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Il grido dei penultimi
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Il grido dei penultimi
E-book85 pagine1 ora

Il grido dei penultimi

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Un libro che è un pugno allo stomaco, che l'autore presenta così: "Su un giornale ho letto qualche riga in un articolo di taglio basso che raccontava di quattro suicidi in dieci giorni nella sola provincia di Teramo: una donna di 33 anni, un padre di famiglia di 55, un signore di 63, per ultimo un ragazzo di 27 anni che si è impiccato dopo aver ricevuto comunicazione che il suo contratto a termine da cameriere in un hotel non gli sarebbe stato rinnovato per la crisi Covid. Accendo la tv e vedo una nota conduttrice inginocchiata e commossa. Ho sperato che fosse per quel giovane sfortunato. No, era una sceneggiata per un nero ucciso da un poliziotto bianco in America. Campeggiava una scritta nello studio televisivo: "Black lives matter". Le vite dei neri contano. Non sarebbe stato più chiaro un "la vita conta"? In Italia nessun nero è mai stato ucciso da un poliziotto bianco ma, come cantava Gaber, quando è moda è moda. Per quella donna, quel papà, quel signore e quel ragazzo morto impiccato neanche un gemito, neanche un ricordo, nessuna lacrima. Non un minimo di considerazione per il grido dei penultimi che dicono: non ce la facciamo più".
LinguaItaliano
Data di uscita9 lug 2020
ISBN9788831683982
Il grido dei penultimi

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    Anteprima del libro

    Il grido dei penultimi - Mario Adinolfi

    1991)

    1. LI HA SEMPRE ODIATI

    Poi col Papa e ogni sacramento

    andranno su come zingari

    verso nord-ovest

    Pier Paolo Pasolini

    Sono nato in un ospedale di viale Trastevere a Roma che non esiste più. Mio padre aveva ventotto anni, mia madre ventiquattro, erano sposati da meno di un anno. Papà faceva l’attore, nella fiorente industria cinematografica italiana dell’inizio degli Anni Settanta, che non esiste più. Arrivato a Roma da Salerno si era messo in luce in quanto bel ragazzo moro del Sud, simpatico e bisognoso d’attenzioni come ogni aspirante attore inevitabilmente deve essere. La sua tragedia era non avere talento, la sua fortuna fu saperlo riconoscere. Aveva delle strane fissazioni, papà, secondo tutti i suoi amici. La prima: non avere debiti, mai. Considerava un debito anche la rata di un mutuo o acquistare un’automobile con le cambiali che al tempo erano in uso. Quindi con i settanta film, alcuni notissimi, a cui aveva prestato la sua scarsa attitudine attoriale riuscì ad acquistare solo un modesto monolocale al quinto piano senza ascensore di via Amerigo Vespucci, una strada nascosta nell’angolo più remoto del quartiere Testaccio, intestata all’uomo per cui l’America si chiama America. Vai a capire l’Italia, perché non sa onorare come si deve la sua storia, i suoi grandi uomini?

    Mia madre si chiama Louise, se leggete la pagina che Wikipedia mi ha dedicato viene definita una immigrata australiana di nome Louis. Mi fa sempre sorridere la pretesa oggettività della rete, di queste enciclopedie on line che hanno sostituito i gloriosi tomi su cui provavamo ad apprendere qualcosa da ragazzi, scritti da studiosi che avevano dedicato la vita intera al campo di cui vergavano definizioni e biografie. Adesso l’unica enciclopedia che tutti consultano quando vogliono sapere qualcosa di me, scritta on line a più voci da chiunque abbia qualcosa che crede di poter riferire sul sottoscritto, affibbia a mia madre un nome da maschio. Louise Deirdre Hill non era una immigrata australiana, era una bionda ragazza con gli occhi verdi che appena compiuta la maggiore età (ventuno anni, all’epoca) si è imbarcata nel porto di Sydney per fare il giro del mondo in nave. Incrociato a Roma un bell’Ugo Adinolfi nell’anno fatale 1968 e stregatolo con i lunghi capelli uniti ad una certa conoscenza della lingua italiana, studio anomalo compiuto all’università di Sydney, scelse di restare e di sposare l’attore cane, per pura scelta d’amore. Poiché la immigrata era piuttosto capace di darsi da fare venne subito assunta dall’ambasciata australiana a

