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Estranei: The Blue Collection, #5
Estranei: The Blue Collection, #5
Estranei: The Blue Collection, #5
E-book287 pagine4 ore

Estranei: The Blue Collection, #5

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Info su questo ebook

Ecco il titolo del nuovo romanzo "Estranei", scritto dalla scrittrice rumeno-canadese, Mara Popescu-Vasilca, che rimarrà nella letteratura come prova di una narratrice potente, un nome di riferimento per la letteratura contemporanea. I personaggi di Mara Popescu-Vasilca non hanno alcun problema nel rivelare i loro segreti più intimi e le vite scioccanti abilmente intrecciate nelle loro storie.

Le opere della talentuosa scrittrice rumeno-canadese, Mara Popescu-Vasilca, si ergono come affascinanti filmati delle vite dei suoi personaggi. Con una maestria senza pari, Popescu-Vasilca dipinge le storie dall'esterno e, ancor più sorprendentemente, dall'interno, creando autentiche riflessioni delle anime in quei momenti straordinari che hanno caratterizzato le loro esistenze. I suoi romanzi sono come intricati quadri di vita, con dettagli magistralmente catturati attraverso l'uso abile delle parole. Ogni pagina è un viaggio elegante e coinvolgente attraverso esistenze narrate con un tocco di raffinatezza, rendendo le sue opere delle vere e proprie opere d'arte letterarie.

LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2023
ISBN9798223734123
Estranei: The Blue Collection, #5
Autore

MARA POPESCU-VASILCA

Mara Popescu-Vasilca este o scriitoare canadiana de origine romana care publica carti despre femei si pentru femei contemporane. Mara locuieste in Montreal, Quebec, si este casatorita cu George Vasilca. 

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    Anteprima del libro

    Estranei - MARA POPESCU-VASILCA

    ESTRANEI

    Romanzo

    2023

    Capitolo 1

    Siamo indecisi, se gioire

    o intristirci, quando

    dobbiamo fare visita

    a coloro che sono

    passati a miglior vita.   

    Non so perché oggi non ho pensato che sarei riuscito a svegliarmi così deluso, forse perché i brutti momenti che ho passato mi hanno gravato, non pensavo che la solitudine potesse essere così spietata nonostante avessi avuto dei momenti in cui bramavo la pace di essa. Mi sono rigirato nel letto per tutta la notte dopo che avevo preparato i pacchetti, mi continuavo a chiedere se fosse vero che offrendoli in dono i morti sarebbero riusciti a mangiare. Stupido, penso che siano solo racconti e che tutte queste tradizioni vengano mantenute solo per lasciarci vivere in pace quello che ci resta da vivere. Ci continua a chiamare lì per farci vedere dove arriveremo anche noi, di conseguenza, per paura facciamo le offerte e li ricordiamo. Nonostante questo pensiero iniziale sento che sia giusto quello che sto facendo anche se in cuor mio non ci credo a fondo, so che questa è l’usanza, devono essere ricordati.   

    Oggi mi sono alzato presto, ho iniziato a prepararmi con calma, la casa è immersa nel silenzio. Mi sono fatto un tè e ho mangiato qualche pasticcino mentre guardavo l’orologio sulla parete, erano le otto e dieci, era mattina e siccome era presto mi sono steso sul divano, stavo con gli occhi chiusi e con le mani sul petto aspettando che arrivino. Sono nel dormiveglia, fra il sogno e la realtà, con le orecchie tese a sentire l’auto. D’un tratto salto dal divano, qualcuno sta battendo sul metallo del numero civico. Vado verso la finestra per vedere chi è. Mi viene da ridere, è lui, Claudio, il mio nipotino che sbircia da dietro alla recinzione per vedere se esco fuori. Mi sfrego gli occhi, vedevo annebbiato, mi metto gli occhiali, le due lenti sono sempre più deboli. È così, quando sei anziano la forza e la vista ti abbandonano. La forza per non affrettarci più e la vista per non scorgere più le rughe della vecchiaia, per pensare di essere ancora giovani...

