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Quelli dell'angolo
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E-book238 pagine3 ore

Quelli dell'angolo

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Info su questo ebook

La scoperta delle abitudini e dei costumi di ragazzi della periferia milanese negli anni 60 e 70. Una finestra su quegli anni ruggenti che cambiarono il mondo occidentale.Tramite il racconto di alcuni episodi, divertenti o tragici ma veramente accaduti, della vita di un gruppo di amici, questo libro offre la possibilità di dare una “sbirciatina” in uno “spaccato”.di quei tempi.
LinguaItaliano
Data di uscita23 gen 2014
ISBN9788868854812
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    Anteprima del libro

    Quelli dell'angolo - Luigi A. Vajani

    Osservazioni

    Prefazione

    Queste pagine illustrano alcuni spezzoni della vita di un gruppo di amici.

    Gli episodi qui riportati non sono forse i più importanti, ma sono tra i più indicativi: sono quelli che per svariati motivi ricordo più vivamente.

    Io ero uno del gruppo ed in questo il singolo veniva tanto profondamente assorbito da divenire parte e tutto nello stesso tempo: tale era l’amicizia che ci univa. Capita così che io narri anche di episodi ai quali non ero stato presente e questo lo posso fare perché l’intesa che vi era tra noi, permetteva ad ognuno di vivere le avventure degli altri con la stessa intensità.

    Questi fatti sono tutti veramente accaduti e sono stati scelti senza un fine specifico e nemmeno in stretto ordine cronologico, come, in effetti, non lo sono i nostri ricordi, se non con un preventivo sforzo mentale. Il trascorrere del tempo non è che un’illusione che evidenziamo unicamente applicandolo alla rappresentazione della nostra vita trascorsa, vita che certo non segue canoni rigidamente logici.

    In realtà lo scopo per cui mi accingo a scrivere queste righe è di lasciare testimonianza dei sentimenti, delle speranze e dei sogni di alcuni amici molto affiatati e con tanta voglia di vivere; non perché tutto questo fosse eccezionale o unico, ma per ricordare momenti e avventure spesso divertenti, di gioia comune e a volte anche tristi ma, sempre, vissuti intensamente. 

    CAPITOLO I

    I Primi fatidici cinque

    Abitavamo tutti nello stesso quartiere, eravamo in cinque e ci si conosceva fin dalla quinta elementare.

    Agli inizi degli anni sessanta, i primi che si unirono in un gruppo, molto esclusivista, furono: Gianni Bottego, i fratelli Luigi ed Antonio Vailani, Carlo Sandretti ed Eros Franchi; tutti con un’età tra i nove e gli undici anni. 

    Trascorrevamo insieme tutto il tempo a nostra disposizione, giocando pazzamente per le strade di quella periferia milanese. Allora si poteva ancora giocare al pallone in mezzo alla via e, quando scendeva la neve, che era bianca, si poteva perfino slittare per le strade ghiacciate con le panchine dell’oratorio, trasformate in slitte, tanto poco intenso era il traffico. Eppure già allora erano sufficienti quelle poche automobili ad opprimere il nostro desiderio di aria pura, di libertà, inculcandoci un senso di frustrazione e d’insofferenza verso il cemento e lo sporco delle città; in quegli anni maturò in noi una spiccata coscienza ecologica che ci avrebbe portato a godere sempre della natura, tutte le volte che saremmo poi riusciti a fuggire dalla mefitica urbe.

    Gianni era un ragazzotto più che robusto, infatti, era chiamato semplicemente ciccio; ma a volte anche indiano per via della facilità con cui arrossiva, per l’estrema vascolarizzazione cutanea.

    Con un viso gioviale e simpatico, da sempre e per sempre soggiogato dalla volontà dei genitori, era il classico posapiano, incapace di opporsi e disposto a subire per il quieto vivere. La sua indole rinunciataria è sempre stata, per un certo verso, un freno per gli altri che spesso, per amore della compagnia, rinunciavano anche loro ad ambiziosi progetti, solo perché lui non poteva.

