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Folisca
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E-book148 pagine2 ore

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Info su questo ebook

È una notte d'estate del 1913 e una ragazza che sogna di riscattare la sua vita viene aggredita violentemente da chi per mestiere dovrebbe far rispettare la legge. Diranno che quello che è successo non è mai avvenuto. Diranno che era solo una prostituta, una poco di buono, una poveretta che si è suicidata con il veleno usato da quelle come lei. A smentire la versione ufficiale è il giornalista che non ti aspetti, quando ancora credeva nella verità. È il direttore del quotidiano socialista e presto farà tremare il mondo. Questa è la storia di Rosetta Andrezzi, personaggio realmente esistito, una giovane sciantosa, fragile e affascinante. Nei teatri italiani la conoscono come Rosetta di Woltery. Il suo nome verrà ricordato per sempre nelle canzoni della mala milanese, la leggendaria ligéra. Sullo sfondo di una Milano immersa nella Belle Époque, nella magia dei café chantant e della vivacità artistica di giovani letterati che si tuffano nella modernità, con l'apocalisse della Grande Guerra alle porte e le contraddizioni di una democrazia immatura, la storia di Rosetta, del suo amore e della sua breve vita diventano il simbolo di un periodo travagliato e ricco di fermenti.
LinguaItaliano
Data di uscita17 ott 2022
ISBN9788868514280
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    Folisca - Miriam D'Ambrosio

    eclypse

    136

    Miriam D’Ambrosio

    Folisca

    arkadia editore

    È una notte d’estate del 1913 e una ragazza che sogna di riscattare la sua vita viene aggredita violentemente da chi per mestiere dovrebbe far rispettare la legge. Diranno che quello che è successo non è mai avvenuto. Diranno che era solo una prostituta, una poco di buono, troppo vicina al mondo del malaffare, una poveretta che si è suicidata con il veleno usato da quelle come lei. A smentire la versione ufficiale, con i fatti, è il giornalista che non ti aspetti, quando ancora credeva nella verità. È il direttore del quotidiano socialista e presto farà tremare il mondo. Questa è la storia di Rosetta Andrezzi, personaggio realmente esistito, una giovane sciantosa, fragile e affascinante. Nei teatri italiani la conoscono come Rosetta de Woltery e in tanti scommettono sul suo talento. Il suo nome verrà ricordato per sempre nelle canzoni della mala milanese, la leggendaria ligéra. Sullo sfondo di una Milano immersa nella Belle Époque, nella magia dei café chantant e della vivacità artistica di giovani letterati che si tuffano nella modernità, con l’apocalisse della Grande Guerra alle porte e le contraddizioni di una democrazia immatura, la storia di Rosetta, del suo amore e della sua breve vita, diventano il simbolo di un periodo travagliato e ricco di fermenti.

    Miriam D’Ambrosio è nata a Sora, ha vissuto a Napoli, Pescara, Roma (con un piede in Ciociaria) e attualmente risiede a Treviglio, dove insegna Italiano e Storia in un Centro di Formazione Professionale. Laureata in Lettere, per anni ha collaborato con alcune testate nazionali, scrivendo soprattutto recensioni teatrali. Questo è il suo quarto romanzo dopo Fuori non è così (Barbera, 2014), Giuda mio padre (Luigi Pellegrini Editore, 2016), L’uomo di plastica (Epika Edizioni, 2018).

    © 2022 arkadia editore

    Collana Narratori Eclypse 136

    miriam d’ambrosio

    Folisca

    In copertina: illustrazione di Giovanni Beltrami (1860-1926)

    Realizzazione grafica A.DeCicco, Cagliari

    Prima edizione digitale ottobre 2022

    isbn 978 88 68514 28 0

    arkadia editore

    09125 Cagliari – Viale Bonaria 98

    tel. 0706848663 – fax 0705436280

    www.arkadiaeditore.it

    info@arkadiaeditore.it

    Folisca

    E mi giaccio scoperta e solitaria

    come una rosa sfatta nel sereno.

    alda merini

    1

    L’estate non mi è mai piaciuta e non mi è mai piaciuta la notte. Di giorno stavo all’ombra, in quella casa umida; di notte soffocavo, in tre nello stesso letto, tra sudori e umori, negli odori mischiati della prima giovinezza.

    L’estate era ricerca di riparo, fuga dal sole. Di quei mesi amavo solo il mattino presto, il cinguettio di vite libere e il frullo delle loro piume.

