Il giorno che non arriva mai
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Anteprima del libro
Il giorno che non arriva mai - Mariano Fontaine
Titolo | Il Giorno Che Non Arriva Mai
Autore | Mariano Fontaine
Copertina | Francesco Vignola
Grafica | Grafica Romanzi (www.graficaromanzi.it)
© 2023 - Tutti i diritti riservati all’Autore
Questa opera è pubblicata direttamente dall’Autore tramite la piattaforma di self publishing Youcanprint e l’Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell’Autore.
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Il nemico non è l’odio,
ma la paura
INDICE
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
RINGRAZIAMENTI
BIBLIOGRAFIA AUTORE
Capitolo 1
L’ULTIMO GIORNO
30 agosto 1986. Ore 21:00.
Augusto chiuse l’ultima pagina de Noi i ragazzi dello Zoo di Berlino con l’amaro in bocca.
Si trattava di una testimonianza ruvida, a tratti scabrosa. La perfetta fotografia di un periodo, di una vita tormentata, di un’esistenza passata all’estremo. Un po’ come correre l’ultimo giro di vita a folle corsa. Senza freni.
Da un po’ di tempo, era rimasto ammaliato da quelle storie: droga, violenza urbana, considerazioni sulla vita, riflessioni sulla tossicodipendenza, sulla morte.
Gli piaceva scavare a fondo nella psiche umana, penetrare in quei trascorsi esistenziali vissuti al limite, per finire drammaticamente oltre. Su di lui avevano un indubbio fascino. Era interessato a scoprire i perché, scompattarli e analizzarli nella loro crudezza esistenziale.
Quelle persone gli sembravano vere, sensibili e profonde così tanto da esserne profondamente attratto. Per certi versi le reputava migliori di tante altre che conosceva come persone per bene, distinte, giuste. Quella era invece gente che cresceva, suo malgrado, per la strada, con le mani callose e i tatuaggi pregni di disagio. Antisociali, ruvidi perché la vita vissuta così è una bestia. ‘Contro’ per necessità esistenziale.
Forse perché a sedici anni si è così
pensava: voleva scoprire il mondo mentre invece avrebbe fatto meglio ad aspettare che il mondo scoprisse lui? Chissà, non poteva saperlo. Ma bramava sapere, mai attendere passivamente gli eventi. Era una sua prerogativa.
Tanti flash consecutivi quel giorno gli attraversavano la testa rimembrando quella calda estate calabrese.
Come quello che accadde una sera di metà luglio, quando rimase lugubremente affascinato dalla notte e dalle anime che l’animarono d’improvviso. Fu trascinato in quella situazione da Donato, alla ricerca di un tocco di fumo: «Dai Augusto, portami lì con il motorino, faccio in un attimo.»
In mezzo alle luci, inquietantemente fioche, che tentavano timidamente di illuminare le strade fatiscenti, d’improvviso apparvero come zombie, sui marciapiedi malandati della periferia, proprio loro, i derelitti suburbani: randagi tossici, prostitute, spacciatori.
Una sorta di paura mista a rispetto sulla pelle.
I suoni di quelle voci putride, irriverenti e malandate, gli risuonavano da giorni come un mantra nella testa.
Così come quelle risate sguaiate.
Per non parlare dei volti scavati dalle sostanze tossiche, gli occhi infossati, i denti gialli, neri, marci. E con lei, la notte che rendeva il tutto ancor più spettrale.
Incredibile: non sapeva neanche lui bene il perché, ma era incuriosito oltremodo da quel modo di reagire e impattarsi alla vita. Probabilmente proprio perché l’unico disponibile: lì dove l’individuo si trova improvvisamente perduto e alla fine della pista, scatta fuori qualche cosa di diverso? Può darsi.
Ma l’abisso era sempre là, davanti a loro.
Evitarlo? Impossibile.
Rimaneva anche attratto da quella loro fragilità emotiva, incancrenita sovente da contesti familiari disastrati. Ma così tanto deteriorati da dover necessariamente evadere e trovare di riflesso quel coraggio necessario per lasciarsi andare, sedotti dall’uso smodato degli stupefacenti.