    Sua peculiare caratteristica era di soppesare, a lungo, i pro e i contro di ogni problema prima di prendere una qualsiasi decisione, così da trame sempre il massimo vantaggio; questa sua mania lo portava anche a prendere grosse cantonate per la bramosia del troppo volere, con grande diletto degli amici che, comunque, erano sempre pronti a perdonarsi i reciproci difetti.

    Il Bottego, con il suo carattere docile, fu molto importante per l’equilibrio della banda; disponibile con tutti, faceva da termometro regolatore tra i vari umori, era l’amico di tutti tra tutti gli amici.

    Il Luigi, detto Gigi, era esattamente il contrario di Gianni; alto e magro, non perdeva occasione per far valere le proprie ragioni, anche quando non ne aveva: entrava in polemica scaldandosi molto, perfino quando la cosa non lo riguardava minimamente. Testardo, sempre in lotta con i genitori e con i professori, senza mai una lira in tasca, egli sosteneva vigorosamente la parte del capo del gruppo, anche se in fondo, molto in fondo, contestato da una maggioranza silenziosa.

    Il suo credo era: - Io non sbaglio mai! E se per caso qualcuno riuscisse a dimostrarmi che ho sbagliato, sicuramente deve esserci un errore! -

    Egli aveva cominciato a perdere il carisma di grande capo alcuni anni più tardi, nel momento stesso in cui aveva deciso, peraltro saggiamente, di non ricorrere più alla forza bruta per far valere le proprie idee.

    Suo fratello, Antonio, chiamato fin da bambino Nini, anche lui alto e magro, aveva un carattere più mite e, facendosi passare per il figlio buono, raccoglieva i frutti delle battaglie sostenute in famiglia dal maggiore. A lungo sotto l’influenza di Gigi, un giorno egli improvvisamente se lo scrollò di dosso, assumendo poi, in ogni circostanza, un atteggiamento sempre linearmente opposto.

    Carlo era il più infido dei cinque, media altezza, di aspetto gradevole, curava con morbosa attenzione la sua chioma biondiccia, approfittando di qualsiasi superficie che potesse riflettere la sua immagine, per pettinarsi l’adorato ciuffo con l’inseparabile pettinino.

    Fin dall’inizio egli stimò e, temette nello stesso tempo, il Gigi ma, per metterlo in difficoltà e per dimostrare che era lui il più furbo, lo punzecchiava continuamente creandogli sempre nuove trappole, magari per poi supplicarne il perdono una volta messo alle strette.

    Ogni giorno coniava una battuta diversa sul Gianni ed era sempre pronto a colpire tutti con molto sarcasmo ma, anche lui, sentiva una profonda amicizia legarlo agli altri, sempre più fortemente, pur essendo di indole riservata e indipendente.

    L’Eros era certamente tra tutti il più buono e altruista; piccolo e magro, avrebbe fatto qualunque cosa per gli amici; aveva però il difetto di essere viziato dai genitori che intendevano così scusarsi del fatto che non si occupavano molto di lui e, perciò, si atteggiava un momento ed indispettiva, perché sempre ben rifornito di grana e la ostentava, mentre per gli amici era purtroppo il contrario.

    Noi cinque passammo insieme gli anni delle scuole medie che, tra l’altro, volarono nella nostra spensieratezza mentre il mondo si avviava inesorabilmente verso una nuova corrente, quella beat che fu prima musicale e poi di moda, mentre l’Italia, sempliciotta e provinciale di prima e dopo la guerra, si aggiornava freneticamente, anche costruendo industrie e case che crescevano fitte intorno a noi, distruggendo i nostri prati e facendo aumentare il caos cittadino a dismisura.

    Una cosa comune a tutti era il gioco d’azzardo; si passavano giornate intere a giocare a carte, alla roulette o a monopoli, tutto ci andava bene purché vi fosse qualcosa in palio, una posta che diveniva sempre più alta col passare del tempo: la moneta usata erano i fumetti al prezzo di costo, ad eccezione di alcuni considerati pregiati come i Tex che avevano una loro particolare valutazione. Le cifre giocate nella giornata divennero presto così cospicue da costringerli a puntare con biglietti di credito da noi così preparati:

    data ... devo … in giornalini, ………………………………………… firmato.