    Mi svegliavo molto prima di voi per uscire e stare nella luce che arrivava. Io la aspettavo nelle ore ancora fresche e nel silenzio, nella pausa dalle vostre voci, soprattutto dalla tua.

    L’estate per me è sempre stata buia e buio fu pure quel giorno di fine giugno, quando rientrasti dalla notte, sfatta e bella, sì, ancora bella, nonostante i denti rovinati, la pancia cadente, segnata da nove vite vomitate bestemmiando il Cielo, il luogo dove speravi che andassimo prima di vedere la luce, e la Terra, quello in cui avremmo dovuto trovare uno spazio per esistere.

    Figliavi di notte, sempre, come le bestie che devono difendersi dai predatori, costrette dalla natura a nascondersi scavando tane.

    La colpa dei tuoi denti marci l’hai sempre data a me. Prima di me, dicevi, la tua bocca era bella e profumava. Stuzzicavi i maschi già solo con un sorriso e, a causa mia, quell’arma non la usavi più.

    Io sono la nona. Dopo di me, il tuo tempo di sangue è finito e la vita non ti ha più abitato, anche se lui ha continuato a cercare, ubriaco, tra le tue gambe. E non lui soltanto.

    Quella mattina d’inizio estate mi guardasti con una specie di pietà nello sguardo, con occhi che non ti avevo visto mai o che non ricordavo. Mi dicesti: «Hai quasi tredici anni, io ho cominciato un po’ più tardi, ma tu… tu sei già pronta.» Mi guardasti con una specie di dolore rabbioso. «Il Cavaliere è un uomo gentile, sa come trattare una donna. È solo, la moglie è al Camposanto da qualche mese e la cameriera se n’è andata poco dopo la morte della signora. Vestiti, ti sta aspettando all’angolo.»

    «Ma io non sono una donna», e ti guardai.

    «Lo sei, nanin. Oramai, lo sei», e mi guardasti.

    Nanin. L’unica tenerezza concessa e non la sapevi nemmeno dire. Ti usciva stitica dalle labbra. Eravamo una davanti all’altra, diverse per altezza e forma. Non sono mai sembrata tua figlia e, tante volte, ho immaginato, ho voluto, ho creduto di non essere mai uscita dal tuo corpo. In fondo, che certezza potevo avere? Magari mi avevi trovato nel vicolo dei lavandai, in mezzo a panni da sbiancare con la cenere, o al ritorno da una delle tue notti, mentre piangevo in una cesta e, in quel momento, vedendomi più disgraziata di te, hai provato qualcosa di simile a un sentimento.

    Eri alta, ossuta, chiara di capelli e di occhi ed erano gli occhi la cosa tua più bella. Non il sorriso, come dicevi tu, ma lo sguardo capace di bagliori nella penombra. Una volta ho visto una pietra dello stesso colore al dito di una donna che usciva da teatro, senza guanti. Quella luce mi riportò i tuoi occhi.

    Tra noi non ci furono più sguardi, da quella mattina di giugno. Nei miei pochi anni a venire, ti incontrai un paio di volte, di notte. Finsi di non vederti ma non ti dispiacque.

    Ti avrei riconosciuta al buio dall’odore del tuo fiato, dal rumore del tuo passo sostenuto da ginocchia fragili, abituate alla pietra. A dieci anni iniziasti a lavare lenzuola, abiti e tovaglie dei signori: lo raccontavi sempre. Cumuli di colli e maniche da sbiancare, coperte da sbattere energicamente sul brellin (*tavola di legno), in piedi o inginocchiata per ore in uno dei lavatoi sul Naviglio Grande. In un tempo in cui si lavavano più gli indumenti che i cristiani, tu ereditasti il mestiere da tua madre, ma non ti bastò.

    Vicino al vicolo dei lavandai c’era una bottega che vendeva candeggina, spazzole, sapone e liscivia, quel paltun che ti dava soddisfazione e rendeva più bianca ogni cosa, tranne l’anima. Il proprietario era un uomo generoso e ti insegnò lui a dosare per bene la cenere del carbone e a cuocerla mischiandola all’olio. Ci volle un po’ per realizzare una liscivia perfetta ma imparasti. Lui ebbe pazienza.

    Tornavi a casa con pezzi di sapone regalati e altri piccoli doni che non c’entravano nulla con il tuo mestiere di lavandaia. Potevano essere biscotti o frutta candita. Una volta rientrasti con un barattolo di marmellata di albicocche che lui aveva sottratto dall’ordinata dispensa di sua moglie. Nessuno mai ti fece domande.