Roba che anestetizza corpo e anima.
Per non pensare più a nulla, perché tanto quando sei considerato pattume, niente ha senso, nulla possiede più un perché.
Una discesa all’inferno voluta. Forse perché l’unica cosa davvero utile per fuggire dalla viscida realtà quotidiana era fare così: uscire fuori di testa.
E lasciarsi andare. Costi quel che costi.
Augusto vomitava bile anche su un altro tipo di mondo: quello costituito dal perbenismo imperante.
Odiava dover essere giudicato, e accettato socialmente, badando solo all’aspetto esteriore. ‘Sembrare per essere’ era il motto di quegli anni e questo proprio non gli scendeva giù. Alla sua vista quelle persone sembravano come degli involucri di plastica vuoti, tutti uguali, tutti simili, tutti omologati.
Una sorta di lobotomia sociale? Probabile.
Tutti che copiavano tutti. Ed erano anche felici di farlo.
Bene, anzi, male, perché se lo facevi in un certo modo, eri anche figo, ben visto e, con ogni probabilità, le dolci fanciulle dell’epoca, ti avrebbero sbavato dietro.
Il nostro eroe non voleva essere così.
Un’attrazione adolescenziale verso il proibito, il diverso, il marginale? Può darsi anche questo. D’altronde a quell’età tutto è possibile.
Di sicuro letture di un certo tipo, proprio a cominciare da quell’estate, gli davano un senso, un perché, e lo estraniavano dalla vita borghese di quella che considerava essere solamente una vita inutile, senza sussulti, senza senso.
Il nostro eroe tentava di staccarsi dalla realtà in modo diverso: i fumetti, la musica non commerciale e i film horror. Tutto quello che la massa consumista disprezzava, per lui acquistava spessore.
Proprio per quello odiava buona parte dei suoi coetanei e una bella porzione di quei tubi digerenti
dei compagni di classe, gente senza anima, fatta solo di parvenza
ammiccava tra sé e sé.
Ecco, ad Augusto piaceva esattamente ciò che gli altri detestavano. Non sapeva spiegarsi il perché ma se di colpo quello che lo affascinava diventava alla portata di tutti, e tendeva a diventare fenomeno di massa, per lui perdeva significato.
Le mode degli altri non gli interessavano. Erano stereotipate, stupide, senza senso. Odiava le spalline alte delle giacche, i pantaloni a vita alta che facevano il sedere delle ragazze grosso così, la piega sui jeans con cui la mamma si ostinava a mandarlo in giro, la permanente delle ragazze che rendeva tutte simili alle bambole con cui giocava da piccola sua sorella, la U della Uniform sui giubbini jeans, la rozzezza delle cinte El Charro, gli zainetti della Invicta. Ma proprio tutto, indistintamente.
Rimaneva invece esaltato da chi era diverso, dai ribelli, da chi aveva il coraggio di fare scelte fuori il confine del consentito.
Il suo punto di riferimento era diventato chiunque trasgredisse le regole imposte: i rivoluzionari, i capelloni, gli indisciplinati.
Vite al limite? Chi lo sa.
Diciamo che gli piaceva andare costantemente in direzione ostinata quanto contraria.
Vite diverse dicevamo: come quella del suo amico Jean Paul, quattro anni più grande di lui, con cui aveva appuntamento proprio quella sera di fine agosto.
Era stata una lunga estate quella lì e il giorno dopo Augusto si sarebbe dovuto rimettere in macchina con i suoi per tornare alla routine della sua cittadina, Cassino, nel Sud del Lazio. C’erano gli esami di riparazione alle porte, il ritorno a quella normalità che in parte detestava, fatta da ragazzi che parlavano una lingua completamente diversa dalla sua.
Ma prima c’era da affrontare quell’ultima sera da passare nel villaggio turistico dove i suoi avevano comprato, da qualche anno, una villetta che si affacciava proprio a ridosso della rocciosa costa calabrese. Proprio dove la sera i colori del sole al tramonto si miscelavano morbidi a quelli degli oleandri in fiore, alla rossa terra e alle increspature del mare. Lì dove per la prima volta in vita sua aveva conosciuto le labbra suadenti e calde di una ragazza dai lunghi capelli neri.
