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Ritornano i fantasmi del presente
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Ritornano i fantasmi del presente
E-book236 pagine3 ore

Ritornano i fantasmi del presente

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Info su questo ebook

Un giovane contadino dell'entroterra siciliano, decide di emigrare in Germania.
Una notte, gli appare in sogno il suo diretto antenato che lo esorta a rimanere in Sicilia, chiedendogli sia di scoprire il nome del suo
assassino che di eliminare una maledizione che grava sulla loro terra.

LUIGI FIORENTINI [S. Biagio Platani (AG), 1967] è compositore, scrittore e didatta.
Ha pubblicato musica di vario genere presso alcune edizioni italiane e ha ottenuto riconoscimenti in vari concorsi di Composizione. È stato fatto riferimento alla sua attività artistica in molti giornali, non solo locali. Ha collaborato, in qualità di opinionista, con
il periodico d’informazione artistica “Il Pegaso” di Noto. Ha pubblicato un libro di narrativa con le “Edizioni Sensoinverso” di Ravenna; un saggio e un romanzo con le “Edizioni La Carmelina” di Ferrara; un romanzo con “Arduino Sacco Editore” di Roma. Dal 1995 vive nella Bassa bergamasca, dove svolge attività di docente presso una Scuola Secondaria.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mag 2017
ISBN9788867826285
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    Ritornano i fantasmi del presente - Luigi Fiorentini

    Luigi Fiorentini

    RITORNANO I FANTASMI DEL PRESENTE

    EDITRICE GDS

    Luigi Fiorentini

    Ritornano i fantasmi del presente

    © 2017 Editrice GDS

    Via Pozzo 34

    20069 Vaprio D’Adda - MI

    www.gdedizioni.it

    Ogni riferimento descritto nel seguente romanzo a cose, luoghi, persone sono da ritenersi del tutto casuali.

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    (Prima pubblicazione: 10 novembre 2014,

    in Edizioni La Carmelina – Ferrara)

    «Dei miei amici, sono l’unico che mi è rimasto.»

    (Publio Terenzio Afro [185-159 a.C.])

    Una vita segnata, non sognata

    primo capitolo

    Sembrava una giornata come tutte le altre, ma quella volta si avvertiva la necessità di evadere o, comunque, si desiderava che intorno a sé tutto si dissolvesse. Fu così che allora Melo volle ritagliarsi un momento di intimo raccoglimento: un piccolo spazio da potere riempire di tanta stanchezza accumulata, di pressioni, di umiliazioni, di controversie. Era arrivato il momento di ricominciare e di aggrapparsi a qualcosa che, finalmente, potesse dargli una motivazione valida per potere riprendere a sperare, a respirare, a vivere! Da anni, ormai, aveva perso ogni stimolo, ogni interesse nei confronti di qualsiasi cosa; forse, però, più che perdita di interesse si sarebbe dovuto pensare a una profonda necessità di stimoli, quelli che spesso fanno giungere ad un soddisfacimento tale da indurre gli altri – ma solo coloro i quali non comprendono – ad isolare e a schernire chi, invece, crede nei sogni e nel desiderio di vivere liberamente le proprie scelte, lasciando nello sconforto chi ha lottato per tale raggiungimento. Non era consentito a uno come lui di ambire a livelli più alti del suo; era un semplice contadino dell’entroterra siciliano ma il suo vero grande bisogno di scoperta non si limitava alla sola conoscenza delle piante, per cui si documentava continuamente, studiava, rifletteva: voleva diventare un attore!

    Alcuni anni prima era riuscito ad ottenere il diploma di geometra, dopo innumerevoli sforzi per convincere i suoi genitori affinché gli facessero frequentare un istituto di scuola superiore; quel diploma era divenuto motivo di vanto per questi ultimi che mentre in un primo tempo lo contrastavano, timorosi di doverlo mantenere agli studi e per cui i loro risparmi avrebbero rischiato di volatilizzarsi, successivamente speravano per il loro figlio un futuro migliore: magari un posto fisso al Comune, così avrebbe potuto sistemarsi! Erano passati altri anni ancora e per Melo i sogni che sembravano di facile realizzazione cominciavano, al contrario, a sbiadirsi fino a scomparire quasi del tutto.

