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Morte a Pilakopi
Morte a Pilakopi
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E-book237 pagine3 ore

Morte a Pilakopi

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Info su questo ebook

Daidalon, l’inventore del labirinto. Daidalon, un uomo tormentato dai demoni dell’ambizione e dell’invidia. Daidalon l’assassino!
Un giallo in cui si fondono i personaggi del mito e la realtà storica della civiltà micenea. Una riflessione sul dramma che opprime l’umanità: l’essere artefici del proprio destino e al contempo schiavi della sorte.

di Marco Bertoli
Daidalon, un nome che suscita ovunque ammirazione. Daidalon, l’inventore e artista più grande del suo tempo. Daidalon, un uomo tormentato dai demoni dell’ambizione e dell’invidia. Daidalon l’assassino!
Costretto a scappare da Atene per sottrarsi alle accuse di omicidio della sorella e del nipote, colui che sarà l’architetto del Labirinto salpa per la lontana Creta. Il Fato, però, lo attende sull’isola di Pilakopi, dove dovrà indossare le vesti dell’investigatore per risolvere un delitto di cui è sospettato.
Un giallo in cui si fondono i personaggi del mito e la realtà storica della civiltà micenea. Una riflessione sul dramma che opprime l’umanità: l’essere artefici del proprio destino e al contempo schiavi della sorte.
LinguaItaliano
Data di uscita8 feb 2021
ISBN9791220261807
Morte a Pilakopi

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    Anteprima del libro

    Morte a Pilakopi - Marco Bertoli

    vita.

    Prologo

    Lo scricchiolio di ginocchia che hanno visto più primavere di quante mi piaccia ammettere mi accompagna mentre salgo la scala, che pare non avere fine. La spirale è immersa in un’oscurità stemperata dal chiarore della lampada a olio che mi trema nella mano. Sulle pareti di pietra si disegnano ombre distorte. Ai miei occhi velati dalle cataratte richiamano scene che preferirei svanissero dalla memoria. Invece vi rimangono aggrappate con la caparbietà di un naufrago stretto a un relitto.

    Dietro la mia schiena, ingobbita dal peso degli anni e dal sacco che mi opprime le scapole, risuona il mormorio di voci impazienti. Le mie compagne non hanno difficoltà a inerpicarsi su gradini appena sufficienti a poggiarvi la punta dei calzari. L’artefice che li ha concepiti si è attenuto con scrupolo alle regole della praticità e ai criteri del risparmio. Non ha concesso un’unghia ai canoni dell’estetica per costruire una scala di servizio poco utilizzata. Chi mai, infatti, desidererebbe raggiungere un luogo sferzato da Boreas1 in inverno e bruciato dal sole in estate per ammirare il panorama o, tantomeno, per sfuggire alle preoccupazioni che gli affliggono l’animo?

    Non sono nelle condizioni di dare torto al progettista: sono stato io a tracciarne il profilo; come dell’intero edificio, d’altronde. A mia discolpa posso addurre la giustificazione che, a somiglianza di quanti percorrono le strade del mondo, non possiedo il dono della preveggenza: mai avrei immaginato che un giorno sarei stato costretto a salirla io stesso.

    Un rantolo mi fuoriesce dai polmoni ansanti quando le dita adunche dei piedi si posano sull’ultimo scalino e i raggi dell’alba mi trafiggono le pupille.

    La mia, però, non è un’espressione di sollievo perché l’ascesa è giunta al termine, né un sussulto di nostalgia per il profumo salmastro che accarezza questa riva della terra di Sicania. Rappresenta piuttosto la rassegnazione di un individuo consapevole di essere incapace, nonostante i suoi tentativi, di spezzare il filo di sangue che il Fato ha intrecciato alla trama della sua esistenza.

    Gli dei sono testimoni di quanto mi sia prodigato nell’impresa di riuscirci!

    Trattengo fra i denti una bestemmia. So per esperienza che non è prudente stuzzicare l’attenzione di esseri che si dilettano a osservare gli artifici che noi mortali mettiamo in atto per renderci simili a loro; per conquistare, grazie alla fama ottenuta con le nostre azioni, una briciola di quell’eternità a noi negata.