    Si può immaginare, infatti, la difficoltà che avevamo a portarci appresso venti, trenta mila lire in fumetti, con quel poco che costavano allora. Ci giocavamo quei pezzi di carta, che poi restavano tali perché i debiti non si saldavano mai, nell’attesa di portarci alla pari.

    Era solo il gusto di giocare che ci spingeva a trascorrere innumerevoli ore insieme e non la bramosia del guadagno. Lo stesso principio per cui, molti anni più tardi, da adulti, si giocava a poker con tutta una serie di regole che limitavano i rilanci (in soldi contanti naturalmente), in modo che nessuno di noi potesse perdere molto ma, anche, uccidendo il bluff e rendendo assurdo il poker stesso; a noi interessava solo giocare assieme.

    Nella foga del gioco, ci si dimenticava di tutto; era già un modo per sfuggire alla monotonia della giornata programmata, anche se di soli impegni scolastici. Si giocava in angoli interni di cortili, seduti per terra, senza badare troppo alle condizioni atmosferiche e senza accorgerci di disturbare, con il nostro vociare, i malcapitati che vivevano negli appartamenti che si affacciavano sul palcoscenico del nostro teatro dei divertimenti. A volte ci arrivavano secchiate d’acqua e improperi di vario genere, a volte qualcuno ci inseguiva con un bastone in mano.

    Oggi mi domando come fosse possibile provocare tanto disagio e mi risulta quasi incredibile; forse le strade allora erano più silenziose di quanto possa ricordare e così anche il gioco di cinque ragazzi poteva infastidire le orecchie delicate dei cittadini di quei tempi.

    Noi comunque cercavamo sempre di vendicarci dei nostri persecutori; studiavamo mille modi diversi: dal suonare i citofoni alla sera, al cantare canzoni sconce, a tutta voce, sotto la finestra della vittima di turno, oppure mandavamo bigliettini con frasi indecenti. L’unico cui non restituivamo la pariglia era il padre di un amico della seconda categoria, il quale, non molto dotato mentalmente, a volte ci lanciava contro anche il martello, e questo non ci piaceva per niente; ma il pericolo era il nostro mestiere.

    Gli amici di seconda categoria erano tutti quei ragazzi del rione, più di una ventina, con i quali si giocava al pallone oppure, la sera, a nascondino dietro le macchine; ragazzi di strada come noi, di tutti i ceti e con caratteristiche tra le più varie, ma che non erano riusciti a fare un gruppo compatto come il nostro dal quale erano stati esclusi.

    A carnevale, come in altre particolari occasioni, ci si riuniva tutti e si formava una squadra con più di quaranta elementi. Armati fino ai denti, partivamo alla conquista del Duomo, pronti a combattere anche contro i liceali (gruppi di studenti delle scuole superiori che si distinguevano per un particolare copricapo, così come gli universitari, pur essendo molto meno potenti ed organizzati di questi ultimi).

    Il Gigi, che era riconosciuto anche dai secondari come capo, essendo fisicamente il più forte, cercava di coordinare le manovre di quella massa di fanciulli, spesso travolti dalla carica di orde urlanti composte di giovanotti armati di clave e randelli di plastica.

    Una volta, per una serie di coincidenze, egli si era trovato a fronteggiare una nutrita schiera di universitari che chiedevano il passo sul marciapiede di Corso V. Emanuele e che, consci della loro potenza, caricavano tutti quelli che vi rimanevano sopra. Il guaio fu che vicino a lui erano rimasti solo il fedelissimo Gianni (il ciccio), il Nini e un altro secondario. Lui, non valutando la situazione, in un impeto di esaltazione eroica, aveva ordinato:

    - Resistiamo! -

    Immediatamente, i tre compari erano saltati giù dal marciapiede, lasciandolo solo nella sua follia, a fendere il drappello degli assali tori e lui aveva combattuto generosamente, ma ne aveva prese tante!

