Le incompiute smorfie
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Anteprima del libro
Le incompiute smorfie - Vladimir Di Prima
Le incompiute smorfie
romanzo
Vladimir Di Prima
Meligrana Editore - Priamo
Copyright Meligrana Editore, 2013
Copyright Priamo, 2013
Copyright Vladimir Di Prima, 2013
Tutti i diritti riservati – All rights reserved
ISBN: 9788868150136
Copertina a cura di Vladimir Di Prima
Meligrana Editore
Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)
Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041
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Priamo
Centro Culturale Sant’Antonio delle Fontanelle
Contrà Busa, 6
36062 Conco fraz. Fontanelle (VI)
Tel. (+39) 424 427098
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INDICE
Frontespizio
Colophon
Licenza d’uso
Vladimir Di Prima
Copertina
Dedica
Prologo
Le incompiute smorfie
Epilogo
Priamo
Meligrana
Licenza d’uso
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Grazie per il rispetto al duro lavoro di questo autore.
Vladimir Di Prima
Vladimir Di Prima è nato a Catania nel 1977. Laureato in legge e specializzato in criminologia è autore dei romanzi Gli Ansiatici (Prova d’Autore, 2002) e Facciamo Silenzio (Azimut, 2007). Suoi racconti sono apparsi in diverse antologie e riviste letterarie. Vanta inoltre preziose collaborazioni con artisti della musica leggera italiana fra cui il compianto Lucio Dalla. È prossimo al matrimonio, adora i gatti e la sua montagna.
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A chi ha preferito la luce di un modestissimo faro
all’ampiezza sconfinata del mare.
I personaggi, i fatti e le località descritte in questo romanzo sono in buona parte frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone e fatti è puramente casuale.
Prologo
– C’è sempre una smorfia incompiuta dietro una donna che fuma, quasi una mezza amputazione dei sensi, che come tale ristagna nel ventricolo dell’immaginazione più torbida e da lì sconquassa il naturale flusso sanguigno d’ognuno. –
Quindi padre Nator si avvicinò al corpo immobile della ragazza, ne accarezzò le guance con la punta dell’indice e fece sì che Mario si tranquillizzasse.
– Venti al giorno? –
– Anche di più, quant’è vero Dio, la Vergine dolcissima e tutti i santi dell’inferno... –
1
All’entrata del Lincoln Center, sospinta al centro da un firfinnì di piccole e colorate luci, domina in lieve prominenza una scritta celeste il cui significato, lontano dai fervori di chi la vorrebbe in altra maniera e curvatura, pare essere pressappoco questo: Come nasce un artista?
.
La gente conviene appassionata, presentandosi in elegante abito da sera, preoccupata d’essere in ritardo e di non trovare più posto.
Quest’ennesima trovata pubblicitaria in seno al mio nome mi fa arricciare il naso e con esso, nei modi di un pruriginoso fastidio, quegli ingovernabili peli che si rivoltano all’orlo delle narici e vestono in viso un’aria di trascuratezza. Chiedersi davvero come nasca un artista – ignorando di fatto l’ostetricia ufficiale – mi pare una di quelle stupidaggini universali che a braccetto con guerre, denaro e potere, mette di frequente in discussione l’intelligenza umana. Non condivido, ma non posso neppure manifestare il mio disaccordo; gli americani hanno speso una barca di quattrini per avermi fra di loro e presentarmi così, con la spocchia di chi sputa nel piattino della ricompensa, mi sembra quantomeno ingrato.
All’inaugurazione delle mie precedenti mostre – parlo di quelle città materne e affettuose per accoglienza e profumi di strada – mi limito a osservare con fanciullesco stupore la procedura del taglio del nastro e a rispondere superficialmente alle superficiali domande che i giornalisti mi pongono, di volta in volta, senza alcuna pretesa scandalistica.
Nessuno si interessa alla mia vita nel senso di un’attenzione volta a conoscerne gli aspetti privati e formativi; tutt’al più potrei pensare al lieve sfioramento di qualche curioso, ma in nessun caso saprei definirlo con esempi diversi da quelle navi che circumnavigano un continente senza mai approdare in alcuno degli Stati costieri.
Un giorno poi, una fotoreporter statunitense (a cui confido in amorosa partecipazione diversi orrori circa il mio passato), pubblica un articolo su una nota rivista del suo Paese: Il genio italiano sarebbe potuto essere un criminale?
. L’eco di questa dichiarazione in tutto il mondo accresce di cento volte la mia fama e naturalmente i miei guadagni; ma tanto poco confesso di essere interessato a questi che, quando alcuni produttori televisivi mi prospettano un evento nel quale dovrei riferire della mia vita prima che essa volga inaspettatamente al successo, rispondo garbatamente di no. È troppa l’angoscia che mi fa rievocare quelle cose, troppo il sentimento di rancore verso certa gente dalla quale mi affranco con meriti nettamente inferiori all’occasionale volgere degli eventi.
