi o per permettere all’artista della spedizione di dipingere un altro acquerello.

    Con l’arrivo di giugno, Eckenstein iniziava ad annoiarsi. Nonostante fossero circondati da montagne straordinarie, come scrisse in una lettera indirizzata a casa, non avevano scalato «in pratica assolutamente nulla»³. Quando la spedizione raggiunse Askole, l’ultimo villaggio prima del K2, la tensione tra i due uomini raggiunse il culmine. Secondo il resoconto fornito in seguito da Conway:

    Eckenstein non si era mai trovato bene… Era evidentemente inutile che proseguisse con noi, per cui pensai che fosse meglio farlo tornare in Inghilterra.

    Eckenstein, però, la raccontò diversamente:

    Ci fu una specie di riunione generale, e fu deciso che dovevo abbandonare la spedizione. C’era stata una buona dose di tensione di tanto in tanto, e, dato che ci trovavamo tra i monti da due mesi e mezzo senza aver fatto una sola scalata di una qualche rilevanza, e avevamo attraversato solo due valichi già noti in precedenza, non ero molto ansioso di proseguire. Di conseguenza ci accordammo per la separazione.

    Mentre Conway proseguiva in direzione del K2, con l’obiettivo di dipingerne la vetta ma non di scalarla, Eckenstein tornò indietro. In mancanza di compagni, e senza equipaggiamento e provviste, non era in grado di dedicarsi all’alpinismo, perciò se la prese comoda sulla via di casa, fermandosi di tanto in tanto a organizzare gare di arrampicata nei villaggi della zona. Alla fine di agosto raggiunse Srinagar, la capitale del Kashmir, e passò due mesi in una casa galleggiante sul lago Dal, facendo conoscenza con i commercianti locali e mercanteggiando sugli oggetti di antiquariato.

    La versione che Conway raccontò al suo ritorno in Gran Bretagna non faceva menzione di tensioni all’interno della spedizione, ma nel libro di Eckenstein, The Karakorams and Kashmir, ci sono frequenti frecciate rivolte al suo ex capospedizione, nelle quali faceva notare, per esempio, come Conway avesse bisogno di legarsi tra due guide anche solo per attraversare un ponte, e ripetute lamentele per tutte le montagne che non aveva avuto il permesso di scalare. Conway non rispose mai pubblicamente, ma non dimenticò le offese.

    Non sorprende che Crowley, venuto a conoscenza dei fatti, si sia schierato con Eckenstein contro un caposaldo dell’establishment alpinistico come Martin Conway. Senza essere mai stato sul Karakoram, né aver mai tentato nessuna scalata sopra i seimila metri, si convinse che avrebbero scalato il K2, l’avrebbero fatta vedere a Martin Conway e sarebbero tornati con in tasca un nuovo record di altitudine.

    Una volta raggiunto l’accordo sull’obiettivo, Crowley lasciò a Eckenstein il compito di reclutare il resto della squadra. La selezione si rivelò insolitamente cosmopolita. Dall’Austria provenivano Heinrich Pfannl e Victor Wessely, rispettivamente un magistrato e un avvocato che avevano la reputazione di essere due dei migliori rocciatori del loro paese. Dalla Svizzera arrivava il dottor Jules Jacot-Guillarmod, reclutato sia in qualità di alpinista che di medico della spedizione. L’ultimo elemento era Guy Knowles, un ventiduenne studente di Cambridge che aveva partecipato a qualche scalata sulle Alpi in compagnia di Eckenstein. Nonostante fosse un alpinista meno esperto degli altri, Knowles era ritenuto molto forte fisicamente, e soprattutto era notoriamente molto ricco, a quel tempo una caratteristica assai importante per qualsiasi spedizione che puntasse al K2.