    Nonnoooo, esci fuori. Siamo arrivati per portarti al cimitero, oggi è il giorno del ricordo dei morti.

    Sì, sono nonno, nonno Florin. Sono pronto per andare con loro al cimitero, sulle mie gambe. Il calendario mostra da ieri il cinque di marzo. Tiro via la pagina che c’era sopra ed esce la giornata odierna, sei marzo 2020. Il sabato della Pentecoste. Dio, quando sono passati tutti questi anni?

    Andiamo insieme nel luogo della tristezza, al Cimitero Bellu dove ci sono tutti quelli che una volta facevano parte della nostra famiglia. Adesso riposano lì, coloro che hanno composto una vera e propria cittadella dei morti. Scrittori, pittori, vecchi politici si sono radunati per passare l’eternità insieme, passati anche loro nel mondo dei giusti. Alcuni di loro, hanno misteriose cappellette tombali costruite tempo addietro. Il terreno è stato donato dal barone Barbu Bellu che ha prestato il suo nome a un luogo di tristezza e sospiri. Il barone fu un uomo di mondo implicato attivamente nella vita sociale della sua epoca. Quando ha fatto la donazione era il Ministro della Cultura e della Giustizia. Si vociferava che lo fece sotto la pressione di C.A. Rosetti, con cui era amico e che all’epoca era il sindaco della Capitale.

    Claudio entrò nel cortile e mi aspettava davanti alla porta. Quando la aprii mi ha accolto con un bellissimo sorriso bambinesco, come se fosse un raggio di sole. Gli occhi gli si sono illuminati e con gioia mi dice:

    Buongiorno, nonno! Siamo venuti a portarti con noi.

    Si avvicina e mi avvolge con le sue braccine per la vita. Lo tiro su con fatica, mette la testa sulla mia spalla mentre gli accarezzo i capelli dorati e morbidi come la seta. Alza la testa e mi guarda, sa che mi viene da piangere, le ho sentite arrivare quando avvicinò la mano per accarezzarmi la guancia. Sì, erano lacrime di gioia. Lo lascio scappare dalle mie braccia e si siede sull’ultimo scalino. Mi prende per mano e adatta il suo passo al mio. Mentre ci indirizziamo verso la macchina dove ci stava aspettando mia figlia, Angela, con suo marito nonché il padre di Claudio, Dan, mi chiede curioso:

    Nonno, perché il cimitero si chiama Bellu?

    Eh, piccolo mio. Questo nome è di un componente di una vecchia famiglia di Aromuni che erano del rango del barone austriaco. L’hanno ereditato da Constantinos Bellos che è stato uno zio del barone e ha ricevuto il titolo nobiliare proprio dall’imperatore Francesco I. Il terreno dato in dotazione aveva quindici ettari e fu un immenso giardino di arance. Anche se sono stati offerti terreni anche dagli antichi Văcărescu, motivo per cui è così grande. Ma tu sei troppo piccolo per comprendere. Ti racconterò di più quando crescerai e sarai più grande.

    Quanto grande, nonno?

    Diciamo fra dieci anni.

    Gli stringo la mano, è così morbida e vellutata, è la prole della nostra famiglia. Lo lascio con Angela e Dan alla tomba della nostra famiglia.

    Mi dirigo verso il punto in cui sono sotterrati nella fossa del dimenticatoio con le loro vite, uno vicino all’altro, mio padre Voicu, mia madre Flavia e Viki, mia moglie.

    Da qui non sento più le loro voci. Le dimenticherò con il tempo. Alcune volte penso di aver versato l’ultima lacrima che mi ha soffocato, vedendoli senza forze, in un reliquario senza che possano lavare via i loro peccati, vestiti per l’eternità negli abiti del destino.