    Non andava più niente nella sua vita: un amore finito ancor prima di concretizzarsi, un lavoro che non arrivava mai, un grande sogno svanito. Persino il suo stesso nome lo faceva sentire a disagio: era il diminutivo di Carmelo, che aveva ereditato dal nonno paterno. Esso, che era il nome del monte su cui Gesù morì crocifisso, si sposava bene con la sua situazione: un vero calvario!

    Suo nonno, come tutti quei siciliani che erano stati in trincea, durante la Seconda Guerra Mondiale, era un uomo tutto d’un pezzo: inflessibile, apparentemente cinico e privo del minimo senso dell’umorismo; per lui il sacrificio e la disciplina costituivano le fondamenta della vita, la rettitudine e lo scopo dell’esistenza, anche se, talvolta, avrebbe voluto rivoltare tutto quanto gli stava intorno. Da quest’ultimo, Melo aveva ereditato, a parte le sacrosante paternali, preziosi consigli riguardanti il lavoro nei campi, come la potatura degli ulivi, che gli tornò utile quando intuì che il semplice gesto di tagliare i rami inutili dell’albero della pace fu accostato alla necessità di troncare quelle fittizie amicizie che si erano rivelate nocive ed estremamente insignificanti per la sua formazione e per il suo desiderio di crescita intellettuale.

    Lui, un ragazzo che ambiva alla recitazione e che sognava cullarsi tra la lettura di drammi e commedie, provava un forte senso di disagio, un vero sentirsi come un pesce fuor d’acqua e non riuscire a prender la parola e ad intervenire quando nel bar del paesino i suoi coetanei discutevano di caccia, di donne e di pallone!

    Pur di entrare nelle grazie di questi ultimi, e di potersi sentire parte integrante della società in cui viveva – non tanto perché ne condividesse le scelte ma per il solo fatto che l’estraniarsi da quelle prospettive lo avrebbe isolato maggiormente – aveva tentato di intraprendere gli allenamenti per poter entrare nella squadra di calcio del suo paese, ma non riuscì ad ottenere brillanti risultati, per cui poco tempo dopo dovette abbandonare quello sport che – dal canto suo – non avrebbero mai voluto praticare!

    La caccia lo inorridiva, sapendo che per molti essa non era altro che un modo come un altro per distrarsi dalle pesanti attività settimanali e che finalmente la domenica potevano dedicarsi al sadico e appagante divertimento di ammazzare piccoli volatili e indifesi cuccioli di conigli. Il suo tempo trascorso in campagna, assoggettato alle fatiche di suo padre e di suo nonno, gli avevano fatto amare gli animali, tutte quelle creature che incontrava tra i tortuosi sentieri agresti – al di fuori dei topi che, a dir poco, lo terrorizzavano!

    Anche la stretta e personale visione che aveva della donna non concordava con quella dei suoi amici; l’avidità e la frenesia con cui divorava pagine e pagine contenenti i sonetti di Dante e del Petrarca, gli avevano inculcato sentimenti di rispetto e di venerazione verso il gentil sesso al punto tale di voler trasmettere ad esso solo il genuino desiderio di delicatezza e di purezza. Seduto con gli altri al tavolo di un bar, in quelle lunghe e calde sere d’estate, non riusciva ad apprezzare la grazia delle forme di splendide e abbronzate ragazze che – come in una sfilata di moda – passeggiavano lungo corso Umberto I, fintamente incuranti delle bramose occhiate di tutti i ragazzi, tranne quelle di Melo che, al contrario, voleva penetrare nella loro mente, nella loro anima – e non in altre parti nascoste del loro corpo.

    Non passarono molti anni da quelle sere quando su invito di un giovane molto apprezzato e tenuto in grande considerazione in quel di Bivàra – è questo il nome del suo paesello – entrò a far parte di un gruppo di giovani che si dilettava a mettere in scena commedie teatrali, in dialetto siciliano. Sebbene non avesse mai impersonato parti da protagonista o da comprimario, i modesti ruoli che gli venivano affidati li interpretava brillantemente. Quel tipo di teatro, non perfettamente tagliato su misura di coloro i quali avrebbero voluto praticare l’arte della recitazione, era pur sempre un buon trampolino di lancio, almeno per potere sperimentare le proprie inclinazioni e dar così vita a quelle prime esperienze che si sarebbero potute sviluppare in altri contesti e in altri ambienti. Succede spesso che il forte desiderio di entrare nella parte, di immedesimarsi nel personaggio che in quella precisa opera si deve interpretare, discosti l’attore dalla sua vera identità per proiettarlo – talvolta inconsapevolmente, tal’altra con mirata cognizione di causa – in una particolare dimensione in cui si perde il contatto con la realtà e ci si smarrisce tanto nel tempo quanto nello spazio. A Melo accadeva, qualche volta, sul palcoscenico, durante le prove, di sentirsi incamerato in un corpo che non gli apparteneva, come se assumesse comportamenti non suoi ma di un essere invisibile, di uno spirito che cercava una sagoma umana per potersi manifestare.