    Nel contratto predisposto da Crowley ed Eckenstein, a tutti i partecipanti si richiedeva di obbedire agli ordini dei loro capi «con gioia e con tutte le loro capacità», salvo quando si fosse trattato di mettere a repentaglio la loro stessa vita. Qualunque discussione sarebbe stata risolta per alzata di mano, anche se il voto del capo, si trattasse di Eckenstein o di Crowley, era decisivo. Memore di un incidente avvenuto durante il suo ultimo viaggio nel Kashmir, quando aveva tentato di acquistare una veste tempestata di gioielli e aveva finito per comprare la donna che la indossava, Eckenstein aggiunse una ulteriore clausola che obbligava i membri della spedizione a stare alla larga dalle donne del luogo e a non comprare nulla senza la sua specifica autorizzazione.

    Quando la stampa fu informata della spedizione, l’approvazione fu entusiastica, anche se un articolo pubblicato nel maggio 1902 dal «Daily Chronicle» fa capire chiaramente come il K2 non si fosse ancora guadagnato la fama di montagna più pericolosa del mondo:

    L’obiettivo principale della spedizione è l’ambizione sportiva di battere tutti i precedenti record alpinistici, ma verranno condotte anche osservazioni scientifiche, e non verranno trascurate la flora e la fauna dell’Himalaya, ancora così poco conosciute dagli scienziati. Le prime vette che verranno affrontate saranno il Godwin-Austen (K2), 8610 metri, e poi il Dapsang⁵, 8615 metri. Se questi primi tentativi saranno coronati dal successo, verrà tentata l’ascesa al monte Everest, con i suoi 8839 metri la montagna più alta del mondo e l’obiettivo degli alpinisti più ambiziosi, ma quest’ultima parte del programma non è ancora stata definita.⁶

    Appare evidente come gli scalatori fossero altrettanto male informati su ciò che stavano per affrontare. Guy Knowles, all’inizio del suo diario mai pubblicato, spiega che Eckenstein e Crowley avevano scelto il K2 non perché rappresentasse una sfida così importante, ma perché non presentava «nessuna difficoltà tecnica da affrontare dal punto di vista alpinistico». Per come la vedeva Knowles, i principali requisiti richiesti a chiunque volesse affrontare il K2 erano una grande disponibilità di tempo e denaro sufficiente per una vacanza di un anno in Oriente.

    Oggi tutto questo suona molto ingenuo, ma all’inizio del ventesimo secolo si sapeva veramente poco sulle vette più alte dell’Himalaya e del Karakoram e sui pericoli delle scalate in altitudine. Gli scienziati e gli alpinisti avevano una generica nozione del fatto che, con l’aumentare dell’altitudine, l’aria tendeva a rarefarsi, ma nessuno aveva la piena conoscenza di cosa fosse la cosiddetta «zona della morte»⁷, né alcuna conoscenza delle patologie legate all’altitudine. Eckenstein e Crowley avevano fatto scalate nelle Alpi e in Messico, e scalpitavano per provare qualcosa di nuovo. L’Everest era fuori portata perché il Nepal e il Tibet, i paesi ai due lati della montagna, erano chiusi agli stranieri, ma il Kashmir era accessibile, quindi il K2 era la migliore alternativa.

    Mentre Eckenstein si occupava degli aspetti logistici e pianificava tutto nel dettaglio, lo spensierato Crowley se ne andò a Ceylon e in India, dove studiò yoga, visitò i luoghi e scrisse poesie. In vista della spedizione e della lunga marcia in territori «maomettani», si fece crescere la barba e imparò a non toccarsi mai la faccia con la mano sinistra. A parte questo, i suoi preparativi furono ridotti al minimo. Domenica 23 marzo 1902 prese un treno postale diretto a Rawalpindi, nel nord dell’India, dove tutti si erano dati appuntamento, e per una fortunata coincidenza trovò sullo stesso treno anche gli altri. La spedizione Eckenstein-Crowley per il K2 aveva preso il via.

    Rawalpindi era una delle città più animate della regione, un’importante base militare per l’esercito dell’India britannica e il capolinea della rete ferroviaria. Gli uomini di Eckenstein impiegarono cinque giorni a dividere le loro tre tonnellate di provviste e di attrezzature in parti più facili da trasportare, poi partirono alla volta di Srinagar, la capitale del Kashmir famosa per la sua bellezza. Viaggiavano su piccoli carretti primitivi chiamati ekka, che erano in pratica poco più che scatole montate su ruote. Secondo lo studente Guy Knowles, l’ekka era «il veicolo più elementare che sia possibile vedere oggi come oggi». Victor Wessely, l’avvocato austriaco, stava talmente scomodo che gli venne un fortissimo mal di schiena e dovette noleggiare un carro molto più attrezzato, e più costoso, chiamato tonga. Poi iniziarono i veri problemi.