    C’è un posto anche per me, fra quello di Flavia e Voicu, mio padre, con il quale ho avuto un rapporto molto difficile. Davanti a lui mi sentivo timido, era abbastanza critico, a tutte le mie azioni trovava un mondo per rinfacciarmi qualcosa. Chissà, forse è stata colpa del fatto di essere stato padre quando, in realtà, non se l’aspettava. Ho avuto una relazione tesa. Qualche volta, leggevo nei suoi occhi, giudizi negativi perché doveva essere realista, doveva dirmi la verità in faccia, non doveva sopraffarmi con le lodi, anche se ogni tanto le meritavo.

    Altre volte, mi sorrideva, mi faceva una pacca sulla spalla come se fossi un adulto. Pensavo di prendere il volo, ero felice, mi serviva così poco per volergli bene.

    Capii questo solo quando era sul punto di morire. Ero un uomo fatto e compiuto, ma non potevo accettare la separazione da lui. Sentivo come se una parte di me si stesse staccando. Una parte che non sarei mai più riuscito a recuperare. Avevo deciso di non andare all’ospedale per vederlo andare via, per vederlo come mi stava lasciando ancora più solo. Affinché il mio ricordo di lui fosse vivo e senza la vista del suo ultimo respiro.

    ***

    Anche Flavia, colei che mi aveva dato la vita, si era spenta. Sono rimaste solo bare marce piene di domande. Sono a fianco alle tombe sull’onda dei ricordi. Io, che non ho capito se fra di loro c’è stato amore. Erano solo loro due, giovani e soli, una volta, tanto tempo fa, quando il tempo da cui si poteva trarre un qualche ricordo era già passato. Rimase solo una triste e sola realtà, quella in cui si sono dispersi per le strade senza speranza, di nessuno.

    Qui ci sono loro. In tombe che hanno racchiuso parole. Ci sono mura che fanno da guardia alle voci che rimbombano fra le lacrime amare. Tutte di giovane età, tagliate fuori dagli attimi vissuti e incatenate per l’eternità, ingoiate da loro con amarezza e con germogli crudeli che non sono più sbocciati. Tombe piene di parole il cui futuro è stato sepolto e sono state condotte sulla strada dell’eterno rimpianto, nel triste cimitero, con tristi e fredde fosse, sepolte con tutto il loro bagaglio, ricordi inclusi.

    ***

    Sono passate altre due settimane, sento di nuovo la voce di Claudio che mi chiama:

    Vieni nonno che se no partiamo senza di te!

    Come sono volati gli anni. Di fronte ad una simile minaccia come dovrei rispondere? Esco vestito con il mio completo e la cravatta nera. La mia tenuta per andare al cimitero. All’inizio mi sembrava che lì riuscissi a parlare con loro. Alcune volte andavo via sorpreso dal fatto che potevo liberare la mente dai pensieri, che avessi una risposta alle domande; altre volte, invece, andavo via con nuovi quesiti. Non potevo vivere senza essere lì con loro.

    Sali davanti, nonno, ha detto la mamma che finché si muove è il suo posto. Dai a me il sacchetto con l’offerta, riesco a portarla.

    Erano passati due anni da quando era morta Viki. Stavamo andando a fare un’offerta proprio alla sua tomba, ci eravamo già messi d’accordo con il prete. Sono lieto di vedere che loro non sono intimoriti dal momento in cui mi dovranno portare qui, dove oggi vado sulle mie gambe.

    Ho dato retta a Claudio, mi dirigo verso la macchina, lui veloce e agile, mentre io con un’immensa fatica. Non riesco a portarmi più dietro neanche la mia ombra. Molte volte non riesco più a vivere nel presente, sento la forza del tempo passato che si oppone. Mi ripeto in mente, all’infinito: sono Florin Iorga, sono passato attraverso la vita con una forza di volontà tale che mi ha permesso di avere un’azienda di successo, una famiglia e un posto accanto a loro per l’eternità.

