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E-book136 pagine2 ore

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Ricordi di famiglia e di vita cittadina si intrecciano nei racconti di nonni e bisnonni, da cui emergono personaggi eccentrici e stravaganti di cui la provincia una volta era piena fino a che non è arrivata la psicologia a mettere un po' d'ordine nell'infinita varietà dell'umana follia. Si va dalla seconda metà dell'Ottocento fino al secondo dopoguerra quando, con l'avvento della televisione prima e del '68 poi, tutto cambia e quel mondo scomparso assume contorni mitici e viene ripensato con profonda nostalgia da chi lo ha, almeno in parte, vissuto.
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2021
ISBN9791220355780
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    Anteprima del libro

    Originali - Paola Zoli

    INTRODUZIONE

    Mi sono decisa a scrivere questi appunti dedicandoli ai miei figli, un po’ perché mi sono stati richiesti con una certa insistenza soprattutto da uno di loro e un po’ (ma direi che questa è la ragione che più mi sta a cuore) perché spero, parlando della mia famiglia e andando indietro nel tempo fino a quegli antenati di cui ho potuto avere una conoscenza sia pure indiretta, di aiutarli a ritrovare quelle radici che li legano alla parte materna delle loro origini. Queste radici sono forse le più solide, visto che sono cresciuti in questo paese e, anche se hanno vissuto l’infanzia e l’adolescenza in altre parti d’Italia, con la Romagna hanno sempre mantenuto un rapporto privilegiato tanto da venire poi, almeno in parte, a stabilirsi qui o poco più in là. Mi sembra tanto più importante che essi sentano di avere delle radici, perché quelle che in qualche modo li legano alla loro parte indiana, quella paterna, che pure c’è ed è innegabile, sono a mio avviso assai fragili, un po’ per forza di cose, visto che sono cresciuti qui, ma anche perché è sempre stato loro raccontato molto poco della famiglia paterna, voglio dire di quella ormai estinta dei bisnonni e trisnonni e ancora più indietro, e questo la dice lunga sulla diversità dei caratteri e anche delle abitudini delle loro due famiglie di origine.

    Nella mia famiglia si è sempre parlato tantissimo, mentre si è sempre giocato pochissimo a carte e, quando si giocava, era per farsi due risate, non per stare concentrati al punto di non fare entrare nella conversazione altro argomento che non fosse l’andamento del gioco e forse è proprio per questo che io ho avuto modo di conoscere tante cose della mia famiglia, mentre il loro babbo è diventato esperto in tutti i giochi di carte possibili e immaginabili oltre che nel gioco degli scacchi, che richiede grande concentrazione e ragionamento ma fa a pugni con la conversazione.

    In casa mia si parlava durante tutto l’arco della giornata e non capitava quasi mai che, incontrandoci, ci si sfiorasse senza scambiare una parola come spesso capita in questi tempi di scarsa comunicazione. La fretta non era assoluta, era relativa e quello che veniva dopo uno scambio di parole sulla porta, sulle scale o in qualsiasi altro luogo della casa poteva aspettare, a meno che non fosse un treno da prendere al volo.

    Tuttavia il momento in cui si parlava di più, era quando eravamo tutti a tavola; allora ci si raccontava tutto, tutto quello che era successo nella mattinata o durante la giornata, ma poi si riandava al passato, bastava uno spunto qualsiasi perché a qualcuno tornasse in mente qualche episodio in cui era stato coinvolto un parente, un amico, un conoscente. Allora si cominciava dicendo: Av’ arcurdiv? (Vi ricordate?) Perché la conversazione si svolgeva indifferentemente in italiano o in dialetto, ma mentre a noi bambini veniva quasi imposto di parlare in italiano perché dovevamo andare a scuola, i grandi, che a scuola c’erano già stati e potevano permettersi delle licenze, parlavano preferibilmente in dialetto; e vuoi mettere un fatto raccontato in dialetto invece che in italiano?