    Prima che le battute del copione recitate dagli altri attori risuonassero tra le quinte, egli aveva già la piena consapevolezza di ciò che questi stessero per dire, come se conoscesse, in anticipo, lo svolgimento della vicenda, l’esatta trama dell’opera. In realtà, trattandosi di casi piuttosto sporadici, di eventi discontinui, la cosa non lo preoccupava, tanto meno non creava situazioni allarmanti tra i suoi colleghi, considerato che nessuno tra loro fosse a conoscenza di tali fatti strani, di tali inconsuetudini. Cominciarono, intanto, tra una situazione e l’altra, le prime vere e proprie premonizioni: nell’arco di due giorni riuscì a preannunciare una scossa sismica a Lentini e una sciagura aerea in Paraguay! Per dirla tutta, nei suoi sogni, rispetto alla realtà, la presenza di un vecchio che aveva determinato in larga misura il principale motivo di tanti fatti inspiegabili, era sempre più evidente; anche se inizialmente era piuttosto sfocata e confusa, col passare del tempo – nelle rivelazioni oniriche successive – tale figura si faceva sempre più nitida e facilmente riconoscibile: un volto biancastro, severo, segnato dal logorio degli anni ma che inondava fiducia e serenità; una scarsa e scomposta capigliatura albina sovrastava la sua spaziosa fronte e inghirlandava il suo capo. Indossava abili del medio borghese siciliano di metà Ottocento: un gilet aperto di cotone grigio su una camicia di pannetto bianco e un paio di pantaloni di velluto marrone, tutto finemente ornato da una sciarpetta scozzese di lana grigia.

    In quei periodi, proprio quando aveva appena compiuto vent’anni, Melo, inebriato dagli idealisti tedeschi e dalla lettura di alcuni scritti di Gramsci e di Pasolini, oltre al suo vissuto di lavoratore agricolo – che avevano fatto maturare in lui un lucido e motivato interesse per le classi sociali più deboli e uno spiccato senso dell’umanitarismo – ebbe la felice idea di iscriversi alla FGCI (Federazione dei Giovani Comunisti Italiani) e fu da allora che, dunque, si spinse verso le sfide più azzardate, le lotte più ardite al fine di difendere gli ultimi, i più poveri, i meno colti! Alle personali inclinazioni artistiche e politiche era necessario che alternasse quel poco di lavoro che talvolta riusciva a trovare, come quando prendeva il treno regionale da Agrigento per Canicattì, dove era diretto per la vendemmia dell’Uva Italia: grossi, verdastri, dolcissimi acini di uva da tavola che tutto il mondo ci invidia.

    In quelle gelide mattine di dicembre, nonostante la temperatura non scendesse sotto i 10/12 gradi, l’aria umida e pungente della stagione invernale gli congelava le dita delle mani che, a fatica, tagliavano i ruvidi e filamentosi tralci, mentre era costretto a condividere con ex detenuti e gentaglia varia, proveniente da ogni angolo della Sicilia Orientale, quelle coltivazioni di viti a tettoia, quegli interminabili filari ricoperti di nylon che si smarrivano a vista d’occhio sulle immense piane dell’entroterra siciliano, tra il nisseno e l’agrigentino.

    Seppure sporadici, tali lavoretti che riusciva a procurarsi erano per Melo un vero motivo di orgoglio, di onesta conquista dell’indipendenza, anche se suo padre e sua madre, nonostante vivessero una situazione fatta di ristrettezze economiche, non lo avrebbero mai privato del minimo indispensabile di cui necessitava, come il solito giornaliero pacchetto di Camel senza filtro – in voga tra i giovani fumatori rivoluzionari dei primi anni Ottanta – e qualche banconota da diecimila lire in tasca per potersi permettere di acquistare, pur non frequentemente, Il Manifesto e poter trascorrere la serata al bar con gli amici, sorseggiando – mentre dialogavano sui progetti futuri e sulla necessità di dare un taglio al sistema politico-capitalista di allora – un boccale di una nuova birra alla spina che, dalla lontana terra belga, aveva cominciato, da poco a lì, a spadroneggiare in quel di Bivàra e nei paesi limitrofi.