    Guardo fuori dal finestrino, alzo lo sguardo, cerco il mio angolo di cielo, lì dove si trova la porta che dovrò attraversare quando arriverà il mio momento e mi verrà rubata l’eternità degli occhi con i quali vorrei guardare indietro. Per rivedere loro, o almeno coloro le cui anime sono state scritte da me, con amore? Mi rendo conto di non avere più mattoni con cui costruire un altro futuro. Quelli che avevo ricevuto alla nascita sono finiti. Li ho usati per costruire di tutto. La casa dei miei sogni, grande, con tante porte e finestre, camere per gli altri che non sono nemmeno venuti. Eravamo per lo più soli, dispersi, perduti. Non ho pensato di costruirmi un luogo di preghiera in modo tale da cucirmi i vestiti dell’immortalità.

    Mi sembra che il cielo si stia allontanando. Sono così lontano da te, Signore. Adesso capisco che dovevo incontrare i tuoi sguardi nelle effigie delle chiese in cui sono entrato. Ti chiedevo di perdonarmi, di lasciarmi le gioie con le quali ho raccolto amore, con le braccia gracili della giovinezza ma che erano colme di speranza e sospiri. Inoltre, ti pregavo anche di lavare via i peccati dei miei genitori; loro a malapena potevano reggersi in piedi a causa del peso dei loro errori. Li attiravano verso un vortice nero fatto di illusioni dove sono spariti per sempre. Lì, in questo buio eterno che non pensavano potesse esistere quando erano giovani. Nooo, loro credevano solo nell’illusione dell’eternità e nell’attimo d’amore.

    Hei nonno, scendi che siamo arrivati. Vuoi una mano? –

    Mi prende per mano con un gesto audace che sembra superare la timidezza di un bambino della sua età. Tutto d’un tratto sembra che sia più grande e forte di me. Il tempo mi ha affaticato lasciando leggere tracce del genio della natura. Calcolò che poteva essere lui, adesso, quello che mi avrebbe aiutato a fare i passi che mi separavano dal posto che conoscevo così bene. Lì dove si trova tutta questa eternità e dove mi si sono fermate le lacrime. Il cimitero delle speranze, dove ho sotterrato il passato. Pensavo che sarebbero rimasti immortali. Non vogliamo sapere di essere predestinati all’incontro con le illusioni della vita. Portiamo avanti il pesante fardello dell’amore che così in pochi abbiamo conosciuto. Sì, alla fine, arriveremo tutti qui. Arriviamo con le illusioni della felicità, con i ricordi che restano sempre più lontani da noi fino al punto che non sappiamo neanche più se sono nostri o meno. Rimaniamo nudi, di noi stessi, di tutto quello che è stato, alleggeriti dai pesi portati, incoscientemente felici di conoscere l’altro mondo da cui nessuno è mai tornato...

    Camminando, sento i loro sguardi, come molti altri, come passati da un momento eterno che ho perso senza rendermene conto; che non aveva altro da portarmi se non l’amaro di alcune lacrime, simile a quella che si adagia sulle fredde labbra di chi mi ha abbandonato. Non so neanche se hanno ricevuto amore, se questa parola avrebbe potuto raccontare le illusioni della morte o della felicità. Prima andiamo vicino alla lapide di marmo che mia figlia Angela, la madre di Claudio, pulisce e poi appoggia dei fiori sulle tombe dei suoceri.

    Sono bellissimi. Angela, hai le candele? – lei annuisce, ha gli occhi in lacrime.

    Sono arrivato davanti alla croce con la foto di Viki. La mia mano si aggrappa disperata alla sua croce. Mi inginocchio, cerco di soffocare un gemito di dolore. La manica destra della mia giacca si è alzata mettendo in vista l’orologio che lei mi aveva regalato al nostro primo anniversario. Sento come mi si stanno rizzando i capelli in testa. Senza proferire parola, provo a muovermi e tutto d’un tratto mi rivedo, fra le lacrime, con lei, nel suo vestito rosso con sopra dei fiori di campo ed io nel mio completo che mi dava un’aria da uomo serio e che sa come portarlo. Era difficile sottrarsi al suo fascino. Quando ballavamo, ero perso nei suoi occhi, la donna che ho amato veramente, ci muovevamo come se fossimo entrambi in un corpo solo.