    Del resto, quale fosse il cammino di vita che mi si prospettava lo rivelò l’oracolo della Pitonessa. Ai miei genitori, andati a offrire alla Dea Madre il primogenito, predisse con la sua cadenza da serpe: «Sopra gli altri uomini s’innalzerà, sollevato dalle ali del suo mirabile ingegno, ma le passioni più turpi lo precipiteranno nell’abisso. In ogni contrada diverrà oggetto di ammirazione per le invenzioni partorite dal suo fecondo intelletto. A ogni trionfo, però, seguirà immancabile la caduta nel fango, poiché nel suo spirito sono mescolati oro fino e vile bronzo!»

    Poveri Palamon e Iphinoe. Non ebbero nemmeno il conforto di un responso velato da parole criptiche. Quel neonato paffuto era come una splendida anfora che racchiudeva nel proprio ventre liquami puzzolenti.

    Questa è la condanna che mi è stata imposta. Queste le catene che mi avvinghiano senza possibilità di spezzarle: sono la personificazione della guerra che la ragione combatte quotidianamente contro la follia. Un duello accanito e tuttavia inutile, perché il caos prevarrà sempre sull’ordine, lasciando dietro di sé le macerie di un uomo distrutto fino alle fondamenta.

    Mentre la brezza del mattino asciuga il sudore dal reticolo di rughe che mi devasta la fronte, sono assalito da un sentimento d’impotenza: ancora una volta mi ritrovo in cima a un tetto.

    In quest’occasione è la maestosa terrazza che corona l’ultimo piano del superbo palazzo in cui dimora il potente Kokalos. Oltre il parapetto merlato è raccolta la poderosa cittadella di Kamikos e, più in basso, l’intero abitato della magnifica città di Ynukon.

    Una smorfia mi contrae gli zigomi al pensiero degli aggettivi magniloquenti scelti per descrivere la nuda spianata al culmine del rozzo edificio in cui abita un re barbaro. Un monarca che governa su un agglomerato di catapecchie e un pugno di villaggi ancor più miserevoli.

    Così in basso mi ha sprofondato la brama di celebrità che divora il mio cuore!

    Costretto a mendicare un tetto e un po’ di cibo, l’adulazione è divenuta un abito di cui non posso più spogliarmi, neppure quando converso con me stesso. E dire che ho ripagato con gli interessi la benevolenza del mio ospite, perché ho creato giocattoli prodigiosi per la progenie dei suoi lombi. A essere onesto, è stata la voglia di riceverne altri che ha indotto le sue figlie a escogitare un piano per sottrarmi alla vendetta di chi ha scoperto il mio nascondiglio dopo anni di tenaci ricerche.

    Scuoto la chioma dalle sfumature argentee che si ostina a crescermi sul capo: vano è l’estremo sotterfugio di eludere la realtà perdendomi in futili elucubrazioni. Il motivo che mi ha condotto fin quassù è infatti sempre il medesimo. La maledizione che mi perseguita: l’omicidio.

    Scruto davanti a me.

    Come promesso dalle mie accompagnatrici, al canto del gallo nessuna guardia è salita a vigilare sull’orizzonte. Tranquillizzato, proseguo.

    Finalmente libere dall’ostacolo rappresentato dal mio corpo, le tre figlie del sovrano danno sfogo alla loro giovanile impazienza e mi superano, indifferenti al peso che reggono tra le braccia.

    «Non correte!» sibilo, ma intanto mi godo lo spettacolo dei loro piedini calzati in sandali di cuoio e dei loro polpacci nudi che spuntano da sotto i chitoni. «Non dobbiamo fare rumore! Qualcuno potrebbe insospettirsi» continuo, ammonendole per la loro esuberanza.

    Nonostante il richiamo provenga da uno straniero accolto e ospitato con magnanimità dal loro genitore, obbediscono e rallentano l’andatura. Adesso procedono con la cautela di cerbiatte che abbiano fiutato la presenza del lupo.

    Sorrido e le seguo con calma fino al punto in cui si sono fermate. Con attenzione appoggiano a terra, a qualche passo da un ciottolo appiattito, gli oggetti che hanno trasportato: un braciere tripode, alcuni ceppi di legna e una pentola di rame piena d’acqua.

