Se vuoi chiamami Zio: La straordinaria storia di un uomo alla ricerca della felicità
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Anteprima del libro
Se vuoi chiamami Zio - Giuseppe Guarnieri - Alessia Giusti
Capitolo 1.
Tutto ciò che ti è caro si regge nel palmo di una mano come l'acqua. Se stringi la mano in un pugno l’acqua ti scappa.
Quando cerchi di prenderne possesso la sporchi. Se la percepisci come qualcosa di libero rimane con te per sempre.
Jaro viveva nell’occhio del comunismo che stava percorrendo una strada sterrata verso la Repubblica socialista Ceca. Viveva con mamma, papà e una sorella. Prima di scrivere questo memoriale ho spesso pensato a come la sua famiglia avrebbe potuto apprendere ciò che Jaroslav, dopo essersene andato, aveva fatto della sua esistenza. In particolar modo mi preoccupavo teneramente dell’opinione di Jitka, una donna che ne ha passate di tutti i colori, una vedova precoce, una madre, una nonna, una figlia estirpata dalla sua famiglia e una sorella che, nelle pieghe della speranza, ha sempre riposto la credenza di una qualche redenzione per il fratello.
Avere dei fratelli è un compito fin da quando nascono in fasce. Un fratello maggiore non è uno zio, una madre, un nonno. È una missione, in qualche modo, che chiunque riesce a sentirsi addosso. Non hai nessuna autorità verso il secondo arrivato, eppure spesso ne hai la responsabilità, anche in minima parte. Hai la responsabilità di non essere geloso, di farlo sentire accettato, di non causare ai tuoi genitori problemi che prima venivano affrontati solo per te. Essere fratelli, maggiori soprattutto, significa imparare ad occupare un po’ meno spazio nel mondo.
Jaroslav e Jitka si svegliavano molto presto, insieme agli operai e ai ferrovieri. Nessuno, in casa loro, si metteva ai piedi del letto a pregare il Signore quando si scrollavano di dosso le coperte, perché non c'era spazio per alcuna religione. I bambini dormivano in quello che una volta era un ripostiglio, nello stesso letto; Jaro sputacchiava nei capelli di Jitka per tutta la notte e Jitka sopportava il sudore freddo di Jaroslav appiccicato alla camicia da notte. Si svegliavano verso le cinque e mezzo della mattina, chi si tirava su per primo scuoteva l’altro. Jitka dormiva dalla parte del muro ed era continuamente esposta all’odore di umido di cui erano impregnate le pareti, per cui, quando apriva gli occhi, non vedeva l’ora di allontanarsi dalla sgradevole sensazione bagnato e di muffa.
Jaro scendeva per primo dal lettino, perché gli dava fastidio che lei lo scavalcasse quando ancora aveva le palpebre impastate dal sonno, e poi si lavava il viso nella bacinella di acqua posta lì la sera prima. Si lavava le mani con il limone, perché il dottore aveva detto loro che preveniva le infezioni, e se le asciugava con un asciugamano ruvido che a tratti gli pareva carta vetrata, ricamato con le iniziali dei suoi genitori, avanzi di uno ormai sparpagliato corredo nuziale.
Poi facevano colazione. Qualcosa di frugale e di veloce, da soli, in silenzio al tavolo rotondo che era nella stessa stanza in cui la mamma cucinava, cuciva gli abiti per le sue clienti e dormiva con il papà. Prendevano la marmellata, se ce n’era, arrostivano il pane sul fuoco e si litigavano il latte rimasto in fondo alla bottiglia. Poi la mamma li vestiva e li lavava. I denti con un sapone al carbone che faceva la vicina e vendeva per pochi spiccioli, pettinava i capelli di Jitka e li fermava con un nastro rosa. Mentre Jaroslav sceglieva i vestiti, Jitka puliva ciò che la mamma non era ancora riuscita a fare. Poi, di fretta e furia, si vestiva anche lei e uscivano tutti in fila indiana per andare a scuola. Fino alla quinta elementare, non di più. Anche perché Jaroslav si mise fin da subito a fare il manovale, mentre Jitka puliva le stanze di alcuni ricchissimi signori praghesi tre volte a settimana, aspettando in gloria di maritarsi al più presto.
E vissero così per anni e anni, tutti i giorni identici ai cento altri già passati. Andava bene, tuttavia. Non erano ricchi, non erano poveri. La politica comunista perpetrava in casa loro come una perdita di gas, visto che i genitori avevano le mani in pasta, ma questo significava essere lasciati pressoché in pace. E andava bene. Benissimo, poi è arrivato il momento di crescere.
Jitka ricordava spesso ciò che disse suo fratello quando annunciò il suo matrimonio.
Erano tutti seduti a tavola, Jaro raccattava con il dito e con il pane i rimasugli sugosi di Uzéne, ovvero, da quel che sono riuscito a capire, una sorta di maiale in umido. La mamma sciacquava i piatti e il papà fumava una delle sigarette di contrabbando che circolavano sotto regime, perché la famiglia si era tinta di rosso e tatuata negli ideali falce e martello, ma il vizio della nicotina per il padre di Jitka e Jaroslav era inespiabile.
Il futuro marito della ragazzina aveva già chiesto al padre il permesso di poterla sposare, così Jitka non dovette spiegare alcunché.
-Vorremmo sposarci a breve.-
Il padre fece cadere la cenere nella ciotolina di vetro. -Farà