    Mi ero perso fra i ricordi, sospiro, è stata la proiezione della mente in questo posto. Allungo le braccia e dico con voce spenta: Viki, io ho scelto te, perché sei andata via? Cerco le parole come se fossero delle ancore che mi permettomo di restare qui, nel presente. Lancio un altro sguardo annebbiato dai ricordi. Sono incapace di leggere nuovamente il suo nome scritto con lettere dorate. Sento solo che il tempo è mutato in qualcosa di implacabile. Mi prende e mi riporta indietro come un’onda. Poi il dolore si spegne con un sospiro dal quale restano solo delle tracce di lacrime. Siamo così vicini, ci separano solo qualche passo. Lei lì e io rimasto qui con il peso che mi grava sulle spalle con immenso dolore. Mi sembra di sentire dei sussurri, parole, che diventano sempre più chiare, sì, mi sta dicendo:

    "Florin, risparmia la mia anima sul calar del tramonto e portami alla luce divina affinché possa respirare l’amore che c’è in te, per poter capire la verità assoluta che tutti conosciamo, ma che nessuno ha conosciuto veramente, il significato della parola, amore."

    Il prete è vicino a me, aspetta che mi alzi, inizia la messa del ricordo funebre. Siamo tutti quelli che sono rimasti della nostra famiglia e quelli da parte di mio cognato, un brav’uomo, a cui voglio bene come ad un figlio. Non so da dove prenda vita tutta questa voglia di amare, proprio io che non ne avevo ricevuto. Le parole del prete sono come una tempesta che mi viene incontro, non capisco molto bene quello che sta dicendo, non riesco a concentrarmi. Vicino a me, mia figlia Angela con gli occhi in lacrime. Guardo di nuovo verso il prete sforzandomi di capire le sue parole:

    Signore, ricevi l’anima della tua serva Vittoria, nel luogo dei Tuoi santi, nel tuo eterno Regno dove spero anche io, Florin, tuo marito, di incontrare la tua anima, di trovarci e glorificare nel Tuo nome: nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

    Sento le gocce di acqua santa che il prete sta usando per benedire noi e la tomba di Viki. Claudio e Angela stavano, nel mentre, offrendo i pacchetti a coloro che si sono riuniti per la memoria funebre.

    Non c’erano più ne’ i miei genitori ne’ quelli di Viki. Mi chiedo, perché Dio ci mette sempre alla prova? Avrà pensato che lo avrei mandato via o che avrei fatto finta di non vederlo? Ha voluto testare fino a che punto arriva la bontà che c’è in me, il mio livello di comprensione e di perdono? Il destino ha giocato con noi, perché Dio voleva vedere la sofferenza, voleva mischiare le realtà delle persone coinvolte in questa storia famigliare così complicata?

    Mi sembra di non riuscire a muovermi, come se avessi fatto radici.

    -Hei nonno, perché piangi? – Claudio mi tira per il lembo della giacca.

    Cancello valli di lacrime che stanno scivolando sopra le rughe del mio viso.

    -Mi compiango.

    Mi metto la mano sulla fronte stanca dal tempo. Mi chiedo se riesce a riconoscere il luogo dei momenti passati, dalla nascita, quando il primo grido del bambino cerca Dio, per chiederGli amore nella solitudine del mondo, dove ancora non erano aperte le finestre del cielo piene dei Doni Divini.

    Chiedevo di poterle aprire, anche se sarebbe stato difficile e mi sarei fatto male quando l’uragano delle illusioni della morte mi colpirà e sarà freddo. All’inizio della vita chiedevo di poter dare amore dal quale crearmi una casa e un letto grazie agli incontri fra le due esistenze delle illusioni e della vita reale. Claudio mi osserva, aspetta che mi alzi. Inizio a dirgli cosa mi passa per la testa facendo piccoli passi.

    -Qui, piccolo mio, è il luogo dove veniamo buttati nel dimenticatoio, con tutti i nostri ricordi. Da qui non si sentiranno più i nostri passi, nemmeno le nostre preghiere verso Dio. Molte parole dalle quali avremmo potuto costruire un tetto di sogni che avrebbe potuto durare nel tempo. Affinché ci lasci vivere sotto di lui, un tetto senza nome, ma che era frutto dell’amore e di conseguenza non sarebbe mai caduto. Le mie preghiere non sono arrivate fino a lui, il Padre Onnipotente, o forse lui era troppo lontano, oppure la mia richiesta non era abbastanza convincente.