    Dopo una sosta notturna in un villaggio lungo la strada, Crowley si svegliò e trovò un ispettore della polizia britannica seduto di fianco al letto. Anche se il funzionario, leggermente imbarazzato, non era in grado di spiegarne i motivi, dichiarò a Crowley di avere ordine di trattenere tutti quanti. Qualche ora più tardi il vicecommissario di Rawalpindi arrivò portando ordini un po’ più precisi: lasciare proseguire gli altri, ma trattenere Eckenstein. Il loro capospedizione non era formalmente in arresto, assicurò il commissario distrettuale, ma non gli era permesso proseguire alla volta del K2.

    Anziché bloccare la spedizione sul posto, Eckenstein accettò di tornare a Rawalpindi per scoprire cosa stesse succedendo. Sperava di riuscire a sistemare tutto velocemente e di poter presto ricongiungersi con i compagni, ma, in caso contrario, chiese a Crowley di assumere pienamente il comando. Non era un inizio beneaugurante per la spedizione.

    Fortunatamente per Crowley e gli altri, la tappa seguente fu meno movimentata. A quel tempo il Kashmir era uno di quelli che venivano chiamati «stati principeschi»: centinaia di piccoli regni all’interno o ai margini dell’India britannica, che godevano di una limitata forma di indipendenza. Le autorità locali esercitavano il potere entro i confini, ma non erano autorizzate a mantenere un esercito né ad avere una politica estera. Il Kashmir, con le sue montagne e i suoi laghi spettacolari, era un luogo di villeggiatura molto popolare tra i coloni britannici. Crowley rimase sorpreso notando la somiglianza dei paesaggi con quelli del Messico e della Svizzera. Jacot-Guillarmod, il medico svizzero, rimase incantato dalla vastità delle foreste, e tutti ammirarono le case sull’acqua, i ponti eleganti e i giardini galleggianti di Srinagar.

    Ebbero a disposizione due settimane libere, nelle quali si alternarono visite turistiche, incursioni nei bazar e altre lunghe ore a risistemare le provviste e l’attrezzatura. Nella parte successiva del viaggio, ogni cosa sarebbe stata trasportata dai pony, o più spesso dai portatori, perciò ogni singolo carico non doveva superare i venticinque chili. Per integrare la grande quantità di cibi essiccati acquistati da Eckenstein in Inghilterra, che Crowley aveva definito con sprezzo come «buoni giusto per dei soldati», comprarono frutta e verdura fresche.

    Poi il 22 aprile, tre settimane dopo l’arresto, Oscar Eckenstein ricomparve, lieto della liberazione ma ancora all’oscuro delle ragioni della sua detenzione. Qualcuno disse che, a causa del suo nome, era stato scambiato per una spia prussiana. Altri erano convinti che fosse stato fermato perché la stampa aveva scritto che era diretto verso l’Everest e non verso il K2. Il sospetto di Eckenstein, condiviso sia da Crowley che da Knowles, era invece che un ruolo nella vicenda l’avesse avuto il suo vecchio nemico Martin Conway, divenuto presidente dell’Alpine Club nonché una figura pubblica con legami a tutti i livelli. Eckenstein non poteva provare nulla, ma, quando aveva minacciato di sollevare un polverone sulla stampa, nel giro di poco tempo i funzionari britannici si erano scusati con lui e lo avevano rilasciato.

    Sperando nel favore della sorte, il 28 aprile l’intera spedizione lasciò Srinagar con un piccolo gruppo di servitori personali, circa 150 portatori Kashmiri e un drappello di mercenari Pashtun provenienti dal Punjab, assoldati per fare impressione e intimidire. Dinanzi a loro, secondo le stime, c’erano 530 chilometri da percorrere per arrivare alla base del K2.

