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La cometa di legno
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E-book155 pagine2 ore

La cometa di legno

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Info su questo ebook

Il libro racconta di una panchina, spettatrice e narratrice, e dei molti personaggi che in lei cercano sostegno. I frammenti di vita e i sentimenti di ciascuno di loro vengono con pazienza raccolti e ricostruiti dalla panchina. Per poi essere restituiti al lettore con un tocco di speranza.
LinguaItaliano
Data di uscita9 set 2014
ISBN9788891155429
La cometa di legno

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    Anteprima del libro

    La cometa di legno - Alice Ronco

    Sempre.

    Uno

    Sono nata tra mani ruvide e odorose di cedro, in una stanza in cui la luce filtrava polverosa attraverso le finestre e avvolgeva col suo calore gli angoli in cui, dimenticate, riposavano le creative speranze deluse.

    Ricordo come nelle ore trascorse in quella bottega i trucioli mi solleticavano la schiena e avrei tanto desiderato piegarmi per soffiarli via, come faceva il vento di aprile, abile architetto, che creava torri di fiori con un sottile respiro.

    Avrei voluto flettermi, soffiare, ridere, ma la credenza in frassino, che mi osservava ansiosa, mi rammentava che io ero fatta per sopportare il peso e la stanchezza. E chi è nato per sostenere qualcosa non può piegarsi. Mai.

    Mio padre veniva spesso a farmi visita. Tra le sue mani avevano visto la luce molte altre creature prima e dopo di me, ma io, ne sono certa, sono sempre stata la sua preferita. Lo capivo dal modo in cui osservava ogni dettaglio della mia pelle, ogni giuntura del mio corpo, per vedere se in qualche modo avrebbe potuto rendermi ancora più bella.

    Sapevo che il mio debutto in società era vicino: a quel tempo, però, ancora non sapevo cosa sarebbe venuto dopo, chi avrei incontrato nella mia lunga vita.

    Non immaginavo quanto avrei odiato e amato quegli strani animali chiamati uomini, i cui comportamenti non mi sono stati mai del tutto comprensibili. Mi sono spesso chiesta quale divinità mi avesse voluto inviare tra di loro, come angelo custode dei loro segreti e delle loro speranze, e perché mi avesse voluta presenza silenziosa e immobile, capace di udire, ma non di consigliare né di consolare.

    Il giorno prima che mi portassero via da casa mio padre era venuto a darmi il suo ultimo saluto. Dal modo in cui aveva accarezzato la mia schiena avevo compreso che non l’avrei più rivisto.

    Mi aveva guardata ancora una volta bene e poi mi aveva detto che ero perfetta. Aveva detto proprio così e il mio cuore si era riempito di gioia perché ciò che è perfetto è completo, non manca di nulla e non ha bisogno di nulla.

    Compresi in seguito che non era affatto così.

    Il giorno seguente, in un pomeriggio di ottobre, era arrivato un camioncino da cui erano usciti due uomini assonnati. Erano entrati in bottega e avevano parlato con mio padre. Lui mi aveva indicato e io avevo cercato di nascondermi alla loro vista. Per la prima volta mi resi conto che le quattro gambe di cui ero dotata non mi avrebbero permesso di muovermi, di fuggire, ma, anzi, mi tenevano ben piantata al suolo ed erano così pesanti che non riuscivo a sollevarle.

    Ero spaventata che osservassero e volessero proprio me, ma allo stesso tempo ero emozionata: avevo paura di lasciare papà e la credenza di frassino, ma ero curiosa di sapere perché ero venuta al mondo e quale sarebbe stata la mia nuova casa.

    Non avevo mai visto al di là della finestra della mia stanza, non avevo mai visto l’aia che si apriva davanti alla bottega come un’arena, né la grande rimessa piena di legna. Avrei voluto imprimere nella mia memoria ogni dettaglio di quel mondo che era stato così vicino a me, ma che io non avevo mai potuto vedere. Cercai di afferrare con gli occhi tutto ciò che potevo.

    L’ultima immagine che vidi, prima che le pesanti porte si chiudessero dietro di me, era il volto di papà che mi osservava dietro le finestre. I suoi occhi verdi.

    Poi il buio. Assoluto.

    Non c’erano quei puntini luminosi che pulsano nel cielo notturno e che, scoprii nel tempo, sono scrigni di sogni e di sospiri innamorati. Non c’era odore di cedro, ma puzza di umido e di muffa. Faceva freddo e non c’era nessuno che mi parlasse, neanche che mi guardasse.

    Una piccola goccia morbida e appiccicosa mi colò sulla pancia, sentii un breve ma intenso dolore, come una piccola ferita che si apriva.

    Questo mi faceva comprendere che ero viva. Triste, ma viva.

    Passai molte ore al buio nel furgone umido, finché, finalmente, i due uomini mi fecero uscire e mi portarono nella mia nuova casa: il parco del gabbiano Jonathan Livingston. Scoprii alcuni anni dopo che si chiamava così perché al centro del parco c’era una statua dedicata a quell’audace volatile. Non riuscii mai a vedere la statua perché si trovava alle mie spalle, ma alcuni amici me la descrissero e uno di loro riuscì anche a parlare con lei.

    Il posto in cui avrei trascorso il resto della mia vita si trovava vicino a un piccolo laghetto, non lontano dalle siepi di rose e dallo scivolo blu. Tutto era molto diverso dalla bottega. C’erano tanti rumori che non avevo mai sentito, tante parole che volavano come libellule nell’aria e, soprattutto, tanti esseri umani, così tanti come non ne avevo mai visti prima.