Da quando sono l’uomo di fama
non c’è notte che mi sia risparmiato di riflettere sulla mia condizione passata. Spesso soffro di quei turbamenti del sonno che spalancano le palpebre all’improvviso e arrivo nervoso alle prime luci del mattino scontando la tragica conclusione che il mio talento, o il talento in generale, valga niente. Quello che mi vanterei di possedere oggi, più o meno precisabile con la parola successo, può ridursi a un’equazione dettata esclusivamente dal caso, il quale, orbo com’è, non discerne affatto gli imbecilli dai meritevoli: per un qualunque uomo destinato alla gloria elettiva, ovvero a quella discutibile condizione di privilegio stabilita appunto dalla fama, almeno altri centomila imputridiscono all’ombra, martiri ignari di un olocausto ripetuto nel tempo. Anime depresse come sarebbe potuta rimanere la mia, marchiate al solo indizio della nascita, di continuo dirottate al fallimento dall’opprimente liturgia della rassegnazione, di illusioni, frustrazioni e lutti, replicati lutti, dove persino l’ingegno più vivace si offuscherebbe – come in realtà si offusca – e appassirebbe come inoltre appassisce.
Mi chiedo allora cosa ci faccio dentro questa limousine che taglia con alare morbidezza le vie di Manhattan. Perché mai mi convinco a raccontare la mia vita se poi dico di no? Suppongo decisiva la morte di mia madre, ultimo anello di quella dolorosa congiunzione che mi lega al passato e che rompendosi mi permette il riscatto definitivo.
Vengo fuori dalla macchina e subito m’inonda una valanga di flash e giornalisti di cui vedo solo un’enorme e appiattita faccia; sono tutti qui per me, contorti in febbrile e supplice devozione, a descrivere persino un’accelerazione improvvisa delle sopracciglia o il più elementare dei saluti. Che ipocrisia, la vita! E pensare che c’è stato un tempo in cui questo stesso mondo, avaro di pietà e delle più misere considerazioni, mi pisciava in bocca truccandomi da latrina, così per capriccio o per sadico impulso di sopraffazione.
Quattro giganti neri in divisa, i capelli rasati sulle tempie, gli occhiali scuri e un’auricolare allacciato all’orecchia, mi scortano all’interno della sala, allestita alla maniera di quella spettacolosa aggressione ai sensi che solo gli americani sanno concepire; giù d’essa, come l’intrigante lineamento di un viso che affonda nelle fantasie dell’amante più focoso, vi è predisposto un palco, sollevato, per almeno un metro, da terra; la struttura morbida e flessuosa rimanda con chiarezza a due imponenti labbra. Dico imponenti, ma l’intensa verniciatura rossa è qualcosa di più dell’imponenza. Al centro, poi, vi è alloggiata una poltrona sulla quale mi sembra di scorgere l’ombra di una mano; le dita affusolate si proiettano sulla grande bocca e, fra di esse, alle estremità delle unghie ricurve come scimitarre, prorompe verso il soffitto un’enorme sigaretta. Mi accorgo con ritardo che tutto l’auditorium è riempito di queste labbra e di questi giganteschi rotolini, tanto più che un alternato gioco di luci ne mette in evidenza alcune a svantaggio di altre.
In un Paese notoriamente schierato nella lotta contro il fumo, questa forma di istigazione scenografica rappresenta forse il massimo delle provocazioni possibili; vorrei farmene scrupolo per esserne l’ispiratore, ma non ci riesco, anzi, temo che la cosa mi diverta parecchio.
Giù per due file, separate al centro da un corridoio ampio e in lieve pendenza, vi è un eccezionale numero di spettatori. Per carità! Professionisti di una certa ed esclusiva levatura, con visi e silhouette assai diverse dal carnaio mediterraneo dove si agitano le mie galline del desiderio. Me ne rendo conto subito: qui la gente è strana, mi guarda, sorride, sorride ancora, fa vento. E io adoro questo vento.
Mentre i tecnici sistemano il microfono fra il bavero della giacca e il taschino della camicia, una signorina dai tratti orientali, con un fascio di fogli sottobraccio, mi spiega come mi devo muovere; dice che il mio posto è al centro di quelle labbra, sulla poltrona; che a un certo punto cominceranno a muoversi e a sbuffare fumo, ma che non mi dovrò preoccupare perché niente brucerà. Poi mi confessa sottovoce che da un momento all’altro dovrebbe giungere il Presidente in persona con un mascheramento d’occasione. Pare che anch’egli si sia appassionato alla mia storia e che ne voglia personalmente cogliere i dettagli e le sfumature, insomma quelle cose che altrimenti la televisione non saprebbe raccontare.
Confesso inoltre quanto brutta sia l’interprete che mi traduce da una finestrella posta in alto alla mia destra, e quanto però questa sua bruttezza, d’istinto insopportabile, si combini a un’eccezionale conoscenza della sua lingua e della mia.
Sono le venti e trenta in punto. Si abbassano le luci; il fondante chiacchiericcio della sala si trasforma di colpo in quell’intensità di silenzio propria di certe rare e specialissime occasioni.