    Roma e conquistata per matrimonio la cittadinanza italiana alla nascita del suo primo figlio, che poi sarei io, offrì subito in dono un bel doppio passaporto. Poi, decisa a fare solo la mamma e nient’altro, la ventiquattrenne femminissima Louise lasciò il ben retribuito lavoro all’ambasciata e si acconciò a vivere al quinto piano senza ascensore di via Vespucci, in assolute ristrettezze ma piena di fiducia nel futuro.

    Il suo Ugo mollò le velleità artistiche e si mise a studiare in tarda età conquistando una dopo l’altra la laurea in Scienze Politiche e quella in Giurisprudenza, grazie alle quali afferrò un posto al ministero.

    Nacque nel frattempo un’altra bimba, mia sorella Ielma, con la famiglia che riuscì a salire di un piano. Arrivammo al sesto, a via Orazio Antinori, trenta metri dall’appartamento di via Vespucci. Conquistammo nel trasloco anche il diritto all’ascensore.

    Il giorno in cui nacqui all’ospedale di Trastevere che oggi non esiste più nel letto accanto a quella della biondissima Louise partoriva anche una zingara, non chiesi mai a mio padre se di etnia rom o sinti, non avrebbe saputo rispondere. So che i due clan festeggiarono insieme la nascita dei due rampolli maschi. Ugo ricordava ad ogni mio compleanno quella serata così particolare, con lui che senza una lira in tasca andò a comprare pizzette e champagne per tutti. Lo ricordava e negli ultimi anni della sua vita, quelli della malattia che lo resero anche emotivamente molto fragile, irrimediabilmente piangeva. No, non per la pena del ricordo, non per la distanza dal tempo della gioventù povera ma serena. Piangeva per la gioia che quella memoria riportava su, come un rigurgito. Piangeva per la festa di quella masnada di zingari chiassosi attorno al letto in cui una biondissima giovane australiana teneva avvinto al petto il fagottino con suo figlio, con quella timidezza che le è sempre stata propria. Eppure quella sera erano lì, gli ultimi e i penultimi, ad abbracciarsi sapendo che per la strada si sarebbero con ogni probabilità reciprocamente guardati in cagnesco. Anche il ricordo di quell’abbraccio impossibile eppure reale credo fosse struggente per papà. Li ha sempre odiati gli zingari, lui.

    2 . AL BAR

    Alors monsieur Hemingway

    ça va mieux?

    Paolo Conte

    Come tutti i perdigiorno, credendo così di rafforzare in mia moglie Silvia l’idea che il mio mestiere sia essere un intellettuale, trascorro molto tempo al bar. Ho sempre amato i bar, papà mi portava da piccolo a quello interno al ministero dove lavorava, mi sembrava avesse le cialde più dolci del mondo e scoprii grazie a lui che esisteva il latte macchiato. Eravamo poveri, ma dignitosi: un paio di volte all’anno il latte macchiato di via Cristoforo Colombo 44 e il cialdone dolce, mi toccavano.

    Eravamo poveri per scelta. Il sesto piano con ascensore di via Orazio Antinori aveva come splendida caratteristica aggiuntiva l’assenza di qualsiasi forma di riscaldamento della ampia cucina-sala da pranzo che occupava quasi metà dell’abitazione. Per il resto in una camera dormivano i miei, nell’altra accadeva tutto il resto. Nel senso che in una dozzina di metri quadri si facevano i compiti, si mangiava la merenda, si permetteva a mio padre di studiare con gli amici che lo trainarono fino alla seconda laurea, si guardava qualche minuto di televisione la sera e infine con magico colpo di teatro, scoccate le 21 si trasformava il tutto in camera da letto per

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