    Il primo tratto fu caratterizzato da un paesaggio quasi alpino, ma, una volta giunti nel Baltistan, all’epoca una provincia del Kashmir, il panorama cambiò bruscamente. Le colline lussureggianti coronate dai pini e le foreste sterminate scomparvero, per lasciare il posto a un paesaggio molto più aspro di spoglie colline rocciose, attraversate da stretti sentieri. A parte qualche occasionale villaggio dotato del proprio sistema di irrigazione, la vegetazione era quasi assente.

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    Cartina 1. Il K2 nel 1902.

    Le loro marce erano brevi ma spesso estenuanti. Anche se sulla carta ogni tappa non rappresentava una grande distanza, di solito c’era una tale quantità di saliscendi, e così tante deviazioni rispetto alla direzione ideale, che si potevano impiegare diverse ore per percorrere anche solo pochi chilometri. Lungo il percorso, venivano salutati e intrattenuti dai raja del luogo; Aleister Crowley notò che nel Baltistan il termine re poteva riferirsi a chiunque, dal capo di una tribù locale fino a un monarca assoluto che regnava su centinaia di migliaia di persone.

    Eckenstein ricordava di aver incontrato più volte cacciatori britannici e americani nelle regioni più remote, durante il suo viaggio del 1892, ma questa volta non incontrarono alcun occidentale, salvo un missionario britannico nel villaggio di Shigar. Come era prevedibile, Aleister Crowley non fu granché colpito da quello che definì un «serpente cristiano in un paradiso maomettano».

    Dopo due settimane e mezza di marcia raggiunsero Skardu, la città più grande del Baltistan, e si fermarono per diversi giorni per risistemare l’equipaggiamento per la terza e ultima volta, prima delle tappe finali lungo la via per Askole, l’ultimo villaggio. Dopo non ci sarebbe stata più alcuna possibilità di procurarsi del cibo, per cui, per usare le parole di Crowley, comprarono «fino all’ultimo chilo di qualunque cosa commestibile ci fosse in tutta la valle, assoldando tutti gli uomini disponibili». Come avevano ormai capito, il problema con questo tipo di spedizioni alpinistiche era che, oltre a trovare portatori che portassero il cibo e l’attrezzatura per i componenti della spedizione, era necessario anche avere un’altra squadra di portatori per le vettovaglie per chi trasportava il bagaglio. Il dottor Jacot-Guillarmod stimò che, una volta superato Askole, un terzo dei portatori venne impiegato per trasportare farina per il chapati, l’alimento principale del Baltistan, per gli altri portatori.

    Dato che la mano d’opera era costosa e non sempre disponibile, Eckenstein chiese a ciascun membro della squadra di limitare il proprio bagaglio personale a non più di venti chili, provocando una discussione inaspettatamente accesa con Aleister Crowley. Il problema era la sua grossa collezione di libri. Gli altri alpinisti, disse, erano liberi di rinunciare a questo tipo di piaceri intellettuali e di comportarsi come selvaggi «quando traversavano un paese selvaggio», ma lui non poteva vivere senza il suo Milton e il resto dei suoi volumi. Dichiarò addirittura che preferiva affamare il corpo, piuttosto che l’intelletto. Gli animi si scaldarono al punto che Crowley minacciò di abbandonare la spedizione, pur di non rinunciare alla sua biblioteca portatile.

    Alla fine Eckenstein si arrese e la letteratura trionfò, ma al momento di lasciare Askole già c’erano segnali che la spedizione si stesse in qualche modo sfilacciando. Guy Knowles, il membro più giovane della squadra, cominciava a risentire del viaggio, e Crowley diventava sempre più irritabile. Nel crescente nervosismo i due austriaci, Pfannl e Wessely, chiesero a Eckenstein il permesso di allontanarsi per tre giorni per una veloce escursione sul Baltoro, il grande ghiacciaio che si estende per sessanta chilometri nel cuore del Karakoram, seguita da una rapida puntata su e giù dal K2. Eckenstein, come prevedibile, respinse l’improbabile richiesta.