    Allora, a carnevale, si usavano incontri leali, a viso aperto, contrada contro contrada, scuola contro scuola, per le strade di Milano vestite a festa con coriandoli a milioni. Non vi erano ancora manganelli pieni di carta e poi di carta bagnata ed infine di terra che, ogni volta che colpivano, lasciavano il segno; non vi erano ancora le uova marce e le lamette per tagliare i vestiti alla gente; come poi accadde un decennio dopo. Allora, a carnevale, si usava divertirsi, e non fare del vandalismo a tutti i costi.

    Così trascorsero gli anni delle scuole medie, con l’insorgere dei primi amori, delle prime gelosie ed anche delle prime avventure; ma per i cinque amici, la vera passione rimaneva il gioco, in tutte le sue forme.

    L’accesso al trani, un bar dove si esibivano i vecchi in combattutissime partite al bigliardo o alle boccette, fu una vera conquista; con la scusa di voler ammirare i maestri, i cinque, pur non avendo l’età richiesta, riuscirono ad essere considerati parte della clientela fissa ed anche ad ottenere il permesso di giocare qualche volta di nascosto, finché non divenne un’abitudine.

    I pomeriggi e i mesi passavano, mentre noi eravamo intenti a trovare nuove cose da fare e ci riuscivamo sempre senza stancarci mai. Qualche anno dopo avevamo anche stabilito il record per noi, di una giornata e una nottata consecutiva di gioco alle carte; un’altra volta abbiamo fatto una gara per vedere chi era il miglior giocatore. Chiaramente, essendo la fortuna una componente sempre presente in qualsiasi gioco, avevamo stabilito, per limitare il suo effetto, di far durare la sfida esattamente un anno, segnando ogni volta i punti conseguiti da ciascuno, su un albo detto d’oro.

    Le gare vertevano sia sullo scontro a coppie a scopone scientifico (coppie che erano sempre cambiate, con uno escluso), e sia a briscola chiamata. In quest’ultima, dopo un anno, risultò vincitore Nini, seguito a ruota dal fratello e nello scopone, il primo risultò Gigi, seguito a distanza da Gianni.

    Non è spiegabile questo culto per il gioco, se si pensa che, divenuti adulti, nessuno di noi sia diventato un habitué di sale corsa o di casinò e non certo per questioni economiche.

    Forse era proprio e solo il fatto di giocare con gli amici che rendeva la cosa così entusiasmante, tant’è che le rare volte che siamo poi andati a giocare alla roulette, molti anni più tardi, è avvenuto sempre insieme; come se giocare, anche contro altri, avesse senso solo se fatto uniti! 

    CAPITOLO II

    Una Pasqua speciale

    - Ragazzi, a Pasqua andiamo via tutti e tre. - aveva proposto il Gigi una sera nevosa di dicembre, mentre stava percorrendo per la sesta volta il giro dell’isolato, a braccetto con il Gianni ed il Carlo.

    In quel periodo, in particolare, quei tre erano molto uniti. Trascorrevano ore ed ore macinando centinaia di chilometri a piedi, qualunque fossero le condizioni del tempo e magari con un solo ombrello, mentre si scambiavano pareri e impressioni sulla vita in generale e su qualunque cosa valesse la pena di parlare.

    -.Che bella idea! - esclamò il Carlo, - Sentite: io possiedo una casa a Ponte di Legno e, abitandoci mio nonno, non dovremmo trovare difficoltà ad avere il permesso dai nostri genitori. Pensate che spasso, noi tre da soli con mio nonno che cucina per noi! -

    - Magnifico! - concluse il Gigi, dando una robusta pacca sulle spalle dell’amico.

    Alcuni mesi prima, loro due si erano parlati apertamente per stringere un patto di amicizia più forte, più vincolante, senza i continui attacchi con scherzi dell’uno e la corrispondente reazione violenta dell’altro. In un lungo pomeriggio si erano detti tutto con sincerità e si erano giurati fratellanza eterna. Fu uno di quei patti aperti, leali, che solo anime semplici, come quelle dei bimbi possono fare, e noi eravamo dei ragazzi e, ancora qualche anno più tardi, all’età di diciassette anni, il Gigi ed il Gianni fecero un altro patto simile. Una sera, che si erano trovati a casa del Bottego per studiare insieme, si erano lasciati andare in discorsi filosofici sulla realtà della vita e così, spontaneamente, giunsero a redigere per iscritto un vero e proprio contratto di solidarietà reciproca, con il quale ambedue s’impegnavano solennemente a prestarsi aiuto, anche economico, in caso di bisogno.