    Mi girava la testa e, ricordo, chiudevo continuamente gli occhi sperando che, una volta riaperti, mi sarei di nuovo trovata con papà, lì dove mi sentivo protetta e amata.

    Due

    I primi mesi dopo il trasferimento dalla bottega furono molto difficili per me. La solitudine era l’ombra che mi faceva più paura. Mi mancavano tanto i lunghi discorsi con la credenza, i suoi consigli e le storie che mi raccontava prima di dormire.

    Il parco di giorno brulicava di persone, ma all’imbrunire, lentamente, tutti tornavano alle loro case, e allora, nel silenzio più totale, la paura si infilava tra le mie giunture, come una sottile brezza, e mi impediva di addormentarmi.

    Poi un giorno era arrivato Grey e da allora la solitudine aveva incominciato a dissolversi, come una nuvola.

    Grey si trovava lì per errore, questo io lo so, lui no. E ho sempre preferito che non lo sapesse.

    Un giorno di settembre, di tanti anni fa, Rodolfo, l’uomo con la tuta verde che veniva spesso ad occuparsi delle piante e dei fiori nel parco, aveva piantato un esile alberello proprio lì, vicino a dove stavo io: doveva essere un’acacia, ma non lo fu.

    - Serena, che cosa succede? Sai che ora sto lavorando. Devo piantare le acacie nel parco di Corso Eufrate... Come? Oh tesoro, è... è una bellissima notizia, perché non me l’hai detto questa mattina?... Non sapevi come avrei preso la notizia?... I bambini saranno così felici di avere un fratellino o una sorellina ed io, io sono l’uomo più felice del mondo. Tornerò presto questa sera, te lo prometto. E festeggeremo con i bambini.

    Rodolfo si era seduto sulle mie ginocchia, era rimasto in silenzio e fermo a lungo, poi si era preso il volto tra le mani. Aveva tre bambini, non ancora grandi, a volte la domenica li vedevo giocare nello scivolo vicino al laghetto, ed ora Serena ne aspettava un altro.

    Nel suo sguardo leggevo la gioia, che si accende quando una nuova vita verrà, ma anche la preoccupazione, perché Rodolfo non aveva molti di quei rettangoli di carta verde che nascono dall’anima di cui siamo fatti io e Grey, ma hanno una missione nella vita così diversa da noi. E pare che col solo loro esistere siano in grado di dare la gioia più grande o il dolore più grande.

    Dopo minuti, forse ore, Rodolfo si era alzato e, avvicinatosi al suo veicolo, verde come la sua tuta e come noi, aveva preso un albero e lo aveva piantato, lì dove gli avevano detto di piantarlo. Ma con gli occhi velati di lacrime non aveva letto la targhetta che portava il nome dell’albero e, invece di una austera e saggia acacia, aveva piantato Grey, un pasticcione caco, impulsivo e logorroico, i cui profumati rami, da quel giorno, mi avrebbero accompagnato per sempre in un morbido abbraccio.

    Amavo parlare con Grey, perché eravamo così diversi io e lui. Ma la cosa che ci accomunava era il nostro essere lì, d’inverno, d’estate, d’autunno, di primavera. Eravamo sempre nello stesso posto, a disposizione di chi voleva incontrarci. E per quanto entrambi avessimo più volte sognato di andare via, di volare, di scoprire, eravamo consapevoli che la cosa più bella della nostra esistenza era proprio il restare.

    Tre

    La signora Augusta veniva a trovarmi quasi tutte le mattine, solo quando l’aria tiepida della primavera faceva schiudere le gemme ansiose di vivere. Un tempo la signora Augusta passeggiava con suo marito, il ragioniere De Martini, un uomo alto, con un sorriso pieno.

    I due coniugi De Martini sono stati tra i primi a volermi conoscere, poco dopo il mio arrivo al parco. Erano sposati da pochi mesi, lo si capiva dalle lucenti fedi che indossavano al loro anulare e dal modo divertito, ma ancora un po’ intimidito, con cui si tenevano furtivamente per mano.

    Spesso quando erano seduti sulle mie ginocchia, amavano ricordare il modo in cui si erano conosciuti. Alla festa dell’ultimo saluto al grano.

    Era una festa che si teneva ogni anno il secondo fine settimana di luglio. Vi partecipavano tutti gli abitanti della valle e da aprile le donne iniziavano a scegliere l’abito che avrebbero indossato la sera del ballo, il sabato sera. Le più brave confezionavano da sé il proprio vestito e così, Roberto, il sarto, a febbraio si recava in città per scegliere i tessuti all’ultima moda che erano arrivati da Milano, o addirittura dalla Francia, per rendere felici le clienti, anche quelle più esigenti come Augusta.

    Quell’anno Augusta al ballo non voleva neanche andarci. Tutte le sue cugine erano fidanzate, alcune già sposate, mentre lei, ultimo fiore a schiudersi, non aveva ancora trovato l’uomo giusto. Sua madre le aveva tante volte indicato bravi giovani, desiderosi di portarla a prendere una cioccolata al pomeriggio o, addirittura, di portarla a fare una gita al lago, ma Augusta aveva sempre rifiutato, perché pensava che le sarebbe bastato uno sguardo per individuare l’uomo con cui avrebbe voluto condividere il resto dei suoi giorni.

    Le zie erano ormai certe che Augusta sarebbe rimasta una zitella, perché i suoi fianchi erano acerbi e il suo naso spigoloso, ma Augusta non si era mai fatta spaventare.

    Quell’anno la sua amica Margherita le aveva chiesto di accompagnarla al ballo perché ci

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