L’avrebbe rivista proprio quella sera.
Per l’ultima volta.
Capitolo 2
LOTTA IL FUOCO CON IL FUOCO
Facciamo un piccolo passo indietro: dicembre 1985.
Non è del tutto vera la questione relativa alla scuola.
In verità, il nostro beniamino ci andava sempre di buon gusto. Attratto più dal casino che si sprigionava all’interno dell’Istituto Tecnico Industriale che dal Metodo di Monge e delle sue proiezioni ortogonali.
Anche se vedeva buona parte dei compagni di classe come dei discotecari di terz’ordine che si atteggiavano a fare i paninari di provincia, alcuni delle altre classi, alla vista di Augusto, erano dei veri fenomeni. Soprattutto Simone, pluribocciato del IV Meccanica, rappresentava il top: capelli lunghi e scostumati, chiodo fisso addosso autunno-inverno-primavera, t-shirt rockettare nere, jeans strappati sulle ginocchia e scarpe da ginnastica. Wow: la perfezione!
Sia lui che Alfredo, prode compagno di banco, piccoli novellini rockettari del II, sovente andavano nei sudici bagni del piano, dove era facile trovarlo.
I gabinetti, per l’appunto.
Delle topaie con le porte di legno sfondate e i muri conditi da graffiti barbari ritraenti proboscidi falliche esuberanti che spruzzavano liquame, organi sessuali femminili gocciolanti umore, tutto insaporito da scritte inneggianti a possibili squillo, gigolò a piacimento e numeri di telefono di pseudo sgualdrine che facevano lavoretti di un certo tipo. Il solito ormone maschile che si univa all’istinto bestiale del presunto essere superiore, nonché omofobo. E regnava proprio in quel luogo, dove poteva liberamente dare sfogo al suo impulso primordiale. Di nascosto. Viscido e infame.
Augusto e Alfredo erano (ovviamente) affascinati da quel luogo di perdizione, per cui ogni tanto valicavano il limite consentito e vi entravano timorosi, anche se tentavano di sembrare sfrontati e spavaldi.
L’ambiente si prestava allo svolgimento di ogni cosa losca. Fioca era infatti la luce del sole che trapelava attraverso un paio di piccole finestre poste in alto all’enorme locale, dove c’erano cinque stanze con i bagni a sinistra e altrettante a destra. Le luci? Quelle non funzionavano mai perché così doveva essere. Se venivano cambiate le lampadine, il giorno dopo erano già state frantumate da qualcuno che non voleva farsi vedere in quel luogo di degrado. Per i suoi sporchi interessi di cui vi parlerò tra poco.
Attratti morbosamente da quel regno dell’incuria scolastica, si insinuarono poco alla volta in quella penombra, irrimediabilmente sedotti dalla puzza di orina, merda e fumo di sigaretta miscelata sagacemente con l’odore dolciastro del pane e salame venduto abusivamente dai bidelli. Era esattamente così: un vero e proprio regno di perdizione.
E si sa, il proibito affascina gli adolescenti, no?
Quando capitava, e cioè non appena se ne presentava l’occasione, i due baldi brufolosi passavano il loro tempo là dentro. Ad ogni cambio dell’ora era diventato un appuntamento fisso.
E ne videro un bel po’ di cose strane.
Per esempio, c’era gente che entrava nelle toilette e non ne usciva più: alimentando un certo mistero. Oppure comparivano d’improvviso procaci dolci fanciulle in calore – di altre scuole – che per una scheda telefonica o un pezzo di fumo ti facevano un bel servizietto completo. Ecco, questa cosa incrementava ancor di più, nella testa di Augusto, quello slogan divenuto – in quel periodo – sicurezza assoluta: donna uguale puttana. Breve, stupido quanto conciso motto. Ne riparleremo.
Dopo qualche tempo in cui bazzicavano quel luogo, ritrovo di decadenza umana, avevano imparato a pulire le cime d’erba della marijuana, a valutare l’hashish dal colore e dall’odore, e a capire quando era ora di uscire perché qualche capo branco del V doveva portarsi a sollazzare la pupattola di turno.