    La stessa cosa succedeva nelle riunioni conviviali, sia che fossero tra parenti che tra amici. Anzi, quelle erano proprio le occasioni in cui si imparava di più su quei parenti un po’ più alla lontana che non si incontravano tutti i giorni e sulle altre famiglie della città con cui però, considerando le dimensioni del territorio e la scarsità di scambi con altri centri abitati di una certa consistenza, era difficile non essere in qualche modo imparentati.

    C’è anche da dire che allora le famiglie erano molto più larghe e numerose (non allargate nel senso che si intende oggi) e, anche se i vari nuclei famigliari facevano ognuno la propria vita, bastava che venisse meno una nonna o uno zio perché si aggiungessero dei posti a tavola e si mangiasse tutti assieme; poi ciascuno dormiva a casa propria.

    Questo almeno è ciò che è sempre successo nella mia famiglia. A volte addirittura i nonni o gli zii davano una parte della casa in uso ai nipoti che si dovevano sposare o volevano accrescere la famiglia ma, appena uno di loro rimaneva vedovo, veniva come inglobato nella cerchia famigliare pur conservando la propria indipendenza. Non era più la società patriarcale che risaliva ai tempi dei loro stessi genitori ma era un tipo di organizzazione famigliare che funzionava piuttosto bene. Questo faceva sì che a tavola non ci fossero soltanto i genitori e i figli; c’era sempre in più qualche nonno, qualche zio, qualche bisnonno, qualcuno che spesso era la memoria storica della nostra famiglia e in qualche misura anche della nostra città.

    Un altro luogo dove si chiacchierava tanto e ci si scambiavano tante informazioni erano i davanzali delle finestre che davano sulla strada. Nei momenti di ozio, quando faceva caldo e si tenevano le finestre aperte con le persiane accostate, il divertimento più grande era mettersi al davanzale e guardare in giù. Ora la mia non è mai stata una strada di passeggio, anche se in pieno centro storico; all’epoca non vi passavano neanche gli autobus perché, se la memoria non mi inganna, i primi autobus cominciarono a circolare quando io ero al ginnasio o pressapoco. A volte, quando ti affacciavi alla finestra nel caldo estivo e nelle ore canicolari, ti sembrava di affacciarti sulla scena di Mezzogiorno di fuoco; non passava un’anima. In genere però, anche nei momenti di maggiore frequentazione, non riuscivi a contare più di una ventina di persone nel giro di dieci minuti. Questo tuttavia permetteva a chi stava alla finestra (soprattutto ai grandi che conoscevano tutti) di individuare le persone che passavano sotto e di dare informazioni sulla loro identità, occupazione, relazioni famigliari, vita, morte e miracoli, e magari di aggiungere anche qualche commento personale se il traffico di passanti era particolarmente lento, facendo spesso alzare la testa al malcapitato che aveva sentito tutto.

    Un’altra fonte preziosa di storie famigliari e cittadine è stata la mia bisnonna, la nonna bisa per antonomasia, dal momento che era rimasta solo lei, che era la mamma della mia nonna materna e viveva con noi, anzi viveva con noi in casa propria poiché la casa era sua. Il marito, il mio bisnonno Romeo di cui avrò occasione di parlare diverse volte più avanti, morì quando io avevo cinque anni. La nonna bisa dunque, che era nata negli anni in cui si fece l’unità d’Italia, aveva una memoria retroattiva molto viva e invecchiando tendeva piuttosto a perdere quella del presente, tanto da confondere i nostri nomi e dirne tutta una sfilza prima di azzeccare quello giusto. Ma ricordava, per esempio, di aver assistito da ragazzina ad alcuni dei processi agli Accoltellatori che cominciarono a celebrarsi una volta che fu sgominata la setta, e raccontava dello stupore nello scoprire che alcuni degli imputati appartenevano a famiglie molto conosciute in città. Questi racconti e tanti altri altrettanto interessanti, noi li ascoltavamo da lei in quelle occasioni felici quando ci capitava di essere ammalati. Fin dalla mattina in cui ci veniva data la bella notizia che non saremmo andati a scuola, tendevamo l’orecchio sperando di sentire il suo passo un po’ trascinato; e lei immancabilmente arrivava e si sedeva su una sedia ai bordi del letto. Non ci raccontava favole, forse non ne sapeva nemmeno, ma non ne sentivamo il bisogno perché le storie che aveva da raccontarci, realmente accadute a tutta gente con un nome ed un cognome, storie che spaziavano dalla seconda metà dell’Ottocento fino alla seconda guerra mondiale, erano infinitamente più coinvolgenti. Infatti le facevamo tante domande e lei rispondeva sempre con dovizia di particolari. Adesso, ripensando a lei (e la penso moltissimo), mi accorgo che siamo stati dei privilegiati, mio fratello ed io, ad aver avuto una bambinaia così fuori dagli schemi.