    Mi libero a mia volta del carico. È assai più leggero dei loro, ma mi lascia le spalle indolenzite.

    Colgo i loro sguardi ansiosi mentre m’inginocchio e sposto il sasso, rivelando un buco rotondo del diametro di un paio di dita. Appoggio un occhio sul foro praticato negli strati di canne e argilla che costituiscono l’impiantito. Nel chiarore diffuso da una finestra che so essere rivolta a levante, intravedo il contorno di una vasca da bagno.

    Quando mi rialzo, le ragazze mi fissano con una tensione che imbruttisce i lineamenti più che deliziosi dei loro visi.

    «Un lavoro eseguito con la maestria di un provetto costruttore», mi congratulo. Strano, ma la mia lode è autentica, senza infingimenti o tracce di adulazione. «Non avrei saputo fare di meglio.»

    I loro timori si sciolgono in un coretto di gridolini di gioia.

    «Non ci saremmo mai riuscite senza il tuo trapano», confessa Ippana, le cui curve da diciottenne sono fonte di sospiri d’amore per una schiera di aitanti aristocratici.

    «Le misure che ci hai fornito erano esatte al capello», si accoda Nisa, un’adolescente sotto la cui pelle bruna scorre il fuoco di queste lande.

    «Intanto che le mie sorelle praticavano il foro, io pulivo la stanza dalla polvere e dai detriti che cadevano dal soffitto, cosicché nessuno potesse accorgersi di quanto stavamo facendo», conclude Skirtea, con le gote rosse per l’orgoglio del contributo fornito. Ha appena compiuto tredici anni, ma quanto a sensualità non è inferiore alle altre.

    Mi affretto a smorzare il loro entusiasmo: «Zitte, o rovinerete tutto con il vostro chiasso da gazze!» Il tono benevolo della mia voce contraddice la severità del comando. «Piuttosto, raccontatemi come avete fatto a eludere la sorveglianza della sentinella.»

    «È stato facile come cogliere un fico maturo», mi risponde Ippana con uno scintillio di malizia nelle iridi marroni. «Ieri pomeriggio era di servizio quel bigotto di Erbesso: è bastato raccontargli che volevamo sincerarci con i nostri occhi se le dicerie sulla virilità di Minos fossero fondate...»

    «Chi ha generato una creatura stupefacente per metà taurina, deve di necessità essere dotato quanto il maschio della vacca!» la interrompe Nisa, imitando il timbro di gola della maggiore.

    «… perché si ritirasse scandalizzato nel canto più discosto della terrazza a fissare il paesaggio. Ha mormorato preghiere per tutto il tempo che ci è occorso», conclude la prima con un sogghigno.

    Più che stupefacente, avrei definito Asterion un mostro orribile e antropofago, ma tengo per me la considerazione. «Nessun rischio che ci tradisca, quando comprenderà il vero scopo per cui avete trapanato il soffitto?»

    «Nessuno», conferma Ippana con una scrollata di spalle. «Se osasse denunciarci a nostro padre, a noi non capiterebbe nulla di peggio di una sonora reprimenda. Al massimo il nostro adorabile genitore potrebbe…»

    «… aggiungere qualche punizione. Che so, impedirci di partecipare a una festa di palazzo o a una gita in campagna con le amiche…» continua Nisa.

    «… oppure obbligarci a pasteggiare con pane raffermo e ad andare a letto a digiuno. Erbesso, al contrario, rischierebbe la testa, se s’azzardasse a spifferare qualcosa. È un moralista, non un idiota», conclude pragmatica la più piccola.

    Annuisco. Io mi trovo nell’identica situazione dello sfortunato guerriero: sono alla completa mercé di questo terzetto di fiorellini. Splendide corolle che sprigionano un aroma inebriante ma tossico se inalato senza precauzioni. «E con la guardia di stamani?» insisto. «Come vi siete guadagnate la sua connivenza?»