E ogni tanto compariva lui, Simone. Quando accadeva, i due nostri valorosi rimanevano lì, fermi come stoccafissi, a rimirarselo, manco fosse stato l’arcangelo Gabriele. Appoggiato ad una delle scalcinate porte dei gabinetti, fumava voracemente una sigaretta e, quando poteva, si sparava anche un paio di brani in cuffia. Poi, all’improvviso, così come era apparso spariva. Quasi d’incanto.
Ovviamente, i nostri eroi bramavano sapere che diavolo di musica ascoltasse. Che domande. Era quasi diventata una prerogativa esistenziale. O almeno, importante quanto quella di capire quali damigelle andavano lì a spompinare i baroni di turno e quanto costava il nuovo fumo afgano.
A volte allungavano le orecchie e tentavano di carpire delle note, poi tornati in classe si scambiavano le informazioni captate che, ovviamente, non collimavano mai. Se Augusto aveva sentito qualche nota di Stairway to heaven degli Zeppelin, Alfredo era sicuro di aver udito Free Bird dei Lynyrd Skynyrd. Insomma, niente da fare… e la cosa stava diventando un tormento.
Con l’arrivo della primavera, sia Augusto che Alfredo erano diventate delle piccole mascotte dei gabinetti scolastici, tra i più piccoli frequentatori ma ancora puri come l’acqua di fonte. Mai fatto uso di cannabinoidi, né tantomeno di sigarette. Niente, sani e puliti.
E fu proprio in un tiepido giorno di maggio quando Augusto vinse la tremenda timidezza che lo attanagliava e chiese con voce quasi tremolante a Simone: «Che cosa ascolti?»
Era una specie di dichiarazione d’amore, una richiesta di intimità. Era come chiedere a Cristoforo Colombo la via più breve per raggiungere le Americhe.
Lo sguardo di Simone fu stranamente arrogante, come se qualcuno volesse vedere tra le sue cose private. E già questo lo fece rimanere basito perché non la riteneva una domanda oscena, anzi. Comunque sia, si levò le cuffie, gliele porse e gli disse: «Questa è roba tosta, non la merda che sentite tutti voi!»
Augusto le prese con mani sudate e tremolanti, le mise alle orecchie e cominciò ad ascoltare con il cuore che cominciava a pompare furiosamente in petto.
La musica era nervosa, le chitarre irriverenti, la batteria distruttiva, la voce urlava rabbiosa direttamente nell’anima:
Fight fire with fire
Ending is near
Fight fire with fire
Bursting with fear
We shall die
Time is like a fuse, short and burning fast
«Lo sai chi sono questi? Rompono il culo a tutti.»
Augusto cominciò a sudare e lo guardò implorando di sapere. Ma non riusciva a proferire parola. Troppa l’emozione.
«Si chiamano Metallica. Questa è Fight fire with fire. È musica seria, non è roba per te. Lascia stare.»
Prese scocciato e se ne andò.
Le conclusioni furono due: Simone da quel giorno gli stava tremendamente sullo stomaco, come tutta la massa di gente che odiava. Di contro, quella musica gli entrò dritta nel cuore.
Capitolo 3
CHERNOBYL
L’epopea dei bagni clandestini finì esattamente il 26 aprile del 1986. Quel giorno mentre Augusto se ne andava tranquillamente a zonzo per i vari piani della scuola, prassi consolidata da tempo a cui nessuno mai tra bidelli, insegnanti e dirigenti scolastici riusciva a mettere freno, notò proprio dalle parti del ghetto scolastico per antonomasia, un esagerato viavai di gente e per strada l’arrivo di un’autoambulanza.
«Che è successo?» chiese incuriosito ad un inserviente.
«Niente, oggi i bagni son chiusi. Torna subito in classe» fu la risposta lapidaria dello spacciatore di panini al salame. Ma si sa, la scuola era una specie di girone dantesco dove tutti sapevano sempre tutto, per cui fu facile scoprire l’arcano: uno di quelli del V, il classico tipo che entrava nel bagno e non ne usciva