    Quando il gruppo finalmente lasciò Askole dopo altri dieci giorni di preparativi fatti e disfatti, la carovana era arrivata a 230 persone, compresi quattro cuochi, dodici servitori, un piccolo gregge di capre e pecore e un dignitario locale, il visir di Alchori. L’ultimo tratto del viaggio era destinato a rivelarsi il più duro. L’arida terra desolata e i continui saliscendi del Baltistan non erano nulla rispetto alle difficoltà delle montagne del Karakoram.

    Le catene montuose europee apparivano lillipuziane al confronto. Gli uomini di Eckenstein attraversarono enormi ghiacciai, coperti da grandi rocce e solcati da torrenti larghi anche trenta metri. In Svizzera, un tipico ghiacciaio può culminare in una morena rocciosa alta poche decine di metri, ma lì, stando a Crowley, alcuni arrivavano anche a cinquecento metri di altezza. Le capre e le pecore sembravano gradire quel tipo di sfide, ma per tutti gli altri quel territorio era una vera e propria tortura.

    I progressi divennero così lenti che Eckenstein si rassegnò a dividere il gruppo. Secondo la sua idea, Crowley doveva guidare la carica, dirigendosi direttamente verso il K2 con un piccolo gruppo di portatori, seguito a intervalli da tutti gli altri. Mettendo da parte l’ego, Eckenstein si offrì di restare con la retroguardia e di occuparsi del trasporto di cibo e provviste fino a quando fosse stato pronto a ricongiungersi con loro. Per evitare l’antagonismo tra Wessely e Pfannl, Eckenstein chiese a Crowley di non dare inizio alla scalata del K2 fino a che non si fossero ritrovati tutti insieme.

    Per parte sua, Aleister Crowley era fin troppo contento di allontanarsi da loro almeno un paio di giorni. Ben poco incline a tollerare gli sciocchi, aveva sviluppato una forte avversione nei confronti di uno degli austriaci, Wessely. In particolare, era infastidito dalle sue abitudini alimentari. Wessely era, secondo Crowley, un «vero e proprio maiale», dalla vista così corta che per mangiare «piegava la testa sul piatto e, usando forchetta e coltello come pale di una ruota, si cacciava il cibo in bocca con un rapido movimento rotatorio»⁸. Non è dato sapere con precisione cosa pensasse Wessely del suo giovane collega britannico, ma il fatto che in seguito non lo abbia neppure menzionato nel suo resoconto della spedizione è eloquente quanto un insulto.

    Per quanto fosse lieto di essere l’avanguardia della spedizione, più Crowley si inoltrava sul ghiacciaio Baltoro e più l’esperienza si rivelava sgradevole. Di notte la temperatura poteva scendere anche a -30°, ma durante il giorno il caldo era insopportabile. Come tanti altri scalatori e trekker che sarebbero venuti in seguito, Crowley dovette rinunciare al concetto occidentale di igiene. Per ottantacinque giorni di fila non si lavò, facendo ricoprire di grasso le mani e il volto. All’inizio la cosa lo disgustava, ma presto capì che era il modo migliore per mantenere la pelle sempre idratata. Capì che i pidocchi erano un rischio del mestiere, di cui veniva continuamente rifornito ogni volta che si avvicinava a uno dei portatori.

    Crowley, a ogni modo, era molto più tollerante nei confronti delle idiosincrasie della gente del luogo che non di quelle dei suoi compagni europei. In particolare lo affascinava la cucina balti. Il piatto principale della dieta locale era il chapati, una specie di focaccia preparata spalmando una pastella di acqua e farina su larghe pietre scaldate sui fuochi dei bivacchi. I portatori preparavano l’impasto al mattino e poi avvolgevano le pietre nei loro scialli, così quando si fermavano alla fine della giornata i chapati erano pronti da mangiare. Ai piedi indossavano rozze calzature chiamate pabu, fatte con zeppe di paglia o di stracci, fissate con lacci di cuoio. I pabu andavano bene per le rocce e la neve fresca, ma non erano per nulla sicuri sul ghiaccio. Invece di indossare occhiali protettivi si lasciavano crescere i capelli secondo l’usanza tibetana, con lunghe trecce che potevano tenere davanti agli occhi se le condizioni lo richiedevano.