    Intanto gli anni passavano, e così come il tempo vola molto velocemente solo quando vorresti, invece, che trascorresse lento lento, Melo notava che il comportamento di alcuni suoi compagni cominciava ad assumere atteggiamenti sempre meno comprensibili, sempre più strani: chi trovava una scusa come un’altra per disertare una riunione presso la sezione del partito, concordata con largo anticipo; chi dava l’impressione di essersi improvvisamente imborghesito, apportando qualche modifica al consueto linguaggio e sembrava non tener più fede agli ideali precedentemente condivisi; chi aveva rinnovato il guardaroba, con il foulard rosso che cominciava a lasciare il posto alla cravatta e con il doppio petto pronto a sostituire la sahariana. La grande delusione, quella inaccettabile, non tardò ad arrivare e proprio non molto tempo prima che ci si preparasse alla campagna elettorale per rinnovare il Consiglio Comunale, Melo, insieme ad altri che nell’ideale dell’uguaglianza ci credevano veramente, intuì che gli ex fedelissimi si erano schierati nelle file della Democrazia Cristiana, e che dagli esponenti di essa avevano ricevuto la promessa di un impiego fisso in cambio del loro voto, del voto dei loro familiari e della ricerca del voto porta a porta, com’era d’uso – almeno in Sicilia – negli anni della cosiddetta prima repubblica. Ma tali promesse non si concretizzarono mai, o quasi, visto che i poveri illusi continuarono inutilmente a sperare ancora per gli anni successivi… Che furono tanti, davvero tanti!

    La rabbia e l’impotenza lo dominavano al punto tale di togliergli il sonno e l’appetito: più si agitava e meno riusciva a dormire; il numero delle sigarette fumate cresceva a dismisura in quelle notti in bianco che trascorreva facendo avanti e indietro tra le due strette pareti del corridoio di casa, e tra le imprecazioni di suo padre che, disturbato dall’inquietudine del figlio, pensava al lavoro che lo attendeva nei campi e al fatto che si sarebbe dovuto alzare all’alba, non potendo più gustarsi il poco e meritato tempo che gli rimaneva prima di lasciare il comodo letto su cui riposava. E perfino prima di passare a miglior vita sperava che il suo unico figlio – avuto in tarda età – non ereditasse da lui la medesima massacrante attività, ma un lavoro meno pesante e, forse, più gratificante… Magari un impiego statale, aspettando solo il ventisette – come era d’uso comune dire, all’epoca, e cioè il giorno in cui si riscuoteva lo stipendio mensile. Ma al contrario di quelle del padre, e anche di quella povera madre che tanto pregava la Madonna del Carmine e il Patriarca San Giuseppe affinché lo tenessero sempre lontano dalla droga e dalle cattive compagnie, le idee di Melo prendevano strade parallele: la sua sete di una vera giustizia sociale terrena – nonostante avesse ricevuta dalla madre una fervida fede cristiana – lo spingeva verso la ribellione, verso una lotta morale che non incarnava il pensiero della massa, sposando così un modo di vivere che non serpeggiava tra la conformità e i modelli imposti dalla società. Aveva mosso, dunque, un passo in avanti verso la svolta decisiva: strappò la tessera che lo legava a quel partito politico e, resosi conto della realtà, disse tra sé e sé: «Per arricchirsi bisogna essere abili oppure disonesti: sono certo che resterò povero, perché so di non essere molto abile… Né tanto meno disonesto!»