    Nel cercare di organizzare questi ricordi per poi trasmetterli in modo da non renderli troppo confusi, mi sono chiesta se dovevo procedere per tipologie entro cui far rientrare i vari episodi, oppure per famiglie, o addirittura seguendo una cronologia. Alla fine ho deciso di procedere per tipologie, là dove si poteva, senza però seguire uno schema troppo rigido perché gli episodi e i personaggi che ne sono protagonisti spesso rifuggono dall’essere incasellati in uno schema.

    Il termine originale, da noi, sta ad indicare una gamma di comportamenti che va dalla semplice stravaganza fino quasi alla pazzia, passando per vari gradi intermedi, ed è un modo molto comodo di semplificare perché, qualsiasi cosa uno possa fare contraria alla ragione e al buon senso, si liquida la faccenda dicendo, di chi l’ha commessa:l’è un uriginél (è un originale). Questa spiegazione dovrebbe soddisfare chiunque senza bisogno di ulteriori approfondimenti. Almeno così avveniva nel passato prima che la psicologia arrivasse anche da noi a complicare le cose.

    Ma originali non erano soltanto certi personaggi (forse più numerosi di quelli normali); originali erano anche i tempi e i modi di vivere che, paragonati ai nostri, rendevano veramente quel mondo un altro pianeta. Ed è un mondo che si allunga fino agli anni della mia infanzia, cioè fino agli anni del dopoguerra. Poi tutto comincia a cambiare talmente in fretta che tra la nostra generazione e quella dei nostri figli sembra ne siano passate ben più di una.

    Bene, allora cominciamo a raccontare seguendo per quanto possibile un ordine, ma soprattutto seguendo il filo dei ricordi a mano a mano che questi si affacciano alla memoria.

    EDUCAZIONE INFANTILE (PAIDÉIA)

    I nostri nonni, e anche i nostri bisnonni e trisnonni che sono la generazione più lontana di cui ho potuto avere notizie, amavano i loro figli. Spesso però questi erano tanti che non riuscivano a stargli dietro, come si dice. E anche quando il numero non andava al di là della ragionevolezza, il metodo con cui venivano cresciuti si potrebbe definire un metodo sperimentale, nel senso che ognuno faceva fare, o lasciava fare, ai propri figli quello che in quel momento gli sembrava più opportuno, senza seguire una regola ma lasciandosi guidare dal proprio estro, dal proprio umore a seconda delle circostanze e direi anche dal caso. Nessuno aveva mai sentito nominare i pedagogisti né tanto meno gli psicologi, anzi se mai ne avessero incontrato uno lo avrebbero probabilmente consegnato ad un laboratorio per essere studiato in modo da sapere se era di questo mondo. Se si considera quello che a volte hanno lasciato fare ai loro pargoli, e che per loro era del tutto normale, si può star certi che oggi, in casi simili, verrebbero allertati i servizi sociali.

    Per esempio, mi viene in mente il caso dello zio Iufina (Giuseppe), fratello del mio bisnonno Romeo Borghi, nonno di mia madre. I fratelli Borghi erano nove: sei maschi e tre femmine. Ci sarebbero stati anche due gemelli se fossero sopravvissuti, ma morirono alla nascita. Il padre Paolo era un

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