Le telecamere di venti emittenti, collegate in diretta nazionale, articolano il classico cicalino d’accensione e tutt’intorno si diffonde la melodia di un famoso compositore.
Non dico una bugia né voglio incitare all’invidia quegli uomini che per indole protendono verso tale sentimento, ma starsene seduti qui, sull’orlo universale di queste labbra, è una sensazione irrinunciabile: scorrendovi la mano di sopra, con la leggerezza propria di un innamorato, capita quasi di inciampare in quelle piccole screpolature della pelle dovute all’ansia o al freddo. Che Dio benedica ogni donna e le sue labbra, penso fra me e quell’altro.
– Signore e Signori è con immenso onore e orgoglio che il popolo americano si fregia di avere qui, ospite fra le sue terre, il genio della culla che fu di Alighieri, Michelangelo e Leonardo; l’uomo che ha saputo sublimare una misera e bassa pulsione dell’istinto nella più fiorente e colorata espressione artistica, e che oggi, in esclusiva mondiale, ci racconterà gli aspetti più controversi e travagliati della sua vita, così che sia testimonianza appassionata del suo impegno e del suo talento; ma prima di ogni cosa, per rompere gli indugi e quindi lasciarlo parlare a ruota delle sue memorie, gli chiediamo: come nasce un artista? – dice il presentatore, un uomo il cui sorriso scintillante sembra scolpito su un corno di avorio.
– ... Intanto buonasera e infinite grazie dell’ospitalità. Beh, non saprei se nel vostro Paese si usa ancora, ma pare che dalle mie parti quando si rompono le acque ci sia urgenza di correre in ospedale ... – rispondo timidamente.
Seguono cinque secondi di imbarazzante silenzio. Al completamento della traduzione dell’interprete, la platea scoppia in una fitta risata a cui si sovrappone un’ovazione che di più fragorose non ne ricordo. Anche il presentatore, che ride lanciando un fischio ambiguo, deve implorare con urgenza un bicchiere d’acqua per stemperare l’eccitazione.
In questo minimo intervallo comincio a scorgere un omino nero con una scopa; passa dietro alle telecamere, a tratti mi sfiora, poi si fa beffa degli operatori, e fugge compiaciuto fra le quinte, sottraendosi di rapina all’occhio fedele della diretta. Ne sono sicuro: quell’uomo lì è il Presidente degli Stati Uniti d’America.
2
Prima che la mia vita volgesse al suo eccezionale stravolgimento non è abbastanza dirvi quanto essa e le sue componenti principali fossero state di violentissimo significato.
Non me ne voglia qualcuno più infelice, ma giuro che mettendo assieme gli aggettivi più dolorosi mai si compenetrerebbe quell’ampio insieme di frustrazioni, e ancora denigrazioni, umiliazioni e fallimenti che in maniera puntuale, quasi con rigore militaresco, aveva scandito i giorni, le settimane, e così tutto il mio tempo mortale.
Benché ne provassi profonda e duratura vergogna, ai tempi vivevo fra le mura paterne, tutto in una condizione di mite obbedienza. Molti dei miei coetanei europei avrebbero gridato allo scandalo se avessi confessato uno per uno i miei anni, invero pareva che quel radicato male di rimanere in casa, dalle mie parti, fosse così di moda da non impressionare più alcuno.
Nessuno, poi, aveva mai fatto niente per agevolare la mia emancipazione; anzi, più d’altri, era stata la stessa famiglia a sostenere quell’inerzia; e lo faceva attraverso meschini ricatti, scoraggiando ogni iniziativa estranea a un concepimento borghese, e convincendomi al punto che, restituiti alla morte i due membri principali, io sarei crepato di fame, roso e scavato nelle carni da una rabbiosa pastura di vermi.
A giudicarne ora i componenti mio padre era uno stimato notaio di provincia la cui percezione delle cose mondane si era bruscamente interrotta prima che l’uomo mettesse piede sulla luna; immaginate pertanto quanto disprezzo covasse per i costumi della modernità e quanto la sua disposizione conservatrice lo facesse fedele ai dettami di una destra nostalgica; se di questo vi potesse essere un momento esemplare era a tavola che offriva il meglio di sé. Saprò dirvi meglio: all’incanto di quei rotocalchi che andavano in onda dopo il telegiornale della sera, si contorceva sulla sedia sfoggiando un campionario di smorfie, la più compita delle quali ricalcava appieno il disgusto tipico dei preti di fronte all’eresia. Non vi era scampo o possibilità di redenzione per quelli che passava a setaccio, soprattutto per talune tipologie di donne. Chi di loro osava mietere le sopracciglia, sconfinare gonne in prossimità di glutei, puntellare ombelichi con orecchiette metalliche o esibire una sigaretta accesa, era prossimamente giudicata quale infima collettrice di vizi, ovvero, né più né meno, una donnetta di malaffare.
Mio padre era di carnagione pallida con sfumature d’ittero su per gli zigomi; gli occhi sporgenti e di un celeste annacquato chiudevano la linea del naso, un po’ torto in punta e, sotto questa, le labbra strette parevano i lembi di una ferita da taglio; dagli