    -Lascia stare nonno, non ti rattristare perché io verrò qui, ti parlerò e tu vedi di rispondermi o di darmi dei segnali che mi permetteranno di capire che hai sentito. Sai una cosa? Quando morirai, metterò una campanella legata ad uno spago nella tua mano. Quando mi sentirai, tu dovrai tirarla così saprò che mi hai ascoltato. Che ne pensi?

    Per quanto la mia anima fosse affranta in quel momento, mi sono messo a ridere. Inizialmente piano piano, ma poi non sono più riuscito a trattenere le risate. Claudio mi guardava curioso e poi ha iniziato anche lui a ridere. A qualche passo da noi arrivarono Angela e Dan che sono rimasti stupiti nel vederci ridere insieme così forte. Questo bambino è così maturo e sveglio. Lo prendo per mano e proseguiamo....

    ***

    Una mattina di fine agosto, quando l’estate stava tirando il suo ultimo sospiro, alla porta di Adele si presentò mio padre, Voicu. Era una giornata soleggiata, sembrava che fosse passata sotto l’incantesimo di una giovane strega dagli occhi azzurri come il cielo che ha abbandonato i colori sopra di noi, creature conosciute ma comunque estranee da anni.

    Sembra impoverito da tutte i fardelli e le lotte della vita. È impaziente di dire qualcosa. Il suo sguardo mi attraversa. Più lo seguo, sembra che se siamo due personalità empatiche, più ci odiamo oltre ogni limite. Sicuramente aspettiamo con impazienza che questo momento inaspettato finisca. Io, che ero diventato cosciente della mia identità, riscoprendomi in ogni ambito: al lavoro, con Adele, con gli amici e questo solo dopo che ebbi il coraggio di andare via da lui. Colui che mi aveva cresciuto come sapeva, senza tener conto dei miei pensieri e delle mie emozioni. Lo vedo davanti a me con il viso fragile, in carne ed ossa, pronto ad andarsene, ha paura del tono che avrà ogni mia parola. Non sapevo cosa volesse dirmi, avrebbe potuto avere ripercussioni su tutta la mia vita.

    -Entra, non stare sulla porta. – cerco di nascondere il mio sguardo stupito, non mi aspettavo di rivederlo così presto.

    -No, non entro, Florin sono di fretta.

    -Passa la mano fra i capelli folti e ingrigiti e se li sposta sopra la testa.

    - Sono venuto a dirti che dobbiamo andare in un posto dove non avrei mai voluto che ci trovassimo insieme.

    Abbassa lo sguardo come se fosse un colpevole davanti alla Corte Suprema.

    Era invecchiato con una velocità incredibile, Voicu, mio padre. Sembrava che la morte lo stesse seguendo ovunque e che stesse in agguato senza volerlo portare via, ancora.

    Si liberò di me, ero cresciuto, non doveva più preoccuparsi. Era scarcerato. Era un personaggio strano, avvolto da un’aura di tristezza e mistero, molte cose non era ancora riuscito a portarle a termine perché si rassegnava in fretta. Erano tutte domande alle quali non aveva risposta, non riusciva a riconoscere la parte nascosta di molti avvenimenti. Indossa un cappello dal bordo largo come le ali di un uccello. Era cosciente di essere inciampato nei piccoli problemi della vita di tutti i giorni.

    Fra noi si era creato uno status di tensione. Io che non capivo cosa mi volesse dire e lui che non riusciva a spiegarmi meglio cosa volesse. Ho mio padre davanti. Siamo due estranei, ci guardiamo dubbiosi e distanti. Sta come un guardiano davanti alla porta. Sulla nuca si vedono i fili di capelli grigi. È alto, i lineamenti del viso sono rigidi, sempre triste,

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