    Intanto, l’estate era quasi alle porte e si sa bene quanto questa stagione fosse particolarmente amata dalla popolazione di Bivàra, non soltanto per il sole e per il mare – che in Sicilia la fanno da padroni – neppure per il fatto che arrivi il raccolto dei frutti e che in adeguata misura ripaghi i lavoratori per le loro immani fatiche, ma per il semplice fatto che in quei mesi di calura asfissiante il paese si riempie di gente, di emigranti che tornano per ricongiungersi – seppur per qualche settimana – ai loro affetti più cari. Si possono rivedere, dunque, anche le facce di vecchie conoscenze temporaneamente dimenticate; spesso s’incontrano volti nuovi e, magari, almeno per i giovani, si spera di conquistare il cuore di qualche bella ragazza proveniente dalla Germania o dal Belgio, o dalle meno lontane regioni del settentrione d’Italia. Era diventata quasi una consuetudine, però, vedere già negli ultimi giorni di agosto, il deprimente svuotarsi del paesino; oltre al rientro dei turisti, anno dopo anno altra gente cominciava a partire per le medesime mete, aggregandosi ad essi o raggiungendoli poco più tardi, in previsione di un futuro migliore.

    Melo, come molti altri, stava facendo maturare l’idea di andar via, preferendo però, come la minor parte di coloro i quali erano intenzionati a partire, i laender tedeschi alle regioni padane – nonostante l’impatto con una nuova lingua da dover pure imparare a quell’età, che per lui avrebbe potuto rappresentare un vero fallimento!

    Un’ insolita giovinezza

    secondo capitolo

    Quando solitamente si citano quei vecchi ma sempre attuali proverbi, quegli intramontabili detti popolari, ampiamente funzionali e carichi di saggezza, non ci si può mai astenere dal ricordare proprio quello che dice che il buon giorno si vede dal mattino, per capire quanto, fin dalle prime esperienze di vita, Melo abbia sofferto.

    Se per un normalissimo ragazzo di dodici anni è da considerarsi scontato e facilmente comprensibile che il gioco stia alla base di ogni potenziale interesse, di qualsiasi inclinazione possibile, per lui – nonostante fosse all’apparenza uno come tanti altri, del resto – era piuttosto difficile condividere le scelte di molti suoi coetanei: quando gli altri andavano alla ricerca di un pallone per poter giocare una partitella nel cortile più vicino, Melo preferiva recarsi nelle campagne dei dintorni in cerca di qualche nido di uccelli da poter curare, o di qualche particolare pianticella da estirpare e portarla con sé in casa. Se il gruppo a cui apparteneva – almeno così diceva – accumulava le tanto amate figurine dei calciatori effettuando giochi e scambi, come gli abili venditori di un mercato rionale, per poi riuscire finalmente a recuperare quelle mancanti da incollare nell’album, il nostro amico si rifugiava tra gli inginocchiatoi della Chiesa Madre dando sfogo alle sue richieste di aiuto e chiedendo a San Giuseppe la grazia di farlo diventare, da grande, un attore ricco e famoso come Vittorio Gassman, tanto importante da riuscire a far restaurare il campanile della piccola chiesetta della Madonna del Carmine, che rischiava di cadere a pezzi e – perché no – cercare di poter risollevare la situazione economica della sua famiglia.

    Un episodio capitatogli qualche tempo dopo aver compiuto il primo anno di vita, scolpì nella sua mente un ricordo indelebile; si trattava della non molto chiara e inspiegabile visione di un vecchio dalla lunga barba bianca e vestito con una tunica verde, tutto circondato da una chiazza luminosa: era la figura assicurante e protettiva di San Giuseppe! Non fu lo stesso bambino a riconoscerlo, dopotutto era molto piccolo per poter dare un nome a quel volto, anzi, inizialmente fu colto da una grande paura.

    A quel tempo, quando non tutti in casa avevano l’acqua potabile, la madre, approfittando del fatto che in quel grigio pomeriggio d’autunno il figlioletto stava dormendo, ebbe la felice idea di recarsi alla fontana proprio lì fuori, nei pressi della loro abitazione, allo scopo di attingere l’acqua necessaria per gli usi domestici; intanto, mentre la donna era ancora intenta a riempire le bottiglie, il bimbo, inaspettatamente, si svegliò, scese dal lettino, cominciò a cercare invano la madre, infine si diresse verso le scale che portavano al piano inferiore: erano di cemento grezzo, non ancora rifinite, prive della ringhiera di protezione. Quella volta si sarebbe potuto verificare un vero dramma o, addirittura, una vera e propria tragedia, perché il piccolo Melo, spintosi oltre, rischiò di cadere nel vuoto ma, improvvisamente, apparve la miracolosa immagine che gli consentì

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