    «La Grande Dea ci ha mostrato il suo volto più benevolo», ridacchia Skirtea. «È di turno Krastos, un giovanottone gentile e sensibile alle grazie femminili. È bastato promettergli che saremo carine con lui per garantirci la sua assoluta discrezione e totale complicità.» Con un sorriso provocante solleva il bordo della veste al limite della decenza, scoprendo le cosce tornite. «È in fondo alla scala, rimpiattato dietro a una colonna, pronto a impedire il passaggio a chiunque, perché ha ricevuto ordini tassativi al riguardo.»

    Allibisco per la sfacciataggine, ma non ho modo di esternare la mia reazione, perché le ragazze mi si stringono attorno. Strusciandosi come gatte in calore, mi travolgono con un turbinio di domande.

    «Davvero sono stata brava?»

    «Costruirai anche per me un uccellino che gorgheggia e sbatte le alucce come quello di Skirtea?»

    «E a me cosa regalerai?»

    Con uno sforzo di volontà mi sottraggo a quella pioggia di moine e rinchiudo nella stalla le velleità senili del mio inguine.

    «Accontenterò tutte, statene certe», rispondo con imbarazzo. «Ora, però, dobbiamo concentrarci sul lavoro», bofonchio, simulando una durezza che non mi appartiene.

    Il terzetto toglie l’assedio con occhi sfavillanti di trionfo. Contemplo i volti eccitati delle colombelle e una fitta mi trapassa il petto.

    Donne!

    È stata la brama delle vostre lodi che mi ha tradito; il desiderio di crogiolarmi nei vostri complimenti che mi ha spinto lungo il cammino profetizzato dall’Oracolo. La prima a cui soccombetti fu Polikasta, mia sorella. Avessi tappato con la cera le mie orecchie, invece di prestarle ascolto!

    «Mettete a riscaldare l’acqua», le esorto. «Non abbiamo tempo da perdere.»

    Mentre apro il sacco, il pensiero vola a un tempo dissolto nella polvere. A un paese lontano, le cui spiagge sono bagnate da un altro mare…


    1 Vento del Nord.

    Capitolo 1

    Dintorni di Atanai 2

    Il sole al tramonto era un disco di rame lucido, martellato contro un cielo di cui nessuna nuvola macchiava la limpidezza.

    A settentrione e a occidente l’orizzonte della baia era racchiuso da una costa montuosa. Nelle pareti a picco erano intagliate insenature e le foci di fiumi e torrenti in secca. Su questo fondale in ombra si stagliavano i profili di isole e isolotti. Simili a dorsi di balene, emergevano dal mare, che si allargava senza confini verso meridione.

    La sponda orientale del golfo, infine, era una pianura, delimitata in lontananza da un semicerchio di rilievi dalle creste arrotondate.

    A circa venticinque stadi dalla riva, alcune colline di rocce biancastre butteravano la striscia di terreno che digradava verso la riva. Le sfumature del crepuscolo incendiavano le facciate e i tetti che sbucavano dalle mura erette sulla sommità della più elevata. Un viaggiatore che fosse giunto da Mukanai³ o da Puro⁴ avrebbe descritto quella cittadella con un tono di sufficienza, se non di derisione. Le fortificazioni, infatti, avevano un aspetto insignificante paragonate a quelle che cingevano la città del wanaka⁵ Eurusteso⁶ o la capitale del regno di Neelawos⁷. Eppure, nell’ora in cui la luce assume riflessi dal sapore sovrannaturale, l’acropoli di Atanai sembrava sciogliersi dai vincoli della materia e librarsi nell’aria.

    Cieche alla suggestione di quello spettacolo, le barche dei pescatori iniziavano a uscire alla spicciolata dal porto di Phaleron. Sorvolate dalle strida dei gabbiani, le imbarcazioni scivolavano sulle acque, spinte da braccia fiduciose nella misericordia di Posedawone⁸.

    Le invocazioni degli uomini ai remi si mescolavano alle grida di un gruppo di ragazzi impegnati in una gara di corsa lungo la battigia.

    Lontano dal resto della combriccola, un giovane dalla corporatura tarchiata e dai riccioli corvini sedeva a gambe incrociate sulla spiaggia di ghiaia. Ignorando il chiasso dei compagni, fissava la lisca di pesce che rigirava tra i polpastrelli.