    Gli anni vissuti, piegata sull’acqua a strofinare stoffe, lasciarono segni visibili sul tuo corpo magro e sulle mani rosse e screpolate anche ad agosto.

    Me le ricordo ruvide sulla mia faccia.

    2

    Il Cavaliere era un uomo piacente con cui dovevo essere gentile. Così disse mia madre. Era ancora giovane, aggiunse, anche se a me sembrava di no. Mi avrebbe accolto nella sua casa per fare i mestieri e avrei imparato a leggere bene, a ricamare, a cucire, meglio di come facevo già. Sarei stata a contatto con i signori, avrei imparato a comportarmi, a rispondere ai desideri, alle esigenze del padrone di casa, un uomo solo da troppo tempo che aveva voglia di freschezza. Dovevo essere contenta. Nella casa di mio padre e mia madre eravamo rimasti in cinque, compresi loro due, che quasi mai si incontravano.

    Lei se la portava via la notte e tornava sempre con qualcosa di nuovo: un cappello, un consiglio per truccare i segni del tempo, uno scialle, guanti di raso ma non sapeva che farsene, un abito usato. Lui si lasciava rapire dal giorno, tra un bicchiere all’osteria e un piccolo furto organizzato con la sua compagnia di vecchi amici. Questa alternanza giorno-notte accadeva spesso, senza preferenza di stagione.

    Tolte io e mia sorella Maria, che sarebbe andata sposa in autunno, in quella casa di via Vetraschi restava mio fratello Arturo, quello a cui ho voluto un bene grande, come se fossi io la maggiore, colei che deve proteggere, ordinare e farsi obbedire.

    Anche lui mi voleva un bene grande, io lo so, ma non ce lo siamo detto mai. Tra noi, non sapevamo usare tanto le parole. Valevano più i gesti, contavano gli occhi. Gli occhi hanno importanza, si capisce tanto se li sai guardare.

    Gli occhi del vedovo erano neri, nerissimi e le ciglia gli facevano ombra sul viso. Erano belli ma non li ho mai saputi capire veramente. Di lui, più degli occhi, ricordo l’odore prepotente e selvatico, che mi resta ancora nelle narici.

    Mi nutriva bene, non voleva che dimagrissi. Era gentile sempre, davanti agli altri e anche quando restavamo soli, in quelle grandi stanze. Certe volte si lamentava della mia assenza, alla fine di tutto, mentre ero ancora sotto di lui. Mi abituai al peso di un corpo addosso, ancora più pesante d’estate, ai respiri, ai fiati, ai versi umani, al sudore. Volevo che si lavasse più spesso di quanto non facesse.

    Baciai molto poco in quegli anni e, a dire il vero, pure dopo. Non mi piaceva farlo e non ero obbligata. Baciare è toccare l’anima che si nasconde dentro il sapore dell’altro. Non si è fatti per questo contatto, è troppo. Me l’hanno detto tutte le compagne incontrate. Solo se si ama si può e io credevo di non potere mai.

    Raramente qualcuno ha cercato con prepotenza le mie labbra, spingendo la lingua contro i miei denti serrati. Non era prevista quella intimità. Non era lecita. Il bacio esclude la finzione, non ci si mischia se c’è disgusto. Il ribrezzo ti fa chiudere gli occhi. Anche la noia. Puoi lasciare il tuo corpo per un po’, puoi essere altrove mentre i maschi giocano, gioiscono, falliscono, raccontano e ti sudano addosso. Ma con il bacio no, sei presente, sei lì intera. Intatta. Il bacio contempla il sentimento. Contempla l’abbandono.

    Questo discorso non è facile da capire.

    Una volta, per strada, una donna mi fermò e disse: «È vero che voi altre non baciate mai? L’ho sentito dire ma mi sembra così strano. Lo prendete dappertutto e poi fate le schizzinose per un misero bacetto da dare ai nostri poveri mariti!»

    Camminai oltre. Non si può rispondere a chi non preserva nulla di sacro.

    Fu una vecchia amica del Cavaliere a rivelarmi l’importanza del bacio. «Non si bacia chiunque, ricordalo. È un permesso da accordare poche volte o mai. Se baci e ti piace e vuoi restare in quell’odore, in quel sapore, sappi che sei in pericolo.»

    «Pericolo?»

    «Pericolo, sì», disse e sorrise.

    Si chiamava Leda. Era una donna robusta, alta, con la pelle rosa e i capelli biondi

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