    Dopo due settimane di marcia, a metà giugno il gruppo di Crowley finalmente raggiunse il Concordia, lo spettacolare anfiteatro naturale dove si incontrano cinque ghiacciai e le grandi montagne svettano tutto intorno. Crowley fu stupito dal diverso aspetto delle varie vette che lo circondavano: il Marble Peak, con la sua vetta acuminata, il Mitre Peak, con le sue spirali gemelle, il Crystal Peak, con il suo spesso manto di neve. Il K2, o Chogori come Crowley preferiva chiamarlo⁹, non era ancora visibile, ma finalmente apparve dopo qualche ora di marcia risalendo il ghiacciaio Godwin-Austen, il lungo fiume di ghiaccio e di roccia che va dal Concordia al fianco sudest della seconda montagna più alta del mondo.

    Guardando verso l’enorme versante meridionale, Crowley all’inizio non riuscì a scorgere una via che portasse direttamente in vetta, e nemmeno un punto adatto a una sosta dove allestire un campo ad alta quota, ma dopo un giorno passato a osservare il K2 col binocolo giunse a conclusioni esattamente opposte. Come spiegò in seguito a Eckenstein, non ci sarebbero state particolari difficoltà a risalire il crinale sudest fino a una spalla innevata posta ad alta quota, e da lì scalare l’ultima piramide rocciosa fino alla vetta. Pieno di ottimismo, inviò una nota scritta agli altri, poi continuò a risalire il ghiacciaio alla ricerca di un posto adatto per il campo base.

    Nei quattro giorni che seguirono, gli altri membri della squadra un po’ alla volta risalirono il ghiacciaio Godwin-Austen e raggiunsero Crowley. Non tutti provarono lo stesso ottimismo. Quando Jacot- Guillarmod vide il K2 per la prima volta, si arrestò sui suoi passi:

    Era come se fossimo paralizzati, soggiogati. Restammo in silenzio, senza riuscire a trovare le parole per esprimere le nostre sensazioni… più lo guardavamo, sia a occhio nudo che con i binocoli, sia le parti in ombra che quelle illuminate dal sole, più capivamo come fosse improbabile che cedesse al nostro primo assalto.¹⁰

    Entro il 20 giugno tutti si erano sistemati al campo base, salvo Eckenstein che era ancora diversi giorni indietro, impegnato a organizzare i turni per le squadre che trasportavano il cibo. Per un’intera settimana rimasero dov’erano, facendo escursioni lungo il ghiacciaio, nell’attesa dell’arrivo del loro capo. Il tempo era capriccioso, in un alternarsi di belle giornate e di altre nuvolose o di maltempo, senza alcuna logica apparente.

    Con il campo base intorno ai cinquemila metri¹¹, Jacot-Guillarmod rilevò come tutti respirassero con fatica, in particolare sotto sforzo. I mal di testa erano frequenti, anche se non troppo intensi. Bastavano pochi minuti fuori dalla tenda senza occhiali scuri per essere accecati dalla neve. Su un piano più frivolo, Jacot-Guillarmod osservò che la pressione atmosferica più ridotta comportava anche che le bottiglie di champagne – una dotazione a quanto pare irrinunciabile nelle prime spedizioni – si aprissero senza il botto, e che l’acqua bollisse a soli 82° C, per cui ci voleva molto meno tempo per cuocere il riso e le verdure.

    Quando finalmente qualche giorno più tardi Oscar Eckenstein raggiunse il campo base, arrivò carico di carne fresca e di pane, ma apparve evidente a tutti che il capospedizione non stava bene. Da sempre accanito fumatore, aveva problemi polmonari. Jacot-Guillarmod diagnosticò un’influenza, e aggiunse il nome di Eckenstein alla lista dei malati che già comprendeva Crowley, che aveva da poco avuto un attacco di malaria sul Baltoro, e il giovane Guy Knowles, che apparentemente soffriva di qualche disturbo legato all’altitudine.