    Questi slanci di altruismo, di affetto, abbastanza peculiari nell’età della ragione, erano possibili dato il legame che vi era tra noi; perché in fondo respiravamo la stessa aria e facevamo i medesimi sogni di libertà dalle consuetudini, di amore per la natura, di desiderio di ritornare alla vita della giungla, molto più civile di quanto s’immagini solitamente.

    Questi sentimenti erano fortemente radicati in noi e ci univano profondamente come fossimo gli adepti di una setta e condizionarono tutta la nostra giovinezza.

    Tutti felici cominciammo a fantasticare su cosa avremmo potuto fare in quei giorni, anche se il Gianni, come sempre, non poté dare la sua adesione alla partenza programmata, se non prima di aver avuto l’imprimatur dei genitori. Tutti dovevamo chiederne il permesso ma, il Carlo ed il Gigi, pronti a combattere per ottenerlo, lo davano già per sicuro!

    La Pasqua  giunse in breve. Il tempo ci sembrava trascorrere sempre più velocemente man mano che crescevamo e questo ci faceva disperare perché non ci bastava mai e temevamo di invecchiare senza esserci divertiti abbastanza!

    Il Bottego ottenne il sospirato permesso dei genitori, grazie anche al fatto che trattavasi di andare in vacanza gratuitamente, cosa molto importante, e così aveva inizio la nostra prima avventura, veramente lontani dalla sorveglianza dei padri, liberi di decidere il da farsi senza alcun problema.

    Finita la scuola, partimmo subito, accompagnati dai rispettivi padri, che così si fecero una bella gita, e la sera fummo finalmente lasciati e affidati alle pazienti cure del nonno del Carlo. Costui era veramente quel che si dice un brav’uomo e si prestò volentieri a ospitarci e, più che a controllarci, badò a servirci di tutto punto. Ci svegliava alla mattina sul tardi, facendo trovare pronta una deliziosa quanto abbondante colazione e ci lasciava alla sera, dopo cena, per andare a letto a riposarsi di tutto il da fare che gli procuravamo, mentre noi ci apprestavamo ad uscire ancora.

    Che giorni stupendi.

    Facevamo lunghe passeggiate per quei sentieri tra i monti, respirando profondamente l’aria fina che ci pareva più fresca e più gustosa, perché sapeva di libertà.

    La sera andavamo a giocare a carte oppure a calcetto: in questo gioco il Gianni ed il Carlo formavano una coppia imbattibile e così consumavamo sempre gratis, spennando qualche ingenua coppia di polli indigeni.

    La nostra nottata terminava immancabilmente con un sano coro di montagna a tre voci; ci si esibiva per le vie di quel paesino, solamente vicino a Ponte di Legno, sotto il cielo stellato. Al freddo pungente della notte, ritornavamo a casa con canti e schiamazzi degni dei ciucchi più incalliti della zona.

    Nel salire le scale per arrivare alla nostra cameretta, cercavamo di fare meno rumore possibile ma, come sempre succede quando sono in molti a chiedere il silenzio, quello che si otteneva era solo un gran fracasso.

    - Sssssss - faceva uno, portandosi il dito alle labbra. - Attenti! Non facciamo casino che svegliamo il nonno e poi domani non si alza in tempo per andare a prendere le uova fresche. -

    - Ma vuoi stare zitto! - diceva il terzo e così via, rimbeccandoci a vicenda finivamo per fare il contrario di quel che volevamo; comunque se qualche volta abbiamo svegliato il nonno, questi non ce lo fece mai notare ed alla mattina, la nostra colazione è stata sempre eccellente.

    Tutti e tre allora

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