    Osservando la concentrazione di quei lineamenti, prossimi all’età in cui i maschi offrono a Diwe⁹ la prima peluria cresciuta sulla faccia, si sarebbe potuto credere che il ragazzo riflettesse sulla caducità della vita. Sarebbe stato un errore. Di tutt’altro genere erano le considerazioni che gli si accalcavano nel cervello. Stava cercando, infatti, di dare forma a un concetto che continuava a sfuggirgli con la pervicacia di un’anguilla.

    Frustrato, sospirò e alzò la testa. Perso nei suoi pensieri, senza rendersene conto cominciò a sfregare lo scheletro del pesce sull’avambraccio.

    Il nervosismo lo spinse a premere con forza sempre maggiore, finché una fitta improvvisa lo riscosse e lo riportò alla realtà. Volse lo sguardo alla fonte del dolore: un solco sottile era inciso nella pelle abbronzata, punteggiato da alcune stille di sangue.

    L’illuminazione fu un pugno che lo colpì alla bocca dello stomaco.

    L’identica sensazione aveva provato quando, guardando Eurudamo piroettare su se stesso e tracciare un solco nella polvere con un bastone, aveva compreso come risolvere il problema di disegnare circoli perfetti.

    Il sistema tradizionale di legare uno spago a una coppia di chiodi e poi, fissatone uno, girarci attorno con l’altro presentava, infatti, diversi svantaggi. I più gravi erano tre: si procedeva a tentativi, funzionava bene se si dovevano descrivere cerchi di grande raggio e, spesso, era difficile da impiegare. La sua soluzione era stata semplice: unire con un perno una coppia di astine cilindriche di bronzo con le estremità appuntite. Aveva chiamato compasso lo strumento con cui muratori e carpentieri avrebbero potuto disegnare tondi di qualsiasi diametro e, come gradita aggiunta, anche misurare lunghezze.

    O la volta in cui, ammirando l’abilità con cui un ragno avvolgeva la preda in un bozzolo, gli era divampata nella mente l’immagine di un vasaio al lavoro. Invece di creare un recipiente sovrapponendo anelli d’argilla che poi avrebbe compresso tra loro, l’artigiano lo modellava in minor tempo agendo su un blocco di creta appoggiato su una piattaforma ruotante.

    L’invenzione del tornio era la ragione per cui evitava di passare per il Kerameu. Se si avventurava per le viuzze del quartiere abitato dai vasai, era accolto da ovazioni e offerte di bevute.

    Adesso nella sua mente era comparsa una lama di bronzo, sul cui filo era intagliata una successione regolare di denti. Le punte affilate mordevano con facilità un pezzo di legno, fino a dividerlo in due parti. Il taglio ottenuto era preciso, rettilineo e, soprattutto, liscio, a differenza di quello svasato e scabroso lasciato da un’accetta.

    Un grido si levò dalla spiaggia: «Si sta facendo tardi, gente! Meglio che ci incamminiamo verso Atanai o rischiamo di trovare le porte sbarrate per la notte.»

    Il ragazzo accolse con gioia l’avvertimento. Si alzò e trotterellò verso i compagni. Un sorriso di trionfo gli illuminava il volto: non vedeva l’ora di tornare a casa per realizzare l’invenzione appena partorita.

    Mentre raggiungeva il resto della banda, pronto a subirne con pazienza le frecciatine ironiche per il suo comportamento, si chiese come avrebbe chiamato quell’attrezzo che, ne era sicuro, avrebbe reso più agevole il mestiere del falegname.

    Al culmine del proprio percorso, la luna illuminava la cittadella e il sottostante borgo di Atanai.

    Sugli spalti delle mura, o di pattuglia per le strade, sentinelle dai volti arcigni vigilavano, affinché gli abitanti si godessero il sonno dopo una giornata trascorsa in mille occupazioni.

    «Lì dentro c’è qualcuno che condivide la nostra veglia invece di dormire nel suo letto», commentò una guardia di ronda, indicando il filo di luce che filtrava dagli scuri di una finestra.

    «È la casa di Talos», lo informò in tono saputo il guerriero che gli marciava al fianco. «Starà trafficando con qualcuna delle sue invenzioni.»

    «Talos? E chi sarebbe?» domandò perplesso l’altro. «Il nome non mi dice

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