    Ciononostante, erano tutti ansiosi di andare avanti, perciò il giorno seguente Eckenstein convocò una riunione e decise che il 29 giugno avrebbero tentato per la prima volta di raggiungere la vetta. Crowley, Pfannl e Jacot-Guillarmod avrebbero costituito la prima squadra per la vetta, con l’aiuto di Knowles, di Wessely e di un gruppetto di portatori. Oscar Eckenstein, essendo ammalato, sarebbe per il momento rimasto al campo.

    Il piano era semplice e molto ottimistico. Avrebbero costruito una slitta di fortuna usando degli sci, e vi avrebbero caricato una tenda e provviste sufficienti per tre giorni. Poi si sarebbero messi in moto lungo la via identificata da Crowley, cercando di raggiungere una grande striscia di roccia gialla lungo la cresta sudest. Lì avrebbero allestito un piccolo campo e rimandato i portatori balti al campo base, per recuperare altre provviste. Il giorno seguente, gli europei avrebbero scalato la vetta. Tutto qui.

    In vista di una giornata nella quale l’appetito non sarebbe mancato, Jacot-Guillarmod cucinò un quarto di una pecora appena macellata, mentre gli altri sistemavano la loro attrezzatura. Poi il vento cambiò. Nel primo pomeriggio il vento da nordest crebbe fino a raggiungere la forza di un uragano, investendo il campo e riempiendo di neve la tenda adibita a cucina. Verso sera il vento si calmò un poco, ma la notte fu così burrascosa che non c’era speranza di riuscire a dormire. Perciò restarono svegli fino all’alba, giocando a scacchi. Non era il modo migliore per prepararsi a scalare la seconda montagna più alta del mondo.

    Il mattino seguente ci fu la prevedibile doccia fredda. Il programma prevedeva di partire alle cinque, ma il freddo e il vento erano tali che persino Crowley, che normalmente era il più smanioso, suggerì di rimandare la partenza di qualche ora. Nessuno fece obiezioni, ma, anziché tornare a dormire, Pfannl e Wessely si misero gli sci e risalirono il ghiacciaio per dare un’occhiata a un altro crinale del K2 posto qualche centinaio di metri più su lungo il ghiacciaio Godwin-Austen. Al ritorno i due austriaci riferirono che secondo loro la cresta nordorientale sembrava leggermente più facile, rispetto alla cresta sudest. Crowley obiettò che da quella parte la scalata sarebbe stata più lunga e, da quel che si poteva vedere, più pericolosa, ma si ritrovò in minoranza. Era l’unico a cui piacesse il loro attuale campo base e, dopo essere rimasti bloccati lì per quasi dieci giorni con un tempo molto variabile, nessun altro desiderava restare al «Campo Miseria».

    Il primo luglio Pfannl e Wessely andarono ad allestire un nuovo campo base. Gli altri avrebbero dovuto raggiungerli il giorno dopo, ma venne di nuovo il maltempo. La descrizione che Jacot-Guillarmod fece della vita al campo durante una tempesta che investì il K2 per quattro giorni sarebbe stata ripresa in una forma o in un’altra lungo i decenni successivi:

    I giorni passano in maniera più o meno monotona. Il cielo è di solito pieno di nubi, con frequenti tempeste e burrasche, che aggiungono il loro frastuono a quello delle valanghe. Negli sporadici momenti di sereno, usciamo dalle tende e mettiamo al sole gli abiti umidi e i sacchi a pelo o facciamo una passeggiata intorno al campo, giusto per scaldarci un po’ e sgranchirci le giunture.¹²

    Quando il tempo migliorò e furono pronti a muoversi, Crowley di nuovo manifestò i sintomi della malaria. Intendeva comunque fare un tentativo, quindi l’8 luglio partì insieme a Jacot-Guillarmod per raggiungere il nuovo campo base di Pfannl e Wessely. Arrivarono al termine di un tragitto difficoltoso durato cinque ore. Crowley si era ripreso e addirittura si sentì abbastanza in forma da tentare il giorno seguente un assalto in solitaria alla cresta nordest, ma si trattò dell’ultima arrampicata che avrebbe fatto nel corso della spedizione. La malaria, contratta l’anno precedente in Messico, tornò più aggressiva che mai, e per tutto il mese che seguì Crowley rimase più o meno confinato nella sua tenda, tormentato da brividi, febbre, affanno e nausea¹³.

    Con Crowley fuori combattimento, e Knowles ed Eckenstein ancora giù al primo campo per curare l’influenza di quest’ultimo, toccava a Jacot-Guillarmod e ai due austriaci compiere il primo vero tentativo della spedizione per scalare la cresta nordorientale. Al mattino, Pfannl annunciò di sentirsi male a sua volta, e decise di restare al campo anziché unirsi a Wessely e a Jacot-Guillarmod. Ciononostante, i due iniziarono la giornata all’insegna dell’ottimismo, rallegrati dal bel tempo e dalla convinzione che la vetta fosse ormai a portata di mano.

    Non ci volle molto perché la realtà, o almeno una sua parvenza, conquistasse la scena. A differenza della via prescelta da Crowley lungo la cresta sudest, che presentava un attacco relativamente facile, il loro nuovo percorso li obbligava a scalare subito un pendio molto alto e ripido fino a una cresta affilata come una lama, che speravano li avrebbe poi condotti alla spalla del K2 e infine alla vetta. In realtà, anche solo raggiungere la cresta si rivelò una sfida di per sé, dopo la quale Wessely continuò ad ansimare in cerca di ossigeno a ogni passo. Quando dopo alcune ore raggiunsero finalmente la sommità della spalla, si resero conto che il resto del tragitto era molto esposto e coperto da uno spesso manto di neve che lo rendeva estremamente faticoso. E, come se non bastasse, la via era a tratti interrotta da cornici sporgenti, grandi accumuli di neve e ghiaccio portati dal vento e attaccati alla sommità della cresta, che avevano l’aria di potersi staccare da un momento all’altro.

    Arrivati a un’altitudine stimata di 6700 metri, a soli 240 metri dal record di altitudine stabilito nel 1897 sull’Aconcagua, Wessely decise che era tempo di tornare indietro¹⁴. Jacot-Guillarmod in seguito lamentò che la decisione fosse stata presa per pigrizia, ma in effetti avevano già scalato per diverse ore e, come Wessely fece notare, avrebbero potuto il giorno seguente ritornare sui passi che avevano scavato nel ghiaccio e raggiungere la cresta molto più velocemente. Il ritorno fu molto più rapido rispetto all’ascesa, e culminò in una scivolata lunga più di cinquecento metri che li riportò praticamente alle loro tende.

    Era stata una giornata esaltante. Nonostante i problemi di Wessely, Jacot-Guillarmod era rimasto sorpreso notando come fossero arrivati sulla sommità della cresta in buone condizioni di salute. Attribuì tutti i malesseri alle bassissime temperature, e non all’altitudine. Il problema con la cresta nordorientale non era risalire lassù, cosa che entrambi ritenevano fattibile, ma scoprire se i portatori sarebbero stati in grado di seguirli, appesantiti dalle tende e dalle provviste.

    Perciò, anziché ripercorrere i loro passi, e d’accordo con Eckenstein che era appena arrivato, Wessely e un Pfannl apparentemente ristabilito presero cinque portatori e partirono alla ricerca di una via più abbordabile per la scalata. Si misero in cammino la mattina del 12 luglio, pieni di energia e di determinazione, ma tre giorni dopo un messaggero tornò di corsa al campo, annunciando che le condizioni di Pfannl si erano molto aggravate. Jacot-Guillarmod partì con gli sci e lo trovò steso nella sua tenda, in preda a una tosse che gli faceva emettere una disgustosa schiuma rossastra. La diagnosi fu edema polmonare, una malattia estremamente grave che provoca l’accumulo di liquidi nei polmoni. L’unica cura consisteva nel portarlo giù dalla montagna fino a una quota più bassa, ma Pfannl era talmente debole che a stento si reggeva in piedi.

    Quando finalmente riuscirono a riportarlo dov’erano gli altri, le sue condizioni peggiorarono. In preda al delirio, chiamò Aleister Crowley nella sua tenda e gli raccontò di sentirsi come diviso in

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